Terremoti imprevedibili e terremoti evitabili

Siamo tutte e tutti a due passi da un terremoto. Si tratta anche, a volte, di eventi sismici che sconvolgono la vita e che costringono a scendere a patti...

Siamo tutte e tutti a due passi da un terremoto. Si tratta anche, a volte, di eventi sismici che sconvolgono la vita e che costringono a scendere a patti con la perdita di tutto quello che si aveva, che si viveva quotidianamente come normalità, con una tranquilla calma che dovrebbe essere una qual specie di consuetudine nella vita.
Ed invece la vita non è mai così rasserenante da consentirci di dormire tra quattro guanciali o sugli allori. Scegliete voi la metafora che preferite, intanto non sarà mai quella veramente giusta.
Molto spesso diamo per scontate tantissime cose, eventi, circostanze che ci circondano: diamo per scontato che non possa mai crollare un paese intero. Ed invece accade. Arriva un’onda sismica di magnitudo 6.5 della scala Richter (forse nella vecchia “Mercalli” sarebbe stata al livello massimo: distruzione totale) e letteralmente atterra palazzi storici e palazzi novelli, atterrisce certezze, coscienze, fa emergere insicurezze, dubbi, uno smarrimento assoluto, incontrollabile. Il panico.
D’un tratto, l’ambiente in cui siamo vissuti sempre non esiste più e quindi perdiamo ogni punto di riferimento sociale, civico, ambientale in ogni senso.
Sotto le macerie di Norcia e dei paesi umbri e marchigiani colpiti dal sisma c’è molto di più di tonnellate di calcinacci, tegole e tutto ciò che era nelle case ormai invisibili e impalpabili. Sotto c’è la vita non uccisa, ci sono le anime di corpi che vagano nelle tendopoli e che dovranno affrontare un inverno tra alloggi improvvisati in vagoni dismessi dalle ferrovie, in alberghi, da amici e parenti, in strutture prefabbricate o, peggio del peggio, in macchina.
D’un tratto la tua vita è ridotta a metà, non esiste altro che un futuro inconcepibile. Ti restano nome, cognome sulla carta di identità che riporta, come se fosse una beffa ormai, la via dove vivevi.
I terremoti fanno parte della vita della terra, sono il suo modo di muoversi, di farci sentire che sotto di noi non c’è soltanto crosta, manto e nucleo, ma che c’è qualcosa che agisce, che non è inerte e passivo.
Eppure, quando tutto è tranquillo, quando il terremoto non c’è, ci sono le nostre certezze. Quando si aprono le crepe nel terreno o sugli archi delle basiliche lontane anche due, trecento chilometri dal fulcro della catastrofe, le certezze smettono di essere tali e la paura arriva, affratella, unisce e fa superare divisioni prima insormontabili.
Al genere umano serve sempre una disgrazia di enormi dimensioni per ritrovare l’umanità che perde nel tempo “di pace”, diciamo così… “di quiete”.
Ma se serve sempre ritrovare la fratellanza dopo una disgrazia, allora significa che questa società, fatta di umani che vivono o nell’indifferenza o nel contrasto con la natura, è continuamente infelice, litigiosa, perversamente contrapposta in base ad interessi di varia tipologia: economici, sociali, intellettuali.
L’arroganza delle parole urlate diventa afasia, la tribolazione che si patisce per inezie e paure giornaliere legate a mille fisime diventa istinto di sopravvivenza.
Questo non è un trattato di filosofia; è soltanto una riflessione sui terremoti fuori e dentro noi.
E ve ne sono anche di irregistrabili dagli strumenti del centro nazionale di sismologia: sono i terremoti sociali, quelli che sono causati non dallo sfregamento delle placche sotterranee che creano nuove faglie, nuove cicatrici permanenti, ma da persone che perseguono lo scopo di diminuire gli spazi di partecipazione, di una democrazia fallace, imperfetta, claudicante, debole e depressa.
Ma, nonostante tutto, una democrazia ancora apparentemente tale, un livello d’asticella non superabile da chi come le grandissime banche internazionali sognano il superamento definitivo delle protezioni e delle tutele di quella grande massa di lavoratori che ha smesso, da tempo, di avere coscienza di sé stessa.
L’Italia, la Repubblica, il popolo dei più deboli, quello che non sbarca il lunario se non a fatica e nell’incertezza più totale, non si merita un altro sisma. Il 4 dicembre non serve un’altra cicatrice al Paese. Il 4 dicembre possiamo solo evitare che una eversione mascherata da innovazione e modernità (di cosa poi ancora non s’è ben capito) diventi concreta. Per questo, anche per ridare alle macerie materiali una dignità e una speranza di ricostruzione vera, fatta non solo di calce e mattoni ma pure di diritti sociali e civili che, altrimenti, andrebbero persi, dobbiamo rovesciare una valanga di NO nelle urne elettorali referendarie.
Non possiamo proteggere completamente il Paese da terremoti imprevedibili. Proteggiamolo almeno da quelli che conosciamo e che, quindi, possiamo evitare. Basta una croce su due lettere: “NO”.

MARCO SFERINI

1° novembre 2016

foto tratta da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli