Spranghe, teser e tirapugni contro il diritto al lavoro

Una grande azienda, un corriere espresso multinazionale. Anzi, intercontinentale. Un picchetto di operai, sostenuti e anche appartenenti al SI.COBAS, e poi spranghe, teser e tirapugni per manganellarli, così come...

Una grande azienda, un corriere espresso multinazionale. Anzi, intercontinentale. Un picchetto di operai, sostenuti e anche appartenenti al SI.COBAS, e poi spranghe, teser e tirapugni per manganellarli, così come faceva un tempo la polizia di Scelba: senza alcuna pietà. Dall’altra parte i lavoratori venuti da fuori con dei bastoni improvvisati con assi di legno dei bancali per le spedizioni. Qualche pietra che vola. La polizia che resta a guardare per un bel po’ di tempo senza intervenire.

Per unanime condivisione di giudizio, i lavoratori e i sindacalisti affermano che «…stavolta ci poteva scappare il morto». Partono le giuste indagini della magistratura per capire se sia stato uno scontro tra lavoratori esasperati dai licenziamenti, fuori dalla fabbrica, e lavoratori esasperati dal blocco del picchettaggio, dentro la fabbrica, oppure se si sia trattato di una spedizione punitiva contro coloro che erano venuti a protestare da fuori città.

Fatto sta che a terra resta un lavoratore con la testa fracassata, il naso spaccato e il ricovero in codice rosso successivo all’ospedale. Fin qui la cronaca, incerta, zoppicante e tutta da verificare. Se ne è preoccupato anche il ministro del lavoro Andrea Orlando, perché sarebbe grave già se si trattasse di lavoratori che non solidarizzano con loro stessi compagni di sventura; ma sarebbe ancora più grave se l’aggressione fosse stata mossa con altri intenti, senza – diciamo così – l'”alibi” dell’esasperazione per lo stop della produzione indotto dal picchettaggio.

Sono due ipotesi in campo che lasciano però poco spazio ai dubbi se si guardano i video pubblicati dai quotidiani e dalle agenzie di informazione: l’aggressione ai lavoratori che protestavano esternamente all’impianto di spedizioni c’è stata. Tanto basta per affermare che la protesta estrema contro 280 licenziamenti, che segue ad altre simili messe in atto sempre per delocalizzazioni produttive e trasferimento della forza lavoro stessa (ma non la stessa) in altri centri di smistamento delle merci, ha infastidito non poco chi dirige la musica.

La maggior parte dei lavoratori che perdono il lavoro in questi comparti sono migranti, quindi ancora più esposti a tutta una serie di angherie anti-contrattuali, ad una ignoranza voluta dei loro diritti elementari una volta inseriti nel mondo del lavoro. Un mondo che tutto sembra, davvero, tranne che “del lavoro“: precarietà, ritmi incessanti e licenziamenti in tronco con la motivazione della necessaria riduzione delle maestranze per via della riduzione della domanda, della crisi economica anche legata al Covid-19.

Nonostante i dati ci dicano che proprio i settori che hanno gestito le spedizioni di ogni tipo di merce, legate a doppio filo all’aumento dei volumi di vendita online di questa immane massa di prodotti, abbiano conosciuto una espansione della domanda e non abbiano conosciuto la crisi verticale patita invece da altri ambiti del commercio, ebbene nonostante tutto ciò, rimodulano gli organici per avere sempre meno costi di produzione e dividere l’eguale lavoro di prima in meno strutture aziendali.

Affrontare poi le proteste operaie con la repressione violenta è un salto di qualità negativa che inquieta e fa indignare (almeno dovrebbe), perché alla insopportabile restrizione dei diritti, alla porta chiusa in faccia ai lavoratori con una lettera di licenziamento pretestuosa, si aggiungono le botte, le intimidazioni che sono l’esatto contrario di un mondo del lavoro che deve reggersi sul confronto tra le parti. Anche aspro, anche duro, ma mai repressivo, violento, fino a negare il diritto di sciopero, di picchettaggio persuasivo, di semplice e legittima protesta per poter vivere dignitosamente invece che dover sempre elemosinare i propri sacrosanti diritti.

I lavoratori, invece, ricevono come risposta calci, pugni, bastonate.

Qualcuno pensa di poter dire, davanti a tutto ciò, che la lotta di classe è solo un vecchio retaggio del passato e che non esistono più sfruttati e sfruttatori? Naturalmente lo si può affermare, fregiandosi anche del titolo di “sinistra“, elogiando il liberismo e magnificando le libertà civili che il capitalismo ci elargisce così generosamente e ci permette di condividere. Basta non spingersi oltre, però…

Se quei 280 lavoratori licenziati avessero protestato per altro, magari per la rivendicazione di diritti civili, avrebbero avuto addosso l’attenzione violenta dei nefoascisti e sovanisti che vedono come fumo negli occhi la difesa delle differenze nell’affermazione dell’uguaglianza. Se invece partono dalla loro città e si muovono per mettere in piedi un’azione di blocco della produzione per difendere i diritti di tutti i loro colleghi, oltre che di stessi; se lo fanno con un sindacato, con coscienza di ciò che stanno facendo e di ciò per cui stanno lottano e non improvvisando e lasciando tutto all’istintiva casualità dello svolgersi degli eventi, allora meritano l’attenzione di un altro tipo di squadrismo.

Che diritti potrà mai avere un lavoratore di una azienda dove si gestisce in questo modo il rapporto con la protesta che cerca di arrivare ad una soluzione pacifica, sindacale e legale della controversia? Se per rompere un picchetto si finisce col rompere le teste degli operai, è ben difficile che altri diritti siano riconosciuti come tali. Partendo da quelli contrattualmente previsti e che possono rimanere, purtroppo, tranquillamente solo sulla carta.

Anche gli scritti che rimangono possono essere lettera morta e parole al vento. Ma le botte lasciano i segni e lasciano impresse nella coscienza e nella memoria di chi le ha prese ferite che si rimarginano solamente se si torna anche nella legalità, ma soprattutto nel rispetto della dignità di ogni essere umano, di ogni cittadino, di ogni lavoratore. Ciò vuol dire che nessuna azienda in Italia dovrebbe permettersi di reprimere le proteste operaie, di spingersi oltre il confine del rapporto sindacale: visto che tutto si uniforma alla democrazia costituzionale che fonda la Repubblica sul lavoro e che tutela i lavoratori in quanto parte essenziale della vita del Paese, perché non lavorano soltanto per sé stessi come i padroni.

I danni della destrutturazione della sinistra sociale e politica, fatta nel nome della condivisione delle responsabilità di governo, della governabilità e delle compatibilità tra economia e politica, sono enormi e non sono meno evidenti quando la critica potrebbe riguardare, apparentemente, soltanto il sindacato e soltanto i lavoratori.

Non possiamo sentirci esclusi da questi dibattiti, da queste repressioni, da queste discriminazioni violente nei confronti di chi le subisce, considerando magari il tutto una eccezione che conferma la regola della contrattazione tra imprenditori e mondo del lavoro.

Non possiamo sentirci esclusi e nemmeno possiamo dire di esserlo, perché senza la difesa dei fondamentali diritti di chi lavora (e di chi non lavora da troppo tempo) crolla tutto l’impianto sociale della Repubblica, tutto un architrave democratico cui si uniforma ogni singolo gesto quotidiano che facciamo e che possiamo continuare a fare.

Senza la difesa della democrazia in fabbrica e in ogni posto di lavoro non c’è difesa della democrazia oltre i cancelli delle aziende, nella vita di ognuno di noi.

MARCO SFERINI

12 giugno 2021

foto: screenshot

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