Siria, un’altra guerra «fino a prova contraria»

Assad nel 2011 volevano farlo fuori un po’ tutti: la Turchia, le monarchie del Golfo, gli americani e Israele, lo stato che più di tutti si giova dalla disintegrazione delle nazioni arabe. Un tragico giochetto che non cambia mai e che ora è rafforzato dall’arrivo al posto di consigliere della Sicurezza di John Bolton, il quale tempo fa ha dichiarato «che il migliore accordo da fare con l’Iran è bombardarlo»

Tira aria di guerra su una guerra che non finisce mai. Vedremo cosa faranno adesso gli Usa che dichiarano di volere proteggere i siriani dalle presunte armi chimiche del regime. La reazione Usa appare in queste ore probabile. L’Italia, se non usano le basi Nato, sarebbe fuori gioco, e per fortuna: l’ultima volta che si è accodata ai raid alleati è stato per bombardare Gheddafi in Libia con i risultati disastrosi che sappiamo. L’Italia è ancorata saldamente al tavolo dei perdenti della seconda guerra mondiale (come la Germania senza averne il peso economico) e non ha nessuna voce in capitolo, neppure a casa sua.

È bene ricordarlo nel momento in cui si sta tentando di insediare il solito governo a sovranità limitata. Altro che «sovranismo».
Sotto pressione per un intervento sono anche il premier britannico, la signora May, e il presidente francese Macron, assediato dai ferrovieri mentre Trump si dibatte, come il Berlusconi dei tempi belli, in un affaire legale con una delle sue «olgettine».

Israele, il poliziotto occidentale della regione, gratificato da Trump con Gerusalemme «capitale», ha già colpito con un raid in Siria senza aspettare il via libera di nessuno, ma ha detto per lo meno una verità: si colpisce Assad in Siria per colpire l’Iran e i loro alleati Hezbollah in Libano, gli unici arabi che hanno resistito con successo (2006) allo stato ebraico.
Perché questo è stato ed è essenzialmente il conflitto siriano: un attacco al maggiore alleato di Teheran, all’unico Paese arabo che si schierò con gli ayatollah nella guerra di Saddam Hussein all’Imam Khomeini nel 1980. Se adesso diventa anche una guerra contro la Russia dipende dall’intervento Usa: si va da un’opzione limitata, come un anno fa con il lancio di missili, a una più allargata che rischia di mettere in conflitto Washington con Mosca.

Assad nel 2011 volevano farlo fuori un po’ tutti: la Turchia, le monarchie del Golfo, gli americani e Israele, lo stato che più di tutti si giova dalla disintegrazione delle nazioni arabe. Un tragico giochetto che non cambia mai e che ora è rafforzato dall’arrivo al posto di consigliere della Sicurezza di John Bolton, il quale tempo fa ha dichiarato «che il migliore accordo da fare con l’Iran è bombardarlo».

Non è un caso che dopo l’intesa di Ankara tra Putin, Erdogan e Rohani, si tenti di creare una asse tra sauditi e israeliani con la benedizione americana. Gli occidentali e i loro alleati hanno perso la geopolitica di questa guerra e ora tentano di salvare la faccia agitando le immagini dei bambini siriani. Le prove non  servono: non sono state necessarie per montare il caso Skripal e tanto meno per condurre la guerra in Iraq contro Saddam, visto che quelle portate erano false.

Speriamo, ma ci sono ben pochi segnali al riguardo, che gli Stati uniti si comportino meglio di quanto abbiano fatto in Afghanistan nel 2001, in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2011 – tutti disastri recenti – per non parlare dei precedenti come il Vietnam, quando usavano il napalm, sostituito nei conflitti successivi dall’uranio impoverito e dalle bombe al fosforo. Nessuno che si chiede come mai i ribelli di Jaish al Islam di Douma non si siano arresi prima, evitando di tenere in ostaggio la popolazione. Ma era questo che serviva: bisognava giustificare un altro intervento esterno su un campo di battaglia dove sul terreno sono presenti tutti gli eserciti e le milizie possibili.

Quanto al ruolo «protettivo» degli Stati uniti forse i curdi siriani avrebbero qualche cosa da dire, visto che sono stati mollati ai turchi dopo avere collaborato con Washington alla caduta dell’Isis a Raqqa. Eppure in quell’area, a Manbij, sono schierati oltre duemila soldati Usa mentre le truppe delle compagnie di sicurezza americane pattugliano proprio la ex capitale del Califfato in una zona dove è attiva una coalizione di curdi e arabi. I cieli e la terra di Siria pullulano di aerei, droni, missili, soldati in divisa, miliziani e mercenari: in ogni momento è possibile un «incidente» fatale.

La verità è che gli Usa se intervengono lo fanno per coprire il loro fallimento, il cambio di campo della Turchia e gli insuccessi clamorosi dei loro alleati che volevano abbattere il regime di Assad, in primo luogo l’Arabia Saudita.

Mai che gli Usa intervengano a «proteggere» i palestinesi di Gaza: mettono sempre il veto all’Onu a ogni indagine su Israele mentre in Siria non hanno bisogno di prove. Questo è il ben noto «doppio standard» per cui da tempo non solo gli arabi ma anche noi non ci fidiamo degli Usa: almeno fino a prova contraria.

Ma veniamo al nocciolo della questione. I raid occidentali, se ci saranno, muteranno in meglio le condizioni dei siriani? Evidentemente no. Anzi, daranno un’altra spinta alla balcanizzazione della Siria.

La Turchia se ne è già aggiudicata un pezzo a spese dei curdi e ci metterà gli arabi al loro posto. Il Paese verrà spezzettato in cantoni dove il regime – che proverà con l’aiuto di russi e iraniani a recuperare i pozzi petroliferi – tenterà di inserire le minoranze, cristiani, sciiti e sunniti, a fare da cuscinetto con i sunniti. Idlib, «discarica» dei jihadisti, è già diventata la tomba cupa e carica di presagi oscuri della rivoluzione siriana. Molti profughi se torneranno a casa non troveranno mai più il loro indirizzo.

Resterà probabilmente una Siria «utile» in mano ad Assad ma non in pieno controllo perché nel mirino di Israele, che nei piani americani dovrà fare il guardiano regionale. Ma il vero problema sarà cosa fare contro l’Iran e come tenere d’occhio Erdogan, un alleato della Nato che ha cambiato campo. E allora, di fronte a problemi più grossi, si potranno dimenticare la Siria e i siriani, come si sono «dimenticati» gli afghani, gli iracheni e i libici.

ALBERTO NEGRI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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EsteriSiria e Libano

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