Simone Weil, addestramenti trasformativi

Scaffale. A proposito del libro della filosofa «Piccola cara. Lettere alle allieve», edito da Marietti
Simone Weil

Tra il 1931 e il 1938 la filosofa Simone Weil insegnò in vari licei di diverse città francesi. Il suo impegno pedagogico e l’importanza che dava al processo educativo è immortalato nello scambio epistolare che ebbe con alcune sue ex-allieve, negli appunti che queste ultime prendevano a lezione, negli schemi delle lezioni che la stessa Simone Weil preparava e nelle testimonianze di tutti e di tutte coloro che la conobbero negli anni di insegnamento.

Grazie al prezioso lavoro di cura di Maria Concetta Sala possiamo oggi leggere queste corrispondenze tutte d’un fiato e nella loro interezza (Simone Weil, Piccola cara…Lettere alle allieve, Marietti, pp. 83, euro 17). Nella sua introduzione al volume, sembra quasi di poter entrare nell’aula dove quell’insegnante d’eccezione faceva lezione. Se ne coglie per lo meno l’atmosfera che trapela da quella profonda fiducia nel sapere inteso come azione trasformativa, come elemento modificatore di sé e della propria capacità di lettura dei molteplici significati del testo-mondo.

Tra il tepore dell’attenzione e la gravità del tono e degli accenti, le parole che la filosofa francese rivolge alle sue ex allieve, denotano una premura e una schiettezza in cui ne va del valore autentico di un processo educativo che riguarda la formazione di tutta la personalità umana e non solo delle «sue» competenze e in cui educazione, istruzione e cultura sono profondamente intrecciate.

Prima che sui libri, l’educazione è un lavoro su di sé, una trasformazione dell’essere, un rivoltare tutta l’anima nel senso socratico del termine. Per uscire dalla «caverna» è infatti necessario agire sull’immaginazione, su tutte quelle illusioni che impediscono un vero contatto con la realtà.

Per Simone Weil l’insegnamento teorico, mai slegato dalla sua controparte pratica, ha il compito di «strappare», dissodare e estirpare tutto ciò che ci spinge verso il basso e ci rende schiavi delle passioni e della potenza collettiva della società. Educare equivale a innalzare ai propri occhi ciò che non si vedeva, ciò cui non si prestava attenzione, non solo in sé ma anche fuori di sé.

Tale innalzamento equivale a un vero e proprio risveglio attraverso cui si scopre il proprio valore e la propria unicità e in cui si percepisce la presenza dell’altro e della realtà in tutta la sua irriducibilità. È solo apparentemente, infatti, che l’uomo pensa di dominare le forze che lo sovrastano. In realtà, quando si perde completamente la nozione di necessità, è da queste forze che è dominato.

Essere dominati dalle sensazioni significa essere raggirati dalla vita, perché per Weil la realtà della vita non è la sensazione, che è sempre egoismo, illusione, delirio di onnipotenza, ma è l’attività, sia del pensiero che dell’azione. Proprio perché l’azione del sapere comporta lo spostamento di una forza, non si tratta tanto di produrre astrazioni, ma di creare analogie tra le cose a partire dalla loro concretezza e particolarità.

Nel trasferimento d’energia non ne va semplicemente di uno spostamento da un luogo a un altro, ma di una trasposizione da un ordine a un altro. In questo senso, per Simone Weil, capire è sempre un movimento ascendente, un movimento che conduce su un altro piano in cui si afferrano, con la tenaglia della mente, i reali rapporti tra le forze che agiscono nel reale e nella soggettività.

In queste dieci lettere, seguite da tre frammenti, emerge come il lavoro didattico, nella strategia educativa weiliana, si divida in tre rami fondamentali che fanno parte di un unico grande albero. Un primo ramo fa riferimento all’istruzione che ha, come sua vocazione principale, quella di insegnare che cosa significa conoscere. Un secondo ramo è relativo all’educazione che deve suscitare delle motivazioni che sono la base necessaria di ogni azione. Il terzo ramo riguarda il ruolo della cultura che deve formare all’attenzione.

Insegnare l’amore del sapere significa predisporre all’attenzione intuitiva e all’accettazione autentica della vita e degli altri, non riportare tutto a sé, alla propria misura. Far entrare davvero il sapere nel corpo, come un nutrimento indispensabile, implica la liberazione dagli attaccamenti, dall’egoismo predatorio, dal senso di prestigio e di onnipotenza. L’educazione, intesa come disciplina interiore, consente di non essere preda di se stessi e dell’immaginario sociale. È un’arma indispensabile per imparare a conoscere la vita materiale che è sempre sottoposta alla necessità.

Proprio per questo è imprescindibile per Simone Weil andare in direzione di un superamento della divisione degradante del lavoro in lavoro manuale e lavoro intellettuale. Così come è necessario lavorare in direzione di una volgarizzazione delle conoscenze attraverso cui realizzare il legame tra conoscenze complesse e conoscenze comuni. Ciò che preoccupa Weil è l’indifferenza al sapere, il perdersi nella pura fantasia e, sebbene sappia che quando si è giovani si ha diritto a qualche illusione, sa anche che è meglio dire sempre la verità. In più si tratta di non perdere il prezioso nesso che unisce il segno al significato.

Nessun meccanismo verbale può creare verità. Solo una parola vera, frutto di un pensiero reale ancorato al proprio vissuto, può creare verità. Ecco perché è di fondamentale importanza portare esempi di vita reale, mettere in gioco la propria verità soggettiva nell’oggettività del sapere, far «sentire» il contatto con un sapere che agisce sulla vita reale, sul comportamento che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri.

Prestando molta attenzione al fatto che le relazioni educative sono asimmetriche e che molto spesso chi è nella posizione di allievo/a vive la fascinazione per il maestro o la maestra, Simone Weil cerca di far capire che, nonostante l’affetto che anche lei prova per le sue allieve, è necessario mantenere la distanza tra sé e l’altra. Una distanza necessaria per non scivolare in un «abuso di fiducia» e per lasciare lo spazio affinché ciascuno trovi il proprio ritmo di un libero respirare.

Non mancano i riferimenti alle prime esperienze affettive delle allieve che si rivolgono a Simone Weil per avere qualche consiglio. Anche qui si tratta di imparare ad amare nella distanza, di conciliare l’amore con la propria libertà per non fare dell’amore un pretesto per dominare l’altro. Come tutte le cose importanti della vita non si tratta di cercare ma di attendere.

La ricerca a vuoto, che non significa a perdere, è essenziale al sapere. Per il suo carattere pratico, agli occhi di Simone Weil lo studio corrisponde a un addestramento, a una ginnastica della mente, a un’abitudine in cui attraverso l’esercizio dell’attenzione, della critica e della costatazione si riesce a cogliere e a disattivare quel nucleo oscuro delle forze che sovrastano le relazioni tra gli individui.

Con grande fermezza, invita le sue allieve a non perdere tempo prezioso, a mettersi in contatto con se stesse e con ciò che fanno nella consapevolezza che l’attenzione è la vera «fatica» che insegna a chi studia a conoscere il lavoro e a entrare in un rapporto più intimo e reale con la natura.

Nella scuola non ne va solo di una presenza, ma della creazione di una comunità reale in cui ciascuno è chiamato a mettere a disposizione le proprie conoscenze nello sforzo di un’istruzione reciproca, nella persuasione che consente di dirigere la propria attenzione verso le cose di maggior valore. Nelle aule di scuole ci si vede e si è visti. Tra dedizione e rifiuto, la creazione di qualunque comunità prevede implicitamente un patto di fiducia, la disponibilità a creare un’intesa, un legame di affidamento in cui la relazione fa da garante all’assimilazione vera del sapere. La scuola ci aiuta a non mancare la nostra vita.

Nel corpo a corpo con il reale è possibile resistere allo sfacelo del presente solo guardando e impegnandosi nella creazione di una nuova civiltà, poiché la scuola è il motore primo che avvia una trasformazione della relazione simbolica e materiale che abbiamo con il mondo.

STEFANIA TARANTINO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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