Si sta tornando indietro

Oggi si sta tornando indietro: non lo scrivo per nostalgia di quelli che tutti noi consideriamo i “vecchi tempi” cui fare sempre e comunque riferimento. Lo scrivo perché sono...

Oggi si sta tornando indietro: non lo scrivo per nostalgia di quelli che tutti noi consideriamo i “vecchi tempi” cui fare sempre e comunque riferimento.

Lo scrivo perché sono convinto che la lettura neo-liberista che ha egemonizzato il pensiero e l’azione politica a partire dagli anni’80 sembra aver dimenticato il fallimento storico della lettura liberale “classica”.

Il mondo, nel corso del ‘900, ha imboccato strade del tutto impreviste dai teorici della civiltà liberale: associazionismo, conflitti di lavoro, sindacalismo, la vicenda bruciante dei tentativi d’inveramento statuale dell’ipotesi marxiana, emancipazione dal colonialismo, l’idea delle donne e degli uomini non più individui separati ma membri sociali.

E’ caduta definitivamente l’ipotesi centrale della vecchia cultura liberale: che l’indipendenza dell’individuo dalla società fosse il fulcro della libertà moderna.

In questi ultimi tempi vissuti con crescente indignazione, si è ancora accresciuta la consapevolezza che, al contrario, proprio l’indipendenza – separazione si è rivelata la sorgente autentica della moderna illibertà, giacché soltanto nel reciproco isolamento (pensiamo al consumismo individualistico e all’uso dei nuovi mezzi di comunicazione e di conoscenza) di tutti può crescere la tentazione dispotica di alcuni.

L’indipendenza di ciascuno è soltanto il rovescio di un’universale dipendenza di tutti.

L’individualismo si è rivelato esso stesso una specifica e storica forma sociale oggi prevalente sia nella destra, sia nella presunta sinistra, tanto da dar fiato a chi sostiene di non essere più possibile distinguere appunto tra destra e sinistra.

Nella modernità si tende a non far riconoscere più la società come una ramificazione storica dell’individuo e non si rivendica più quella che era stata definita “ partecipazione consapevole”.

A questo proposito pensiamo al passaggio nella struttura dei partiti dall’integrazione di massa, al “pigliatutti”, fino al partito “elettorale – personale” o addirittura agito soltanto in via virtuale attraverso il web.

Un’involuzione nella forma e nella struttura del partito politico che oggi appare del tutto vincente, sia pure nel microcosmo della vicenda politica italiana.

Eppure l’idea del partito rimane l’unica arma per evitare l’inconsapevole e gelida dominazione delle cose sul genere umano e quindi il privilegio di alcuni su altri.

A mio giudizio il superamento di questo vero e proprio “blocco” nell’agire politico e sociale fortemente ri-determinatosi nel corso degli ultimi anni può ritornare a essere d’attualità soltanto affrontando nuovamente quello che rimane un doppio sbarramento sul piano teorico: il resistere, sul piano politico, dell’idea che la democrazia rappresentativa continui a significare il modo più congruo di reggere la società moderna e che sul piano economico possa ancora essere messa in discussione l’idea che l’economia di mercato sia la sola efficiente forma di ordinare le forme di produzione.

La brusca chiusura della storia del ‘900 non può esimerci, nell’analizzare i due aspetti fondamentali appena citati, dal parafrasare Claudio Napoleoni: “Cercate ancora!”.

Pervengo quindi alla determinazione di alcune altre opzioni di fondo che sono rimaste, comunque nel mio orizzonte di ricerca rappresentando altrettanti fermi “paletti”.

Si sono allargate sul piano sociale le contraddizioni relative alla messa in discussione della presunta necessità inderogabile che le “garanzie” dell’individuo siano affidate in eterno al sistema della “libera impresa”.

Ribadisco qui quella che è ormai maturata come una convinzione profonda: che il moto della storia pare aver girato all’indietro la propria ruota .

Si tratta allora di lavorare per invertire la tendenza cercando nuovi equilibri.

L’esigenza che sorge è quella di muoversi tra “storia del pensiero politico” e realtà “dell’agire politico”, nella convinzione che il pensiero politico sia un “pensiero concreto”, coinvolto attivamente nel mondo, sia come critica dell’esistente, cioè come de-costruzione, sia come costruzione, cioè come progetto di edificare un ordine migliore, ovvero rispondente a criteri di legittimità diversi da quelli dell’ordine presente.

Il riferimento è rivolto a un pensiero politico in grado di esprimere interessi, finalità aspirazioni ben individuabili che, a partire da precisi punti di vista di determinate soggettività sia capace di interpretare le sfide reali della storia, rispondendo in base a parametri e a esigenze di volta in volta mutevoli.

Questo intreccio di esperienze teoriche e pratiche, di critiche e di costruzioni, di riflessioni e di azioni, dovrebbe articolarsi tanto come “dottrine politiche” (cioè come apparati intellettuali complessi, riflessioni più o meno direttamente orientate alla prassi, che sono anche organismi storici in continua trasformazione) quanto come “concetti politici” (cioè come le strutture categoriali che organizzano le dottrine, che ne sono per così dire lo scheletro teorico).

Serve legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che ciò non significa che il pensiero politico si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime categorie.

Al contrario è necessario prestare grande attenzione e insistenza nel mettere in luce che, se è vero che i concetti politici sono la struttura-ponte di lungo periodo, è anche vero che solo le trasformazioni epocali, il mutare degli orizzonti di senso, il modificarsi catastrofico degli scenari sociali e politici, oltre che intellettuali, hanno consentito ai concetti politici di assumere di volta, in volta, il loro significato concreto.

Insomma, è necessario mettere in rilievo che la concretezza del pensiero politico consiste proprio nel fatto che esso aderisce alle drammatiche discontinuità dell’esperienza storica, e anzi le riconosce, le interpreta, le mette in forma. . Ed è importante anche sottolineare la coesistenza della storia del pensiero con la geografia del pensiero, rivolgendosi quindi all’illustrazione tanto dell’evolversi delle tradizioni intellettuali che innervano la riflessione politica quanto le specificità, rilevanti e riconoscibili, con cui ciascuna delle grandi aree geografiche le hanno sviluppate e interpretate.

Occorre mostrare, come, di volta, in volta nel corso della storia sia strutturato quello spazio in cui si sono attuate le relazioni tra i sistemi politici; il rapporto tra la politica e la guerra (o la pace), fra l’ordine interno e l’ordine (o disordine) esterno.

Si deve avere fiducia, ed è questa l’unica nota di ottimismo permessa, nell’importanza e nell’efficacia formativa della storia del pensiero politico, nel suo senso più vasto, fornendo strumenti per interpretare lo spessore storico e concettuale, per decifrare i momenti di crescita e di crisi, di dramma e di trionfo, di chiusura localistica e di apertura universale della nostra civiltà intellettuale e politica.

Il tema della crisi della democrazia rappresentativa appare sotto quest’aspetto tema assolutamente determinante.

Quel che è certo che la crisi della democrazia rappresentativa come “fine della politica” non appare più, come si pensava un tempo, un’ipotesi – limite da evocare alla stregua di una provocazione speculativa.

Sembra proprio che abbiamo ormai perduto la capacità di indagare sul variare delle “forme”, dei soggetti, dei luoghi della politica nel contesto della post – modernità dominata ormai dalla relazione tecnica /vita e di conseguenza tecnica / politica nella logica del superamento definitivo del confronto delle idee.

Siamo pigri nel cercare di capire cosa ha resistito e cosa è completamente deperito dei tradizionali dispositivi teorici davanti ai mutamenti che hanno sconvolto le figure più familiari dell’analisi politica e sociologica.

Una pigrizia che ha portato, ad esempio, a decretare anzitempo la fine dei due soggetti portanti nell’analisi politica del ‘900: le classi e lo Stato Nazionale.

Abbiamo ceduto al mito della “società complessa” arrendendoci all’apparente primato della “governabilità” senza vedere quanto restava di ancorato nella società di sopraffazione e sfruttamento (del lavoro, dell’ambiente, di genere) come base di quello che dobbiamo continuare a definire come “arretramento storico”.

Si sta tentando di imporre una verticalizzazione del potere incontrollato da una sorta di autonomia della “società orizzontale”: un nuovo feudalesimo tecnologico basato su di un impianto esclusivamente individualistico fondato sulla riduzione drastica della rappresentanza politica e dall’imposizione della centralità assoluta del “potere”.

Una riflessione nel senso di un recupero dell’equilibrio tra rappresentanza della complessità sociale e gestione del potere potrebbe rappresentare un primo punto d’inversione di tendenza rispetto all’annunciato declino della democrazia avendo compreso appieno che è difficile definire i termini di una nuova fase di transizione.

Per questo motivo la sinistra esiste nel rapporto tra complessità e contraddizioni ma per esprimersi ha bisogno di essere ricostruita nelle sue possibili espressioni di soggettività politica.

FRANCO ASTENGO

11 ottobre 2019

foto tratta da Pixabay

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