Rivoluzione sociale e rivoluzione culturale

Governare un Paese significa occuparsi e preoccuparsi non solo del livello dello spread ma anche di quello delle condizioni materiali di vita delle fasce più deboli della popolazione. E’...

Governare un Paese significa occuparsi e preoccuparsi non solo del livello dello spread ma anche di quello delle condizioni materiali di vita delle fasce più deboli della popolazione. E’ una questione strutturale che investe una sovrastruttura: l’economia che va ad interessare tutti gli aspetti della nostra vita e li influenza e che, attraverso la gestione politica del sociale, dovrebbe essere mitigata nei suoi tentativi di espropriare sempre più chi storicamente è sfruttato favorendo, sistematicamente, chi invece sfrutta e accumula profitti.

“E’ il capitalismo, bellezze!”, avrebbe esclamato qualcuno secoli fa. Continua ad esserlo oggi, in un mondo, in un continente e in un Paese che oltre alla povertà materiale conosce un progressivo aumento di quella culturale, quindi un arretramento sociale imperniato pure sulla mancata conoscenza dei fondamentali per poter ragionare, esprimersi compiutamente e quindi comprendere, quanto meno ad un livello di mera sufficienza, ciò che ci accade intorno.

Presi cum grano salis, i test Invalsi disegnano una geoscolatistica italiana desolante, dove uno studente su tre è privo delle nozioni veramente di base per la costruzione del linguaggio, per l’articolazione dei pensieri, per l’espressione compiuta sia scritta, sia orale della propria lingua madre.

Non si tratta tanto di arginare la prepotenza degli inglesismi che ci vengono imposti un po’ per moda e un po’ per esigenze sempre di mercato attraverso la globalizzazione della circolazione delle merci e il conseguente adeguamento delle comunicazioni verbali allo stile delle multinazionali e delle grandi finanziarie: qui l’impoverimento linguistico, culturale e dunque sociale è figlio di una scolarizzazione inadeguata, incapace di trasmettere gli strumenti essenziali affinché qualunque giovane studente possa addentrarsi anche in altri mondi, studiare quindi altre lingue e conoscere le interazioni che vi sono tra la nostra storia e quella del resto di un pianeta che gira a velocità sempre più spedite.

Se sul fronte linguistico gli studenti italiani sono carenti, non va meglio su quello delle scienze matematiche: anzi, pare che dal settore umanistico agli altri ambiti della conoscenza la forbice tra chi possiede le nozioni necessarie ad essere qualificato come “competente” e conoscitore quindi della materia e chi invece non abbia questi requisiti si allarghi ancora di più.

Forse va rivisto l’intero assetto educativo e scolastico del Paese, nel senso che va ripensato tanto il metodo che porta all’apprendimento da parte degli studenti, visto lo scarso risultato che si ottiene da Nord a Sud (con percentuali di insufficiente conoscenza delle materie che crescono esponenzialmente nelle regioni meridionali e insulari tanto da toccare vette del 42% per quanto concerne gli studenti “ignoranti”), quanto la contenutistica, il merito stesso, ciò che i libri raccontano ai ragazzi.

Ma la problematica è più vasta ancora: si può attribuire al sistema scolastico tutta una serie di deficienze che in effetti malauguratamente possiede per via delle politiche governative esercitate in questi decenni, volte a legare l’istruzione e la conoscenza alla finalizzazione del raggiungimento di un legame bivalente tra scuola e lavoro, tra sapere e impresa, slegando quindi la conoscenza dall’amore per il sapere e riducendola ad una appendice delle esigenze del mercato.

Si può, quindi, chiamare la scuola della Repubblica ai suoi doveri e compiti, facendo appello al corpo docente affinché faccia sempre più sforzi che ha già praticato e continua a praticare contro tagli alla spesa per l’istruzione che certo non favoriscono la buona volontà dei professori con sostegni pratici e nemmeno aiutano gli allievi a mettersi nelle condizioni di imparare più facilmente.

Ma prima di tutto si deve richiamare il governo del Paese a riqualificare appieno il ruolo pubblico della scuola e, pertanto, il ruolo sociale che le è naturale avere in una più articolata dinamica di sviluppo sociale che include, ovviamente, la formazione anche personale dei giovani cittadini che dovrebbero trovare un loro spazio in un Paese dove invece prima di ogni altra cosa si mette avanti il ruolo del privato.

Dalla cura per le infrastrutture, i plessi scolastici, tutte le apparecchiature informatiche moderne e all’avanguardia fino alla riformulazione dei testi e dei programmi, arrivando ad una riforma completa dell’istruzione che escluda la mortificazione degli esami di Stato posti alla stregua di un telequiz dove si sceglie la busta con l’incognita.

Si pensi ad una scuola, invece, dove il rapporto tra docente e studente è diventa sempre più empatico e dove il giudizio diventa considerazione generale anche di quel mondo in cui i ragazzi e le ragazze sono costretti a vivere oggi: appena escono dalla scuola sono completamente alienati e trascinati via dalle loro menti attraverso distrazioni costanti; vivono una socialità che li porta ad escludere qualunque momento di solitudine e di riflessione, fagocitati dall’onnipresenza delle comunicazioni lampo sui cellulari che portano sempre con loro, che hanno sempre in mano e che separano la potenza del linguaggio associata a quella dell’espressione visiva, reale, concreta.

Ci giochiamo ore di vita ogni giorno allungando le menti attraverso protesi tecnologiche priva di anima, di sensazioni che, sovente, vengono equivocate proprio nelle “chattate” lunghissime, di gruppo o singole che siano, che si svolgono su ciò che diviene indispensabile (Whatsapp, Instagram, Facebook, Twitter… un po’ tutti i cosiddetti “social”) non perché l’abbia deciso un gruppo di persone ma perché ci viene imposto dal sistema come “evoluzione”, “modernità” e reso sinonimo di “facilità” di vita.

La scuola, pertanto, è circondata da un mondo che non la aiuta di certo ad uscire dall’Ade moderno del semplificazionismo dei concetti, della indisposizione alla ricerca attraverso testi cartacei, fatiche mentali per mettere insieme elaborati che non possono soltanto essere frutto di qualche copia e incolla da Wikipedia.

Lì si trova la summa, peraltro molto generica, priva di attendibilità storiografica, culturale in senso generale e scientifica, di tutto un mondo del sapere che viene costruito attraverso il “sentito dire” che non garantisce nessuna veridicità dei fatti e delle regole: dalla grammatica fino alla storia, dalla geografia fino alla fisica, dalla filosofia fino alla matematica.

Dunque, l’aumento dell’analfabetismo scolastico, seppur parziale ma non per questo meno grave e da sottovalutare, si combatte riformando anche la scuola della Repubblica: è un punto di partenza fondamentale. Ma prima ancora la tendenza va invertita nella quotidianità in cui vivono i giovani: non prefigurando un ritorno “all’antico”; un libro lo si può anche leggere su un tablet (sebbene la corporeità del testo scritto sulle pagine cartacee, il tenere in mano un tomo è molto diverso dallo scorrere di un dito su uno schermo piatto…), ma ribellandosi pervicacemente alla velocità delle comunicazioni, al troncare le parole, al disarticolare il linguaggio nella sua resa in scrittura con facilonerie che diventano uso comune e che finiscono con l’impedire poi la piena comprensione di un testo, la corretta formulazione di un discorso.

In fondo, ad una rivoluzione sociale si accompagna anche sempre una rivoluzione culturale (magari diversa da quella del presidente Mao…). Il difficile, ma non impossibile, è cominciare quella sociale.

MARCO SFERINI

11 luglio 2019

foto tratta da Pixabay

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