I due grossi volumi che Michele Prospero ha dedicato al pensiero politico di Marx (La teoria politica di Marx, 2 voll., Bordeaux edizioni, pp. 1286, euro 48,00) costituiscono senza dubbio il contributo più ricco e importante che a questo tema sia stato dedicato da molto tempo a questa parte. In anni lontani, Norberto Bobbio si chiedeva se esistesse realmente una teoria marxista dello Stato. Prospero non solo risponde affermativamente, ma la ricostruisce in tutti i suoi particolari, giungendo persino, nella parte conclusiva del secondo volume, a ritrovare in Marx una vera e propria delineazione dei principi costituzionali del socialismo. Ma andiamo per ordine.

Il punto di partenza della ricerca è la critica della filosofia politica hegeliana che Marx venticinquenne sviluppa in una serie di appunti inediti risalenti al 1843, che sarebbero stati pubblicati solo nel Novecento. In questi appunti e nei testi immediatamente successivi, come la Questione ebraica, Marx affronta la questione dello Stato in una prospettiva teorica nella quale, almeno secondo la maggior parte degli interpreti, giocano un ruolo fondamentale due concetti densi di implicazioni filosofiche come quelli di contraddizione e di alienazione.

La contraddizione è quella che, secondo Marx, caratterizza nella società moderna il rapporto tra la società e lo Stato, e che secondo lui è già stata messa a fuoco da Hegel: «Il più profondo in Hegel è che egli sente come una contraddizione la separazione di società civile e società politica».

La contraddizione consiste nel fatto che la società civile è il regno degli interessi particolari, del mercato, della competizione tra gli individui, mentre lo Stato vorrebbe essere la sfera del bene pubblico e dell’interesse generale. Ma se il rapporto tra i due poli è quello della contraddizione (tra interesse particolare e interesse generale) allora se ne può trarre solo una conseguenza, e cioè che questa contraddizione deve essere superata. Che questi due poli contrapposti devono essere trascesi in qualcosa che assomigli a una sintesi superiore: è quella che Marx nel 1843 chiama la «vera democrazia».

Questa, intesa come autodeterminazione del popolo, sembra richiedere il superamento della separazione tra la politica e gli altri ambiti sociali (famiglia, lavoro, proprietà, ecc.). La politica deve ritornare dal cielo sulla terra, deve cioè fondersi con le concrete articolazioni della vita e del lavoro, e non costituire più una dimensione separata.

La stessa questione può essere posta anche partendo dal concetto di alienazione. Per Marx si dà alienazione dal momento in cui gli individui perdono la padronanza delle loro relazioni sociali, e il controllo su di esse viene assunto da una entità separata ed estranea. C’è alienazione economica in quanto i rapporti tra gli individui non sono gestiti direttamente da essi ma sono mediati dal denaro, che ne diventa il vero regolatore. C’è alienazione politica dal momento in cui le decisioni sulla vita collettiva non vengono prese in prima persona dagli individui, ma sono delegate a un sistema democratico-rappresentativo che si rende autonomo e distante da essi.

La conclusione è, anche da questo punto di vista, la critica dello Stato e della politica come dimensione separata che Marx esprime in un passo bello e famoso della Questione ebraica: «Solo quando l’uomo reale, individuale riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali, è divenuto ente generico, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue ‘forces propres’ come forze sociali, e perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta».

Nel giovane Marx si trova dunque (così ritiene la maggioranza degli interpreti) una critica radicale del denaro e dello Stato, circa la quale ci si potrà poi domandare se e quanto Marx resti fedele ad essa anche negli anni della maturità. Rispetto alle letture consuete, invece, Michele Prospero propone una decisa correzione di rotta. Per un verso egli, proseguendo la linea interpretativa già sviluppata da Galvano della Volpe e da Umberto Cerroni, valorizza decisamente il Marx antihegeliano degli appunti del 1843, che altri interpreti giudicano invece acerbi e teoricamente irrisolti.

Per altro verso, però, Prospero propone dei testi marxiani un’analisi che non solo tende a sganciarli decisamente dall’hegelismo (punto sul quale non ci sono molti dubbi) ma anche a svincolarli dalla presenza ingombrante del tema dell’alienazione, e quindi dal debito che Marx contrae nei confronti di Feuerbach e della sua critica dell’alienazione religiosa. Le ragioni di questa scelta sono chiare: se si rimane dentro il paradigma dell’alienazione, la storia viene pensata secondo una dinamica di perdita e riappropriazione, separazione e riconciliazione. L’emancipazione viene intesa come il superamento di tutte le scissioni, il comunismo come la conciliazione di tutti gli antagonismi, in una prospettiva della quale alla fine risultano evidenti i limiti utopici.

Per comprensibili ragioni, dunque, Prospero lavora per sottrarre Marx a una prospettiva di questo genere, e lo spiega molto chiaramente nelle sue pagine. «In Marx – sostiene – non esiste un movimento di alienazione e riappropriazione scandito dialetticamente nel passaggio da un vuoto a un pieno sostanziale finalmente ritrovato. Non compare nelle sue pagine un genere presupposto che va ricostituito dopo un trauma, e non è prevista una riappropriazione conciliativa di elementi eterogenei che il processo di alienazione ha diversificato».

Il Marx autentico, ovvero il Marx che merita di essere recuperato, non è per Prospero quello che insiste sulla critica della politica separata e che, secondo le interpretazioni tradizionali, pone anche la questione – molto discussa dai marxisti – della cosiddetta «estinzione dello Stato». Il Marx di Prospero è un Marx che, lasciandosi alle spalle la problematica hegeliana e feuerbachiana dell’alienazione, accetta le differenziazioni della modernità e propone di sviluppare un processo di trasformazione nel contesto di esse.

In questa prospettiva, anche la critica giovane-marxiana della democrazia politica rappresentativa viene molto ridimensionata. Se è vero infatti che per Marx «la democrazia nasce nel tempo della rappresentanza, del dominio dell’astrazione politica», è altrettanto importante sottolineare che «con l’universalità del diritto elettorale e la generalizzazione del metodo consensuale-elettivo, essa emana una carica sovvertitrice che, affidando a una volontà generale legislatrice la decisione sul trattamento degli interessi sociali, immette un primato del politico che rende concepibili momenti di disfunzionalità positiva entro il quadro della modernità».

Quello che Prospero ci presenta, insomma, è un Marx liberato dal suo giovanile utopismo rivoluzionario, realista e antiromantico. Un Marx dove non c’è posto per la teoria della «estinzione dello Stato», e che invece, come emerge chiaramente nel Manifesto comunista, punta a realizzare grazie alla forza dell’apparato pubblico sostanziali riforme economiche, a dare alla democrazia quella sostanza che le manca finché essa si mantiene dentro l’involucro liberale. Difficile dire se questo sia il «vero Marx»; ma certo è una interpretazione legittima e originale di un pensatore il cui lascito è davvero un’opera aperta, leggibile e utilizzabile in direzioni diverse.

STEFANO PETRUCCIANI

da il manifesto.it

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