La Sinistra, un simbolo, un programma, un progetto che duri

Anche i simboli portano a riflettere sulle condizioni organizzative della sinistra di alternativa che si presenterà al voto nel prossimo mese di maggio. Si votava già ieri e si...

Anche i simboli portano a riflettere sulle condizioni organizzative della sinistra di alternativa che si presenterà al voto nel prossimo mese di maggio. Si votava già ieri e si vota ancora oggi per scegliere, un po’ grillianamente, il contrassegno che troveremo sulla scheda e che conterrà il richiamo necessario al Partito della Sinistra Europea e al Gruppo della Sinistra Europea / Sinistra Verde Nordica (Gue/Ngl).

Strane sigle di cui i cittadini conoscono ben poco: la società oggi non è più “massimalista” in una accezione del termine che devia dai suoi fondamentali significati. Questo perché la politica odierna non è ricercata in quanto “massimo” della vita, del risolvimento di una parte di essa stessa, tesa a sciogliere nodi e problematiche che attanagliano soprattutto i più deboli, economicamente parlando, della massa umana.

La politica non interpreta la vita degli sfruttati moderni, del proletariato del nuovo millennio, ma è un corpo separato dalla società che la rifiuta, la ripudia e la ostracizza dopo decenni di tradimenti che, nel nome del “pubblico interesse”, sono stati perpetrati proprio nei confronti dei ceti meno abbienti, di coloro che avrebbero dovuto incarnare ancora la struttura portante del consenso delle forze popolari e della sinistra comunista e di alternativa ed invece, oggi, votano Cinquestelle e Lega.

Delle motivazioni costituenti questo nuovo corso che si è inaugurato ormai da lustri, ho avuto già modo di tediarvi in tanti altri editoriali, dunque non lo farò qui.

Voglio soltanto soffermarmi sul rapporto tra simbologia e contenuti e, quindi, tra metodo e merito, apparenza e sostanza, programma e comunicazione del medesimo.

Sopravvalutare un simbolo è spiacevole ma lo è altrettanto sottovalutarne la potenza: lo sanno bene i grandi pubblicitari che investono sulla “riconoscibilità immediata” di un “brand” (ormai si usa dire così…).

Persino in “Intolerance” di Griffith, in una scena, in lontananza si riconosce il marchio della “Coca Cola”: una icona, una forma mentis quasi, perché esprime in noi ricordi associati a quel prodotto, al suo utilizzo e segna la nostra vita in un certo qual modo.

Si potrebbe dire che anche per i simboli politici è stato così un tempo: immediata era la riconoscibilità dei comunisti quando compariva la falce e martello inserita da Guttuso nel simbolo del PCI: ma immediata era anche la riconoscibilità da parte di tutti del simbolo della DC o di quello del PSI (per la verità mutato più volte nel corso delle giravolte politiche del partito che fu di Filippo Turati) o del Partito Liberale Italiano. Così per partiti minori come il Partito Repubblicano Italiano di Giovanni Spadolini e Ugo La Malfa o i socialdemocratici di Saragat.

Nella nuova stagione apertasi dopo il 1968 e la rivoluzione dei costumi non solo morali ma anche politici, pure le tradizionali modalità di comunicazione venivano mutando, trovando sempre più spazio l’irriverenza al posto della un po’ borghese “compostezza” e seriosità del PCI, e per certi versi ciò che avvenne venti anni dopo quando, crollando i grandi partiti di massa e la classe dirigente che aveva governato per decenni il Paese, anche le simbologie dovettero cambiare e i punti di riferimento con esse, è una eco non troppo lontana dei rivolgimenti sessantottini.

Tuttavia, almeno fino al primo decennio di berlusconismo, quindi fino ai primi anni 2000, la passivizzazione delle masse non era ancora una costante nella vita quotidiana: eventi mondiali come i fenomeni terroristici di Al Qaeda e grandi rendez vous come il movimento No Global riunitosi a Seattle, a Genova e in mille altre zone del pianeta, parevano aver riscoperto la partecipazione attraverso anche nuovi simboli ma non semplicemente grafici.

Slogan come “Un altro mondo è possibile” erano simboli veri e propri. La locuzione “Social Forum” era un simbolo e denotava uno schierarsi partigianamente contro una globalizzazione delle vite sottoposte al regime del mercato, quindi un nuovo anticapitalismo pareva nascere e crescere guardando alle esperienze dello zapatismo chiapaneco.

Poi l’ondata reazionaria, seguita alla grande crisi economica iniziata con le bolle speculative statunitensi, con le grandi profondità deficitarie dei bond argentini e la conseguente ripercussione planetaria, ha imposto come soluzione di stabilità sociale un progetto politico contrario all’internazionalizzazione dei problemi, con rifugi nazionalisti, spingendo sul tasto della paura e del terrore e alimentando nuovi rigurgiti razzisti e xenofobi.

Per arrivare ai giorni nostri, all’oggi più vicino, un tempo in cui i simboli si sono moltiplicati e la nebulizzazione delle grandi idee è stata necessaria per disperdere il “senso comune” di appartenenza non tanto a grandi famiglie politiche ma a classi sociali distinguibili un tempo, molto meno oggi, pur esistendo sempre una possibile demarcazione tra chi sfrutta e chi è sfruttato.

La pace sociale, dunque, si fonda oggi sulla paura sociale, sulla comparsa di tante fobie che servono a cementare l’amor di patria e a tradire chi sta dalla stessa parte della barricata: poveri e ricchi si confondono in convergenze politiche prive di senso classista. Ma per l’appunto oggi questo è uno dei tempi pregnanti: la ricomposizione della classe sociale, la restituzione alla classe sociale di un minimo di coscienza critica per comprendersi, per capirsi, per ritornare in sé e, soprattutto, “per sé”.

I simboli, pertanto, anche oggi sono importanti e devono tornare ad esserlo, nonostante l’anatema contro i partiti politici proclamato dal berlusconismo prima e dal grillismo poi: movimenti che si sono serviti della rabbia popolare per emergere sulle macerie della cosiddetta “prima repubblica” sventrata dalle indagini giudiziarie e mostrata per quello che era divenuta dai tempi del craxismo in avanti. Un verminaio, simile a quello messinese, fatto di malaffare e corruttele dove i simboli coprivano il tutto e non erano più emblema di una idea, ma solo la pantomima della medesima e quindi il tradimento più duro per chi aveva creduto di battersi, anche solo con il voto, per una società più giusta.

I simboli possono tornare ad avere quel ruolo di comunicazione esplicita che spetta loro: devono avere oggi un ruolo non “massimalista”: semmai “minimalista”.

Ieri ed oggi si vota per scegliere il simbolo della lista della sinistra alle elezioni europee di fine maggio.

Ho votato l’ipotesi di contrassegno numero 3, quella che contiene la locuzione “La Sinistra”, perché ritengo sia doveroso e utile proporre un messaggio per l’appunto “minimalista” ad una popolazione che vive nel pressapochismo ideologico, nella dimenticanza dei valori e che ha bisogno di intuizione e immediatezza.

Dobbiamo dire, quindi, con estrema semplicità che noi siamo “LA” sinistra, per antonomasia, per eccellenza, per orgoglio e per ideologia. Lo siamo da comunisti, perché portiamo in questa esperienza la nostra critica senza appello al capitalismo.

Per fare questo non ci si può affidare al titolo della canzone partigiana più famosa: sarebbe anche ingiusto “ipotecarla” in una lista elettorale, in un progetto politico. Bella ciao appartiene a tutte e tutti gli antifascisti.

LA SINISTRA. E ognuno la declini come vuole: per me dentro c’è quella comunista che deve collaborare appieno con le altre formazioni e ottenere un ottimo risultato alla consultazione di maggio.

LA SINISTRA, semplicemente, necessariamente.

MARCO SFERINI

2 aprile 2019

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