La crisi e il socialismo europeo

L’ultimo importante sommovimento (in realtà si trattò anche del primo) che a suo modo ha fatto un tentativo di intervenire sulla realtà della nuova economia globale è stato quel...

L’ultimo importante sommovimento (in realtà si trattò anche del primo) che a suo modo ha fatto un tentativo di intervenire sulla realtà della nuova economia globale è stato quel ciclo di massa che da Seattle arriva fino a Genova 2001. Ciò che la semplificazione giornalistica battezzò movimento no global era in realtà il primo esplodere di un movimento globale desideroso di misurarsi con la nuova configurazione del capitale.

Fu quella intuizione, dopo anni di battaglie sempre più impotenti confinate nei confini nazionali e aziendali, a rimettere in moto l’embrione di quella nuova composizione di classe fatta da precari, giovani dei call center, studenti che la sera lavoravano al Mc Donald. Anche impiegati e impiegate in aziende che dividevano la stessa scrivania ma con una diversa tipologia di contratto.

Figure sociali incarnazione di un lavoro subordinato frammentato che già allora nessuna possibilità avevano di utilizzare gli strumenti classici del movimento operaio e cioè il contratto nazionale, la vertenza aziendale, il sindacato, il conflitto col padrone.

La possibilità che il movimento “no global” offrì a queste figure sociali sembrò segnare finalmente una stagione capace di riaprire il conflitto con l’impresa trans nazionale al suo stesso livello, mettendo con i piedi per terra la possibilità di strappare un nuovo compromesso sociale. Sappiamo che quel movimento non è riuscito nel compito ambiziosissimo che si era assegnato e che a un certo punto si è come inabissato ma il tema era, ed è, posto. Semmai sorprende che dopo 13 anni da Genova ancora quel flusso consapevole non abbia trovato canali per riemergere e che a quella prima esperienza dirompente non sia seguito quasi nulla.

Anche per questo mi sembra una scelta ragionevole e positiva la lettera che il segretario della Fiom ha inviato ieri ai vertici Fiat con l’intento di aprire un confronto sulla difficile situazione produttiva e occupazionale che coinvolge lavoratrici e lavoratori di tutto il gruppo Fiat. E’ in realtà la consapevolezza che, fermo restando il giusto orgoglio della propria resistenza, è del tutto inutile far finta di essere ancora nel novecento.

Che, cioè, quel marxiano esercito proletario di riserva, una volta limitato ai soli confini nazionali, non sia oggi costituito da miliardi di esseri umani (cinesi, brasiliani, indiani, cittadini del sud est asiatico o di quelli che furono i Paesi del blocco dell’Est europeo) presso i quali non solo l’amministratore delegato della Fiat ma qualunque impresa può oggi fare shopping puntando ai costi più bassi. Il flusso degli investimenti privati attratto dalle economie emergenti è oggi un nocciolo duro ineludibile.

A Pomigliano prosegue il conflitto tra chi (fingendo di stare nel novecento) ha accettato le condizioni di Marchionne scambiando un ricatto per accordo e chi (sempre fingendo di stare nel novecento) quell’accordo, anche giustamente, ha respinto ma non avendo nessuna delle condizioni strutturali per imporre un negoziato. Landini con la richiesta di incontro, forte anche del recente pronunciamento della Corte Costituzionale, prova a riconoscere il problema. Non è ancora, ovviamente, la strada per venirne a capo ma almeno riparte un tentativo più serio.

Una intera epoca della vita dell’economia si è probabilmente conclusa. Anche gli economisti più esperti ed avveduti dubito sappiano davvero dove può condurre la stagione, convulsa e confusa, che sotto questo profilo si è aperta ormai da qualche anno. E’ questa enorme variabile che ora pesa sul globo che (unitamente alle rivoluzionarie innovazioni della comunicazione) smuove masse grandi di popoli, che ne registra il conflitto pur senza lasciare intravedere alternative di indirizzo chiaro. Che incide anche sull’Europa odierna e sulla sua disperata tendenza a rimanere aggrappata ad una austerità finanziaria che prima ancora di essere la ricetta politica delle sue classi dirigenti conservatrici è l’ultima residua resistenza su una visione ottimistica della globalizzazione. Una visione ottimistica della globalizzazione, ormai in discussione, senza la quale però viene meno tanta parte della ragion d’essere dell’impianto liberista.

Ma, come sappiamo e vediamo, i limiti profondi e i guasti del modello economico dominante non si traducono meccanicamente in un modello di sviluppo nuovo. Semmai i colpi della situazione economica e della recessione squassano la società europea e ne minano nel profondo gli equilibri e gli assetti democratici.

La democrazia europea appare sempre di più come schiacciata tra le tecnocrazie e il populismo, e il paradosso è che entrambe le tendenze sono, come del resto è scritto nella storia stessa dell’Europa, espressioni della destra. Da un lato quella di stampo liberale e liberista della globalizzazione e dei poteri forti, dall’altro la destra nazionalista e localista del populismo e dei valori tradizionali come antidoto alle paure del mondo globale.

E con una sinistra europea che, malgrado i tentativi ormai in corso, è ancora spiazzata e in difficoltà.

Non è stato facile prendere respiro dalla soggezione al neoliberismo. Chi polemizza in maniera astratta semplifica. In Europa i socialisti (per non parlare dei comunisti) hanno conosciuto il grande freddo della fine dell’Urss e del crollo del socialismo reale. Il muro di Berlino non lo hanno divelto i carri armati occidentali ma giovani e cittadini dell’Est con l’entusiasmo e coi picconi. Una straordinaria spinta di opinione sulla quale il liberismo è stato egemone e che ha travolto, per circa un ventennio, ogni ambizione di autonomia critica e di ricerca di ricette pur modestamente alternative. In questi mesi era sembrato più facile voltare pagina. Il successo dei socialisti in Francia, l’attesa per il voto in Italia.

Le speranze per una sconfitta della Merkel alle elezioni tedesche. Poi tutto si è complicato. E lo spazio per una ricostruzione democratica dell’Europa, salvaguardando il suo modello sociale e anzi accelerando il processo di integrazione, non è affatto detto abbia ancora degli spazi. L’impressione è come di una vera e propria americanizzazione della vita politica europea. Una politica sempre più personalizzata, una influenza dei media mai conosciuta prima, una crescente presenza e arroganza dei poteri dell’economia e della finanza.

E il nostro Paese non solo non si discosta troppo da questo quadro ma piuttosto lo enfatizza. Qui perfino spinte sociali e di opinione genuine (anche per le specifiche vicende che hanno investito e investono il Paese) finiscono di fatto per determinare l’ulteriore indebolimento della politica e delle sue possibilità di regolazione democratica dei movimenti dell’economia. Se questo è il quadro senza un salto di qualità nella costruzione dell’Europa ci sono poche speranze. Ormai la crisi economica e sociale tende a diventare vera e propria istanza antieuropea e se questo dovesse alla fine trovare la maggioranza dei consensi Italia e resto d’Europa rischierebbero (quale che sia il peso di ogni Paese) un regresso di civiltà inimmaginabile.

Di fronte ad economia e finanza globali cedere potere e sovranità degli Stati è una strada da percorrere per provare a riguadagnare sovranità vera piuttosto che cederla. Sta qui la necessità di costruire un campo largo del socialismo europeo. L’Europa per “rinascere” ha bisogno di politica buona, di partecipazione democratica in tutte le forme possibili oggi (dalle sezioni, alle piazze, alla rete), di allentare la stretta monetarista e riaprire la prospettiva della crescita e della politica sociale, di ritrovare una qualche dignità al lavoro e puntare alla riduzione delle diseguaglianze ormai diventate macroscopiche e insostenibili. Non credo si tratti tanto di polemizzare con questo o quello. Perfino il governo Letta in fondo di strumenti per “fare” ne ha pochi. Va certo criticato e incalzato ma sbaglia chi pensa, riproponendo in questo l’errore già visto nel fare di Monti chissà quale frontiera, che è a partire da lì che si definisce ogni cosa. Piuttosto la strada è più impervia.

Nel 2012 la forbice tra l’inflazione e l’aumento delle retribuzioni ha toccato il punto più alto dal 1995. Della disoccupazione sappiamo e leggiamo ogni giorno. E nel 2012 abbiamo registrato il calo di consumi privati più elevato dalla fine della seconda guerra mondiale. Mentre la competitività (anche se questo parametro richiede una decodificazione più complessa) risulta comunque aver perduto posizioni collocando l’Italia al 43 esimo posto dopo Estonia e Porto Rico. E questo mentre il 20% delle famiglie risulta detenere il 37,2% del reddito totale mentre al 20% più povero resta appena l’8,2%. Con problemi così seri , alcuni dei quali affrontabili solo almeno su scala europea, sarebbe ingenuo immaginare potercela fare con raggruppamenti improvvisati o concedendo ancora terreno a quel populismo che anche a sinistra sta modificando caratteri e fisionomia anche di una possibile alternativa, appannando sempre di più le culture del lavoro e della solidarietà sociale in nome di radicalismi e giustizialismi di vario tipo.

E’ piuttosto l’avvio di un cortocircuito virtuoso che può salvare l’Italia e l’Europa da nuove e più gradi tragedie. Fino a che i cittadini avvertiranno come impossibile ogni alternativa nelle politiche economiche e sociali, le vie attuali come vie obbligate e le decisioni essenziali avocate alle istituzioni finanziarie sovranazionali, continueranno a crescere la crisi della politica e dei partiti e le tendenze alla dissoluzione della costruzione europea. Ma per invertire queste tendenze (che non si rovesciano a tavolino o perché qualcuno di noi desidera che ciò avvenga) servono costruzione dei rapporti di forza politici e sociali adeguati, cosa che è molto difficile in tempi di antipolitica populista e tecnocrazia liberista. Sta qui la sfida vera di questa stagione politica inedita. Come spostare davvero risorse finanziarie, umane, di formazione, di istruzione, di conoscenza, in direzione dell’investimento produttivo, la sostenibilità ambientale e sociale, i beni e le prerogative pubbliche. E come costruire i rapporti di forza favorevoli a questo gigantesco intervento redistributivo che, però, cambierebbe di fatto il modello globale.

A questa impresa, difficile ma entusiasmante, possono portare un contributo generazioni di quadri che a sinistra hanno speso se stesse in anni di generose battaglie e oggi disperse o congelate nelle inutili diaspore di ciò che rimane della sinistra comunista e radicale. Tutte le energie che a una prospettiva di tipo neo populista preferiscono questa ispirazione che guarda all’Europa e al socialismo europeo hanno non solo l’occasione ma l’obbligo ora di rivalorizzare se stesse e dare un contributo alla sinistra e al Paese. Chi scrive, insieme ad altri, è impegnato per il prossimo Autunno a proporre e costruire un grande appuntamento nazionale aperto a tutti nel quale ci si possa confrontare liberamente tra noi e con gli esponenti, al massimo livello possibile, di quelle forze (Pd e Sel in Italia, socialisti francesi ed Spd tedesca) che pur con le loro difficoltà e contraddizioni incarnano il tentativo di questo cammino.

VITO NOCERA

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