E se la scuola fosse libera?

Se dobbiamo essere “rivoluzionari” è necessario avere prospettive in tal senso e un forte pragmatismo per comprendere bene il mondo che ci circonda. Anche qui mi sembra di poter...

Se dobbiamo essere “rivoluzionari” è necessario avere prospettive in tal senso e un forte pragmatismo per comprendere bene il mondo che ci circonda. Anche qui mi sembra di poter riportare a galla il binomio “autonomia e unità”: possiamo essere autonomi nella nostra elaborazione sul futuro della società e possiamo, al contempo, essere unitari nell’avanzare fin dove possibile verso riforme sociali, riforme civili, progressione dei diritti di ogni tipo, senza alcuna distinzione categoriale, con tutte quelle forze politiche che possono camminare con noi e noi con loro.
Scrivo questo perché pochi giorni fa mi sono posto il tema del rinnovamento scolastico di questa società: mi limito al nostro Paese. La scuola pubblica dovrebbe essere, insieme alla sanità, alla sicurezza sul lavoro, al sistema pensionistico e alla tutela dei diritti civili una delle pietre angolari irremovibili dello stato-sociale e, quindi, del grande bilancio economico della Repubblica.

Invece, è, come gli altri ambiti citati, un territorio che invece di essere protetto e custodito gelosamente secondo le norme costituzionali, viene depredato e lasciato al destino del buon cuore di chi frequenta gli istituti e racimola denaro, materiali di fortuna e limita i costi con incredibili slanci e lanci che nemmeno un Simon Mago o un Pindaro si sarebbero sognati di fare.

Tutto questo produce, ovviamente, non solo un disinteresse per la scuola come ente preposto all’istruzione, ma un allontanamento vicendevole: la politica se ne allontana e se ne allontanano i cittadini, gli studenti.

Ha vinto, alla lunga, il privatismo, la logica imprenditoriale e di settore, per cui la scuola pubblica diventa una variabile dipendente dal mercato e dalle sue fluttuazioni.

Ma un elemento di cui discutevo “rivoluzionariamente” nei giorni scorsi su quel mondo parallelo che è Facebook, era non tanto lo stato di decadenza e pauperismo della scuola della Repubblica, ma – quasi cattedraticamente – da immenso, romantico utopista quale sono (e per cui non mi vergogno, anzi provo molto orgoglio), quanto l’elemento dell’ “obbligatorietà” del sistema scolastico.

Una grande conquista, non c’è che dire: ha permesso ad una nazione semi-analfabeta di diventare istruita e di cancellare la piaga della inconoscenza della scrittura e del “far di conto”. Non è questo il punto focale.

In una società come questa, capitalistica, generatrice del profitto attraverso la grande unicità della proliferazione merceologica, non è pensabile una formazione scolastica volontaria, dove i giovani si avvicinano al sapere per amore della conoscenza.

Una simile propensione sarebbe considerata “folle” da molti ragazzi e ragazze se uno di loro si atteggiasse a dire: “Io studio per passione e non per trovare un lavoro”.

La nostra vita è solo finalizzata a vivere per lavorare, dunque sarebbe dis-umano, fuori dall’umano pensare ad una scuola non obbligatoria oggi.

Ma se davvero vogliamo riformare la scuola della Repubblica, io credo che dobbiamo dirigere i nostri pensieri e intendimenti in quella direzione, dimostrando che è possibile fare dell’istruzione una grande leva anticapitalista e intendere l’apprendimento con quelle parole gramsciane che ne facevano un’arma per vincere le resistenze inquisitorie dei padroni, di chi, sapendo una parola in più, un concetto più avanzato di noi, aveva in pugno milioni di lavoratori e lavoratrici.

L’ignoranza è schiavitù e, del resto, lo diceva anche San Giovanni: “La verità vi renderà liberi”. E per conoscere la verità – seppure qui non in senso teologico – occorre capire, studiare, interpretare e fare sintesi.

Scrivevo su Facebook, appunto, pochi giorni fa:
“Una scuola fondata sul dirigismo dell’educazione associata alla conoscenza non può produrre amore per il sapere e, di conseguenza, nemmeno voglia di acquisire sempre più in determinati campi del sapere.
Quanti studenti seguono volontariamente la loro strada? Pochi. Molti studiano non per il piacere della conoscenza – che gli è interdetto dalle regole della “scuola pubblica” – ma per la necessità di dover trovare un domani un lavoro che gli permetta di vivere.
Il regime delle merci ha ridotto il sapere ad un’appendice della produttività e della concorrenza.
Se si dovesse fare una vera riforma della scuola bisognerebbe partire da questi punti:
– abolizione dell’obbligo scolastico;
– abolizione dei giudizi espressi in voti;
– abolizione degli esami di Stato e valutazione annuale sulla base di quanto realmente è stato appreso.
Non è tanto lo studente che deve dimostrare di imparare quanto l’insegnante che deve saper trasmettere il sapere e non sterili nozioni, date storiche gettate a caso nella mente dei ragazzi e delle ragazze.
La scuola non prepara alla libertà e alla socialità, ma è purtroppo fnalizzata alla preparazione di macchine umane da utilizzare a seconda delle necessità del capitalismo.”.

Ecco, mentre hanno trovato consenso gli ultimi due punti da me elencati, il primo (quello dell’abolizione dell’obbligo scolastico) ha invece incontrato forte resistenza.

Condivido certe detrazioni e obiezioni, appunto perché sono pragmatiche e non chiudono a quella lontananza rivoluzionaria del sistema del sapere che pure dovrà essere indispensabile se si vuole chiudere con l’epoca dell’istruzione indotta.

Tutto ciò che viene spinto nella mente degli studenti non avrà mai la buona qualità di qualunque concetto, nozione o definizione che sia appresa per pura passione, quasi istintivamente.

Obblighi, obblighi, sempre obblighi e giudizi: la scuola è non un luogo dove si conosce, ma dove si viene istruiti a conoscere. Quindi prima di conoscere si deve entrare nella logica funzionale di un potere. Buono o cattivo che sia, poco importa. Resta una coercizione.

Aristotele insegnava camminando… Socrate senza testo alcuno e nulla di scritto ha lasciato secondo il presupposto della continua ricerca della verità.

I nostri ragazzi, invece, devono stare seduti nei banchi cinque, sei ore, disciplinati, in silenzio. Guardare la lavagna, ascoltare il professore e vedere se il suo sguardo cadendo sull’elenco della classe si ferma sul nome nostro e quindi ci porta al supplizio dell’interrogazione.

Per conoscere la preparazione di un alunno si usano quindi delle trappole: la sorpresa. Così, solo costringendo gli studenti a studiare si potrà avere la certezza che hanno fatto il loro dovere.

Ma quello che noi scambiamo per un dovere è, prima di tutto, un diritto! Un diritto civile, morale, culturale. Un diritto naturale.

Qualcuno diceva che dallo stato delle carceri si riconosce un paese. Posso permettermi di aggiungere che dallo stato di cultura di un popolo si giudica il livello della sua scuola e se questa è o meno una serie di apparati meccanicistici che introducono lezioni nelle nostre teste o se invece fa amare la cultura, il sapere, la conoscenza.

Autonomia e unità: lo so che pochi troveranno giuste e pragmatiche queste mie parole. Eppure io continuo a trovare profondamente violentata la cultura anche attraverso un sistema di istruzione pubblica che, appunto perché pubblica e proprio perché imperfetto, deve essere difesa, ampliata nella sua proposta come ente formativo libero e non guidato dagli interessi di un padrone.

Pensateci. In fondo pensare, per ragionare col metro del capitale, è gratis… Basta averne voglia e con essa sempre quel “pessimismo della ragione” accompagnato dall’ “ottimismo della volontà”. Ad Antonio Gramsci tanto dobbiamo…

MARCO SFERINI

23 giugno 2013

categorie
EditorialiMarco Sferini

altri articoli