Italia-Ue, uno scontro tra due torti

Su Tria, com’era prevedibile, grava il peso maggiore di una mission (quasi) impossibile. Convincere la Commissione europea entro il 13 novembre della bontà della manovra economica italiana. Non è...

Su Tria, com’era prevedibile, grava il peso maggiore di una mission (quasi) impossibile. Convincere la Commissione europea entro il 13 novembre della bontà della manovra economica italiana. Non è come mettersi d’accordo sulla prescrizione.

Spostata di un anno con la mitica quanto indeterminata promessa di una riforma «epocale» della giustizia penale et voilà. Qui è più dura. Non bastano i giochetti contabili; lo spostamento a metà dell’anno che viene dell’entrata in vigore delle promesse elettorali, benché fortemente ridimensionate, sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza già convertito in sudditanza; l’introduzione della cosiddetta «retroazione»; la trovata che si scrive 2,4%, ma si può leggere 2,1% grazie alla fiducia aleatoria su una crescita capace di ridurre il rapporto deficit/Pil entro margini concedibili.

Ha voglia Tria a dire che siamo di fronte ad una defaillance tecnica da parte della Commissione europea. Il Presidente dell’Eurogruppo, il portoghese Mario Centeno, che vedrà Tria oggi a Roma, ha già detto che tutti i ministri dell’Eurozona sostengono le stesse tesi. Nessuno in Europa pare disponibile a concedere all’Italia quello che non è stato permesso a loro stessi o se lo è stato deve risultare in base a un privilegio da non estendersi (si pensi alla Francia). Specialmente in un periodo ormai preelettorale.

Mario Draghi, che poco tempo fa aveva fatto balenare la possibilità di un compromesso – se non altro in base al noto principio che l’Italia is too big to fail quanto too big to be saved – ha severamente ribadito che la riduzione del debito è un obbligo di responsabilità che va oltre le già iugulatorie norme del fiscal compact e dei Trattati. Ma le sue stesse parole chiariscono che il punto fondamentale della discordia, ferma restando l’ovvia correlazione tra i due termini, non sta tanto sui decimali del rapporto deficit/Pil, quanto sulla totale non credibilità delle stime sulla crescita avanzate dal documento di bilancio italiano. Questo è il motivo del brusco giro di vite.

Tutta l’economia europea è in piena frenata, come ieri notavano attentissime banche olandesi. Nessuno quindi, dall’Ocse al Fmi, accredita al nostro paese una crescita del 1,5% per il prossimo anno. Chi arriva a 3 decimali sotto e chi a 5. Né si può dire che gli istituti nostrani portino conforto. Anzi i loro dati sono altrettanti chiodi sulla bara delle legge di bilancio. L’Istat «evidenzia un’ulteriore flessione, segnalando la persistenza di una fase di debolezza del ciclo economico». Per cui non si andrà oltre l’1% a fine anno, se va bene. Le vendite al dettaglio di settembre sono il 2,5% meno del mese corrispondente dello scorso anno. Continuano a diminuire i lavoratori a tempo indeterminato, mentre l’unica variazione occupazionale in aumento riguarda i precari.

Soprattutto non si conosce da parte del governo alcuna iniziativa credibile per risollevare una simile situazione.

E’ piovuto tanto, è vero, ma non ci sono stati i monsoni, eppure abbiamo avuto 32 morti e milioni di danni: il bilancio di un terremoto di media forza. Ma l’idea di concentrare tutte le energie, in termini di investimenti pubblici, che chiamano anche quelli privati, e di occupazione nel riassetto idrogeologico del paese non passa neppure per la testa di questo governo. Così come non mette in conto la possibilità di togliere il pareggio di bilancio dall’articolo 81 della nostra Costituzione così manipolato dal governo Monti con il sostegno militante del Pd, che darebbe una diversa dignità nel confronto europeo. Non esiste una politica keynesiana solo sul lato distributivo senza una coerente politica per una nuova economia, che solo un piano di investimenti pubblici può garantire.

Così si consuma lo scontro tra due torti: quello dell’Europa di Maastricht e quello di un governo nel quale i due maggiorenti pensano solo ai loro immediati interessi di classe e di ceto nonchè di vantaggi elettorali, se il banco saltasse. Scriveva il vecchio Marx che il conflitto sociale può anche finire «con la rovina comune delle classi in lotta». Ma è ancora peggio quando lo scontro avviene all’interno di una classe sola, tra vecchie e nuove élite di potere.

ALFONSO GIANNI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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Politica e società

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