Ilva, una storia infinita (per i lavoratori)

Al Corriere della Sera, forse stanchi di registrare ogni giorno tutti i malanni del mondo, hanno inaugurato un supplemento del loro quotidiano dedicato alle «buone notizie»; al di là della...

Al Corriere della Sera, forse stanchi di registrare ogni giorno tutti i malanni del mondo, hanno inaugurato un supplemento del loro quotidiano dedicato alle «buone notizie»; al di là della statura del giornalista che si occupa dell’iniziativa, figura certamente stimabilissima, l’idea non sollecita il nostro entusiasmo.

Ad ogni modo c’è una buona notizia che vogliamo segnalare al giornale sopra citato: i giudici hanno respinto la richiesta di patteggiamento avanzata da Fabio e Nicola Riva, due componenti della famiglia già proprietaria dell’Ilva, rispetto al procedimento a loro carico in corso nei tribunali.

Ma le buone novità sul gruppo siderurgico si fermano certamente a questo punto. Quelle negative sovrastano certamente quelle favorevoli. Ieri, in effetti, come è noto, c’è stata una giornata di sciopero in tutti gli stabilimenti per protestare contro il piano presentato dalla cordata vincitrice della gara per la gestione del complesso siderurgico.

E il governo, nella figura del ministro Calenda, con una mossa di cui non lo credevamo forse capace (peraltro è plausibile che con le elezioni alla porte non se la sia sentito di dare un’altra botta ai lavoratori, attività cui questo come il precedente esecutivo, bisogna dire, si sono dedicati con molta applicazione), ha annullato il tavolo tra le parti sociali previsto al Mise; il ministro ha fatto sapere alla cordata vincitrice che non era possibile aprire un confronto senza il rispetto delle condizioni già concordate per quanto riguardava i dipendenti.

I tempi per la soluzione della questione Ilva, che si trascina ormai da parecchi anni, si allungano così ulteriormente, come da tradizione tipica del nostro paese. Ricordiamo tra quelle più recenti anche la vicenda Alitalia. Nel caso dell’Ilva, dopo una storia molto lunga, come è noto a suo tempo il governo ha assegnato la gestione del complesso alla cordata AM InvestCo, di cui è capofila l’indiana Arcelor Mittal e a cui partecipa anche la Marcegaglia. Si è trattato di una decisione largamente contestabile.

Intanto Arcelor Mittal è già largamente presente in Europa e c’è il rischio che l’acquisizione del complesso italiano, in una situazione di sovraccapacità produttiva del settore a livello mondiale, sia da loro vista soprattutto come un mezzo per bloccare velleità espansive di altri, o, anche, per arrivare con il tempo ad una chiusura pilotata dello stesso. La presenza poi di un’impresa come la Marcegaglia, i cui risultati economici e finanziari degli ultimi dieci anni non sembrano essere stati molto brillanti, è solo la classica foglia di fico.

Manca poi qualsiasi piano di lungo termine su quello che si vuol fare veramente con un gruppo una volta orgoglio dell’industria nazionale, mentre tante altre grandi imprese del nostro paese sono finite in maniera ignominiosa.

Infine, il governo accetta di procrastinare ancora sino al 2023 la presunta soluzione del drammatico problema dell’inquinamento ambientale.

Ora la nuova proprietà vorrebbe lasciare a casa circa 4000 dipendenti su 14.000; essi sarebbero assorbiti dall’amministrazione straordinaria in lavori di bonifica del sito, gli stipendi dei 10.000 addetti «salvati» verrebbero fortemente ridimensionati sino a 6000 euro all’anno, somma certamente non trascurabile per delle remunerazioni già ridotte.

Mentre essi verrebbero riassunti senza la protezione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ancora più grave poi, forse, la situazione di circa 7.600 lavoratori dell’indotto, di cui si preferisce tacere del tutto la sorte. Certo l’intera questione dell’Ilva è comunque assai emblematica dell’incapacità del nostro paese di risolvere un problema complesso, anche se in questo caso il sentiero è stato comunque sin dall’inizio molto stretto.

Una parte della popolazione di Taranto, esasperata dalla drammatica situazione sanitaria dell’area, mentre anche altri importanti impianti produttivi locali presentano grandi problemi da anni, preferirebbe ormai la chiusura dell’impianto, sperando magari nell’avvio di un grande programma di riconversione dell’area verso nuove attività industriali.

Ma nella situazione in cui versano ormai il governo del paese e le amministrazioni pubbliche ci sembra un’idea del tutto irrealistica da realizzare.

D’altro canto, la questione della salute è irrinunciabile e la soluzione prospettata a suo tempo su di essa nell’accordo del governo con la Arcelor Mittal ci sembra contestabile.

Vogliamo ricordare che nel mondo ci sono ormai molti esempi di impianti siderurgici che funzionano riuscendo a tutelare la salute dei dipendenti e delle popolazioni circostanti. Bisognerebbe cercare di continuare a lottare in questa direzione anche le soluzioni tecniche appaiono complicate, se la stanchezza prende ormai alla gola e se chi abita vicino all’impianto non crede più a nessuna ipotesi salvifica.

Sono in ogni caso soprattutto gli operai di Taranto e la popolazione locale che devono decidere della sorte dell’impianto, anche se sono in ballo diversi siti produttivi del gruppo in altre località della penisola.

VINCENZO COMITO

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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