Il corto circuito omicida tra invidia e felicità

“L’invidia è una gran brutta bestia“; oppure: “L’ira è una cattiva consigliera“. Di detti popolari, di saggezza dei tempi e delle generazioni passate son piene le fosse e anche...

L’invidia è una gran brutta bestia“; oppure: “L’ira è una cattiva consigliera“. Di detti popolari, di saggezza dei tempi e delle generazioni passate son piene le fosse e anche i discorsi più retorici cui si possa avvicinarsi entrando in un supermercato, in un bar, conversando all’edicola, in metropolitana o sull’autobus. Mette un po’ più male oggi farlo con le mascherine, ma le parole passano dove persino il fiato (per fortuna) fa fatica a transitare.

Invidia e rabbia, una miscela esplosiva che non si sa mai fin dove ti può portare: se l’invidia si limita alla contemplazione dell’altrui fortuna, della felicità, della bellezza, allora probabilmente rimane confinata nel perimetro del lecito; un po’ quello che Freud definiva con chiarezza quando affermava che, in fondo, nel corso della nostra vita può accadere che si sia – “…almeno una volta…“, sosteneva il padre della psicoanalisi – portati a pensare di annientare colui o colei che invidiamo.

La troppa felicità abbaglia chi è infelice, chi è taciturnamente rinchiuso dentro la gabbia di sentimenti repressi, di introspezioni continue che lo portano ad essere particolarmente cinico verso tutto e tutti.

Ma, obiettava Freud, quel pensiero nella stragrande maggioranza dei casi, quasi il 100%, passa come tale e non si concretizza mai: resta un desiderio che evapora, che svanisce davanti alla barriera della morale, del rispetto per la vita altrui che, di riflesso, è rispetto anche per la propria, nostra vita.

Se l’invidia invece già tracima dagli argini del contenimento morale dettato dal patto sociale in cui si vive, se esonda nella pianura dove l’orizzonte si perde e si rimane privi di un punto di riferimento, se si associa alla rabbia che si prova per la propria infelice esistenza messa a paragone con la bella felicità altrui, allora può venirsi a creare quell’eccezione che – tuttavia – conferma la regola, visto che ci sorprendiamo per un duplice omicidio compiuto da un ragazzo appena ventunenne il cui movente è: «Erano felici».

I due fidanzati, Eleonora e Daniele, sono stati uccisi non per una vendetta classica, non per una consueta forma di gelosia, ma per impossessarsi di qualcosa di loro a cui l’omicida non avrebbe mai potuto arrivare: la loro felicità.

Inarrivabile, intangibile, solo contemplabile e per questo logorante, provocante delle contrazioni spasmodiche dell’animo che ti portano da un eccesso all’altro: pianificando ossessivamente la fine di due giovani che si amano, che sono belli e che sorridono piacevolmente nelle foto, il ventunenne aspirante infermiere ha iniziato quel cammino di catarsi che lo avrebbe liberato dal confronto con sé stesso.

Il confronto fra la sua vita e quella di Eleonora e Daniele è il tragico, tremendo, terribile substrato su cui cresce la malapianta dell’erosione dell’etica personale inserita nel contesto sociale. Antonio deve estraniarsi tanto dalla percezione dei valori da riconoscere sé stesso soltanto nel momento in cui predispone ogni singola minuziosa azione in quei fogliettini che dovrebbero garantirgli un “delitto perfetto” e che invece saranno tra i primi elementi a tradirlo.

Nel costruire la rete degli orrori commette anche altrettanti errori: sottovaluta quella Lecce che viene chiamata “la città delle telecamere” e sottovaluta sé stesso in questo consapevole delirio, in questa lucida volontà che non nega davanti ai magistrati. Ammette un po’ eufemisticamente di «…aver fatto una cavolata…», ma racconta anche del dopo duplice omicidio. Gli amici lo hanno visto felice come non mai, bere e ridere proprio il giorno in cui si svolgevano i funerali di quei due dolci fidanzati.

Quando ho sentito prima, visto e letto poi di questa orribile storia, mi sono fatto un esame di coscienza, anzi direi quasi un piccolo viaggio nel mio tempo tutto interno, nella mia storia tutta personale in quanto a sentimenti, paragonandoli a quelli altrui. Spesso ho provato una solitudine non certo piacevole: a volte mi capita di provarla anche in questo presente così dilaniato dalle separazioni indotte dal Covid-19.

Ho provato invidia per tante cose nella mia vita, per molte situazioni, ma per poche persone. Non credo sia per un disprezzo altezzoso dell’umanità. Tutt’altro. Credo di aver sempre cercato di trovare in ciò che mi circondava la gioia che non è riducibile alla felicità, che è condivisione di sentimenti e non esclusivismo o ermetismo delle passioni.

Vedere due giovani fidanzati che si baciano non mi ha mai scandalizzato, ma fatto piacere. Sempre. Pensavo di essere sciocco, ingenuo nel provare piacere nel vedere la contentezza, la serenità altrui. Del resto, vado ripetendomi da decenni che sono “speculare“: verso chi è sincero, onesto intellettualmente e amorevole, lo sono anche io; finisco invece per essere sgradevole con chi è sgradevole, cafone con chi è cafone e così via…

La storia di Antonio mi ha colpito proprio in questo paragone che ho fatto con me stesso a proposito dell’osservazione della altrui felicità. Un giovane ventenne che voleva aiutare il prossimo facendo l’infermiere, un po’ taciturno ma non così introverso da far pensare ad un attorcigliamento così gordiano delle viscere dei sentimenti. Di un inconscio che lo ha spinto a riflettersi sulla felicità altrui così tanto da non trovare spazio alcuno per quella propria. In nessun modo, in nessuna persona, in nessun luogo.

Quando devo raffrontarmi con fenomeni così altamente patologici (in senso ovviamente negativo), cerco la parola di Alda Merini che non mi ha mai tradito. Non lo fa nemmeno in questo frangente. Scrive la grande pazza della porta accanto: «La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice».

Eleonora e Daniele non meditavano alcuna vendetta contro nessuno. Erano felici. Ma la felicità, la gioia non possono essere delle colpe. Mai, nemmeno se ostentate. E non era questo il caso dei due fidanzati.

La miglior vendetta di Antonio verso la sua stessa infelicità sarebbe dovuta essere la ricerca della felicità o, quanto meno, di una gioia condivisa, di una maggiore empatia che purtroppo non ha fatto tempo a prendere campo, a crescere e diventare caratteristica dell’animo di un ventenne che si è sentito derubato di qualcosa da altri, mentre il ladro era lui stesso.

Ancora Alda Merini mi sostiene in queste dissertazioni: «Il dolore è una terraferma. L’uomo sicuramente può contare sul dolore perché è l’unica cosa sua, da sempre. La gioia è errabonda» [Alda Merini, “La pazza della porta accanto“, Bompiani editore].

Macerarsi nel dolore è consolatorio e disperante al tempo stesso. Un cortocircuito da cui non si esce se non si fa un salto di qualità, una vera e propria rivoluzione intima, se non si assesta un duro colpo ad un ancestralismo che è il muro di contenimento di altre vite che potremmo vivere e che ci neghiamo pensando di essere sempre e soltanto nell’unica realtà possibile.

Così come pensiamo che la struttura economica in cui ci troviamo a esistere e resistere sia il migliore dei mondi possibili: così come il capitalismo è superabile, anche i paradigmi del tutto personali sono oltrepassabili, ma bisogna essere quanto meno consapevoli della propria unicità e, per questo, di una particolarità che tutte e tutti hanno e che non ha diritto di essere annullata da noi. Da nessuno.

Ciascuno ha diritto di vivere secondo un compromesso tra parametri singolari, differenze individuali che sono assolutamente ricchezze nel contesto sociale, e dettami collettivi, pubbliche opinioni, contratti sociali definiti dal susseguirsi della vita umana su questo povero pianeta.

Riprendendo la frase della poetessa dei navigli, parafrasandola e adeguandola alla bisogna di questo tragico caso, ebbene essere vendicatori di sé stessi non deve essere facile, ma deve essere il limite salvifico estremo su cui fermarsi per evitare di diventare assassini degli altri. Per affermare il diritto alla gioia e non alla sopraffazione nel nome di una infelicità che non è colpa di chi è felice.

La crudeltà di Antonio termina il suo triste cammino nella “pietas” e non più nella “caritas“. Non è amore di sé stesso, ma disprezzo che, tragicamente, ha termine proprio quando viene messo a tacere il confronto con gli altri: in questo caso si trattava di Eleonora e di Daniele che volevano solo vivere insieme, felici, sorridenti.

Troppo per chi aveva accumulato così tanto rancore dentro sé da non accorgersi di essere praticamente già morto dentro. Prima ancora di Eleonora e di Daniele.

MARCO SFERINI

30 settembre 2o20

Foto di GLady da Pixabay

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