Globalizzazione, sinistra, destra e ceti popolari

Non c’è mai stato nessun rapporto ontologico privilegiato tra sinistra politica e intellettuale, ceti popolari e idea di giustizia, mentre il rapporto costruito faticosamente sul piano storico in quasi...

Non c’è mai stato nessun rapporto ontologico privilegiato tra sinistra politica e intellettuale, ceti popolari e idea di giustizia, mentre il rapporto costruito faticosamente sul piano storico in quasi due secoli è stato distrutto negli ultimi 30 anni.

È vero perciò che la sinistra, abdicando al proprio ruolo organico alle classi subalterne (che sono anch’esse costruzione storica) ha abbandonato uno spazio che è stato via via occupato da forze reazionarie (anche se questo esito non è conseguenza di un tradimento o di una tara originaria come oggi per lo più si ritiene bensì di una sconfitta strategica). Tornando a fare il nostro lavoro, tuttavia, non avremmo le masse che accorrono. Semplicemente, saremmo in condizioni un poco migliori per contendere quelle classi alle destre populiste. Una lunga fase infatti si è chiusa per sempre anche sotto questo aspetto e le forze che hanno un rapporto più prossimo con l’immediatezza sarebbero comunque in vantaggio.

In questo senso, la crisi della sinistra e la necessità urgente di una ricostruzione in chiave nazionale-popolare non è un buon motivo per diventare di destra. O addirittura per scoprire che la destra ha sempre avuto ragione, come purtroppo molti ex compagni culturalmente assai deboli e psicologicamente predisposti hanno fatto, sposando le cause più retrive e particolaristiche ma assai consolatorie e dunque di facile successo (dalla denuncia della invasione alla sostituzione dei popoli, dalla negazione dei diritti civili all’eurasiatismo). Tornare a fare il nostro lavoro non significa insomma imitare Le Pen o il suo simulacro dei poveri, Salvini.

Questo vale anche per la critica della UE. Che va condotta a fondo ma che va sviluppata a partire dallo studio delle tendenze storiche di lunga durata e dalla consapevolezza che oggi è in corso non solo uno scontro tra classi ma anzitutto uno scontro dentro le classi. E che entrambi i fronti, Leave e Remain, sono largamente egemonizzati da interessi e pulsioni di destra, ragion per cui nessuna delle due opzioni costruisce automaticamente un terreno più favorevole.

In primo luogo, smettiamola di parlare di globalizzazione. Più che di globalizzazione, che implica un processo di universalizzazione, bisogna infatti parlare di globalizzazione imperialistica, che è esattamente l’opposto di ciò che il concetto richiede. Con l’universalismo autentico, quello che sa anche riconoscere gli elementi di razionalità di ciò che è particolare, la sinistra deve sempre avere un rapporto profondo, perché sinistra è emancipazione, progresso e eguaglianza. La globalizzazione va invece contestata in quanto americana e solo nominalmente universalistica e non in quanto processo di costruzione del genere umano. Altrimenti si dà spazio alle ambiguità dei destri geopolitici. I quali odiano la globalizzazione come tale, cioè come sinonimo di potenziale eguaglianza. E dietro il differenzialismo culturale che fa tanto Postcolonial Studies nascondono il proposito illusorio di un’Europa bianca in rivincita, mentre aggravano la guerra tra poveri scatenata dal capitale facendone guerra di razze.

Va sempre poi ribadito, a questo proposito, che è comunque mille volte meglio il capitalismo del feudalesimo postmoderno senza libertà individuale, proposto per la madrepatria non meno che per le colonie dagli aspiranti ariani, dagli italiani veri e dai socialisti nazionali patriottici in confusione. Quelli che amano Hegel perché lo leggono come teorico dello stato di potenza e non della libertà dei moderni, per capirci.

È a questo proposito assai strano: sono ormai legioni coloro che per sostenere l’obsolescenza delle vecchie categorie criticano la sinistra, ma mai che questi acuti demistificatori del mainstream e del politicamente corretto abbiano niente da dire contro la destra… Eppure è assai evidente che ciò che è accaduto è proprio un mostruoso slittamento a destra del quadro politico complessivo e che la sinistra è stata sconfitta e espugnata dalla destra in seguito alla rivoluzione conservatrice neoliberale.

In un mondo normale la critica – soprattutto la critica che muove dal concetto di lotta di classe – dovrebbe quindi concentrarsi proprio su questi processi che vanno a destra. E proporsi la ricostruzione di una sinistra degna di questo nome, quella che coniuga questione sociale, questione nazionale, questione dei diritti civili. Invece niente: il nome stesso della sinistra è da alcuni usurpato, dagli altri infamato.

Cornuti e mazziati si direbbe, per coloro che sono invece rimasti sempre coerenti con i fondamenti di una sinistra anticapitalistica o anche solo sinceramente riformista e che si vedono ora fare lezioni di rivoluzione dai vecchi lacchè di Gladio e della Nato. In realtà, siamo qui di fronte alle consuete posizioni di destra sociale che cercano di camuffarsi per sfondare, fiutando il crollo del fronte avverso.

Il fatto che la destra più pericolosa sia oggi quella liberale-tecnocratica, anzitutto se imbellettata da sinistra, non è buona ragione per ritenere che gli altri siano innocui e farci comunella.

STEFANO G. AZZARA’
(Università di Urbino) è autore di Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia. Imprimatur Editore 2014

da rifondazione.it

foto tratta da Pixabay

categorie
Analisi e tesi

altri articoli