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Economia e società

Chiara Saraceno: «Non chiamiamolo più reddito di cittadinanza»

Professoressa Chiara Saraceno, il «reddito di cittadinanza» è la «fondazione di un nuovo Welfare» come sostiene il ministro del lavoro Luigi Di Maio?
È un’esagerazione. Nella versione più positiva, si può dire che è aggiunto al welfare quello che c’è già da tempo altrove: una protezione per chi si trova in povertà. È un completamento che non sottovaluto. Da più di 30 anni promuovo questa idea, ma certo non applicata in questo modo.

Cosa non la convince?
La mescolanza di due politiche diverse: quelle contro la povertà e quelle di sostegno al reddito. In generale, il problema dell’assenza di lavoro non deriva dal fatto che offerta e domanda non si incontrano, ma dal fatto che non c’è abbastanza domanda di lavoro. È lo stesso errore di Renzi: si sta facendo una politica dell’offerta. Poi c’è l’idea di obbligare i poveri a lavorare perché altrimenti restano seduti sul divano in una vita in vacanza. È un linguaggio indecente. È una mancanza di rispetto. È come se non si sapesse che i poveri assoluti hanno spesso in famiglia almeno un membro che lavora. E ci sono anche persone che lavorano in maniera intermittente e quelle che non possono lavorare perché sono vulnerabili. I poveri, per definizione, non sono fannulloni da pungolare.

Esistevano alternative?
Allargare, ad esempio, il «reddito di inclusione» (ReI), facendo tesoro dei suoi aspetti più problematici per fare qualcosa di meglio. Invece hanno deciso di fare una misura nuova negando il pregresso. È un difetto di arroganza e di ignoranza: rifare tutto senza imparare dagli errori precedenti. Poi, a guardarci dentro, questo «reddito» non è diverso dal «Rei». Ciò che lo rende diverso è l’obiettivo molto lavoristico e una governance molto delicata. Non so se hanno idea di quanto tempo sarà necessario.

Quanto secondo lei?
Già oggi è difficile che si parlino l’anagrafe e i servizi di uno stesso comune. Qui si parla di mettere d’accordo venti regioni, e le province, che hanno in mano le politiche del lavoro; i comuni, l’Inps, le agenzie interinali, gli enti bilaterali. Tutto intermediato da due piattaforme digitali. È un’idea astratta: basta una «app» e tutto viene risolto. È come se non avessero idea delle difficoltà in campo. Con questa fretta palingenetica di fare cose nuove, che nuove non sono, e di farle prima delle elezioni europee, si rischia invece di perdere un’occasione d’oro.

In Germania ci sono 110 mila persone assunte nei «job center». In Italia sono state annunciate le 4 mila assunzioni dei «navigator» che si aggiungeranno agli 8 mila impiegati dei centri dell’impiego. Basteranno?
L’unica cosa certa oggi è che ci saranno 4 mila posti in più, sia pure precari. È una storia antica: l’assistenza produce lavoro per chi lavora nell’assistenza. È sacrosanto che i centri per l’impiego siano riformati, ma allora facciamolo seriamente, quando siamo pronti. Non improvvisiamo con persone che, una volta assunte, ed è da capire quando, dovranno essere formate a svolgere un lavoro complesso come quello sociale.

…continua a leggere su il manifesto.it…

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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