Céline

“In alto, sul ponte, al fresco, ci sono i padroni che non se la prendono mica, si tengono sulle ginocchia donne rosee e vaporose di profumi. Ci fanno salire...

“In alto, sul ponte, al fresco, ci sono i padroni che non se la prendono mica, si tengono sulle ginocchia donne rosee e vaporose di profumi. Ci fanno salire sul ponte. Allora si coprono con alti cappelli a cilindro e poi ci rovesciano sul capo una bella solfa di questo genere: ‘banda di carogne, c’è la guerra!’, ti fanno. Li affronteremo quei mascalzoni che si trovano a bordo della patria numero 2, gli faremo saltare la carcassa. Forza su! A bordo c’è tutto ciò che occorre. Tutti in coro! Per cominciare un bel grido a squarciagola da far tremare: ‘Evviva la patria numero 1’. Che si senta lontano! Per chi grida più forte ci sarà la medaglia e il confettino del buon Gesù! Perdincidio! E poi quelli che non vogliono crepare in mare, avranno sempre la risorsa di crepare a terra dove ci si sbriga ancor meglio di qui.”

Queste parole, concepite dal “più grande scrittore degli ultimi duemila anni” (cit. Bukowski), compongono parte del primo capitolo di “Viaggio al termine della notte” (1932), esperimento letterario in assoluto tra i più innovativi e riusciti dello scorso secolo; parrebbero le parole di sferzante satira di un convinto pacifista, di un combattente per la pace, chissà, magari anche di un sincero militante di sinistra. Eppure l’autore in questione, Louis-Ferdinand Céline, è conosciuto dai più per le sue esternazioni profondamente anti-semite e i suoi comportamenti al limite del collaborazionismo durante l’occupazione tedesca della Francia.

Come è stato possibile? La risposta non è certo semplice, ma possiamo provare a fare un tentativo.

Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline, nasce nel 1894 vicino Parigi in una modesta famiglia piccolo-borghese. Arruolatosi volontario nel 1912, allo scoppio del primo conflitto mondiale due anni più tardi partecipa direttamente agli scontri di trince che, oltre a procurargli una ferita, lo segneranno psicologicamente per sempre. Terminata la guerra, Ferdinand, laureandosi in medicina, diventa il “dottor Destouches”, esercitando la professione medica prima in giro per il mondo al servizio della Società delle Nazioni e poi, dal 1928 in poi, per tutta la vita nelle miserrime banlieues parigine. Nel 1932 avviene la svolta della vita, pubblicando “Viaggio al termine della notte”, il suo romanzo più famoso.

Pur trattando un tema vecchissimo come il viaggio, tema che dopo l’”Ulisse” di Joyce non era certo facile rinnovare, Céline riesce a farlo perfettamente incanalare nel dramma esistenziale dell’Uomo Novecentesco, traendo ispirazione dalle proprie (dis)avventure biografiche. Ferdinand Bardamu, alter ego dell’autore, si arruola nell’esercito francese in partenza per il fronte, rimanendo così vittima dell’incontro con la realtà ultima delle cose: il nulla ontologico, il vuoto di morte che attende l’Uomo dietro tutte le sue ipocrisie, i tronfi paroloni patriottici, la finta morale borghese. La Morte è la vera natura dell’Uomo il quale, tramite la creazione di mutevoli sovrastrutture culturali, cerca di ignorarla quotidianamente, senza però poterla veramente esorcizzare.

“Uno è vergine dell’Orrore come lo è della voluttà. Come me lo potevo immaginarmelo io ‘sto orrore lasciando Place Clichy? Chi avrebbe potuto prevedere prima d’entrare davvero in guerra, tutto quell che conteneva la sporca anima eroica e fannullona degli uomini? Adesso, ero preso in questa fuga di massa, verso l’assassinio di gruppo, verso il fuoco…Veniva dal profondo ed era arrivato.”

Più Ferdinand tenta di scappare da questa indicibile Verità, più ci casca dentro. Cercando invano una realtà davvero altra, magari redentoria, scende fino al fondo della notte umana, tentando la fortuna nell’Africa coloniale, venendo a contatto con le metropoli americane, curando per pochi spiccioli i diseredati di Parigi. Ma la redenzione non è più possibile.
L’estremo nichilismo immette Céline nel solco estetico tracciato una settantina di anni prima da Baudelaire. In alcuni abbozzi pensati come prefazione alla seconda edizione dei “Fleurs du mal”, il grande poeta maledetto scrisse:

“ Mi è sembrato divertente, e tanto più sgradevole quanto più era difficile il compito, estrarre la Bellezza dal Male “.

Come Baudelaire aveva condotto la sua Musa poetica nel fango e in tutto ciò che era immondo e maledetto nella Parigi di metà ‘800, così Céline riporta la letteratura francese a realtà malate, incattivite: alle realtà delle classi popolari, tra il tanfo delle trincee, i rumori delle fabbriche e lo squallore delle banlieues. E compiendo questa operazione con una violenza mai vista prima. Un critico, all’uscita del romanzo, addirittura scrisse:

“Céline ha buttato una bomba contro l’edificio dell’umanità”.

Per acclimatarsi alle immagini descritte, anche la lingua assume un punto di vista “dal basso” e, pur mantendo una forte impronta musicale, è costretta a distaccarsi radicalmente dalla ritmica post-simbolista di un Valery. La musica di Céline segue l’asprezza dell’argot, ovvero la lingua popolare, artificialmente costruita dall’autore tramite una fitta trama di richiami fonici e di giochi di parole, di iperboli, ellissi e frequenti parolacce, il tutto in una continua e rigogliosa accumulazione verbale: ciò che Céline amava definire “il metrò dentro la testa”.

Dunque, come Baudelaire anche Céline coglie dei “fleurs du mal” (“fiori del male” ma anche “fiori dal male”). A dir la verità non sono molti (e nemmeno duraturi) i fiori incontrati lungo il tortuoso cammino, ma i pochi che riesce ad odorare sono davvero profumatissimi; il più profumato di tutti è sicuramente Molly, la prostituta conosciuta in America e di cui si innamora. Ma, unico lampo nel buio della Notte, il fiore presto appassice. Bardamu è costretto a tornare in Europa, da solo.

Molte altre sono le vicende che animano successivamente il romanzo che si conclude con un finale pessimistico, (che non spoileriamo per chi non lo ha letto), ma episodi come il già citato incontro americano con Molly sembrano ancora poter fornire al personaggio (e all’autore) un senso, se non all’agire, forse almeno a resistere; seppur con estrema disillusione, infatti, sembra quasi di percepire nelle pagine del romanzo il dovere di dirla la scabrosa Verità scoperta, la quale necessita comunque di essere annunciata al popolo “bue”, che viene schernito con amare battute ma che è comunque l’ambiente di cui si sente parte Céline.

Come il folle nietzschano, Céline vuole annunciare al mondo lo scandalo della Morte di Dio e di ogni suo surrogato, l’impossibilità di credere nella Ragione umana, distruggendo tutte le sovrastrutture borghesi e riducendole al loro nucleo ultimo di sfruttamento e ingiustizia. Ciò si potrebbe quindi interpretare, in linea del tutto teorica, come una “critica”, anche sociale. E in effetti molti a sinistra lo interpretarono così, quando uscì il romanzo. Eppure, proprio ad uno speciale militante di sinistra dobbiamo la più felice intuizione che la critica marxista dell’epoca seppe cogliere:

“Louis Ferdinand Céline è entrato nella grande letteratura come altri entrano in casa propria […]. Egli ha scritto un libro che resterà, anche se ne scriverà altri e anche se raggiungerà il livello del primo. ‘Viaggio al termine della notte’ è un romanzo del pessimismo dettato dal terrore e dal tedio della vita più che dalla rivolta. La rivolta attiva è legata alla speranza. Non c’è speranza nel libro di Céline. Sollevando il velo della decenza, Céline mette a nudo le radici, mostra il fango e il sangue […]. È per questo che ha l’aria di un rivoluzionario. Ma Céline non è un rivoluzionario nè vuole esserlo.” – Lev Trotsky

Se infatti le ragioni che successivamente portarono Céline a posizioni anti-semite si possono far ricondurre ai razzisti ambienti piccolo-borghesi in cui crebbe, oltre che a motivi personali semi-patologici, il punto colto da Trotsky tocca la radice della follia generalizzata che portò non solo lo scrittore ma anche buona parte dell’Europa nel baratro del nazismo; senza soldi, senza speranze, reduci da una spaventosa guerra di trincea, pieni di paura per il futuro: contro chi incanalare la rabbia se non verso il più facile e indifeso dei bersagli umani?

GIUSEPPE SCAVO

3 aprile 2021

dalla rivista REC

foto tratta da Wikipedia

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