’77, le periferie all’assalto dei centri

Furono i “luoghi periferici”, scuole, circoli del proletariato giovanile, collettivi giovanili, che elessero l’Università a luogo di incontro e di ricomposizione di soggetti prodotti dalla crisi

Tra i tanti e significativi anniversari di questo 2017, fanno cifra tonda anche i quarant’anni trascorsi dal poi denominatosi movimento del ’77. Nato come risposta al tentativo di riformare l’Università italiana, ad opera dell’allora ministro della pubblica istruzione, il democristiano Franco Maria Malfatti, esso manifestò ben presto una composizione sociale che lo differenziò dal movimento studentesco del ’68. Quel movimento non mosse dalle sedi universitarie per espandersi alle “periferie”, se mai furono i “luoghi periferici”, licei, istituti tecnici e professionali, circoli del proletariato giovanile, collettivi giovanili delle periferie urbane, che elessero l’Università a luogo di incontro e di ricomposizione di soggetti diversi prodotti dalla crisi che aveva investito le economie capitalistiche dei paesi occidentali a partire dalla recessione generalizzata del 1974-75.

Il movimento del ’77 nacque come risposta all’ennesimo tentativo di riformare l’università italiana, ad opera dell’allora ministro della pubblica istruzione, il democristiano Franco Maria Malfatti. Tra i primi a muoversi furono gli studenti universitari palermitani che occuparono la facoltà di Lettere il 21 gennaio 1977. L’eco si diffuse nelle altre facoltà del capoluogo siciliano che furono occupate, poi il moto salì rapidamente al Centro e al Nord. Formalmente l’università e gli universitari tornavano al centro dell’azione, similmente a quanto era accaduto nel biennio studentesco italiano del 1967-’68, ma la situazione era diversa. Nel ‘68 l’università rappresentò il contesto dentro il quale si sviluppò il movimento. Nel ‘77 l’università divenne il pretesto che alimentò la vita del movimento. Nel ‘68 il movimento si era sviluppato dentro e contro le strutture autoritarie e burocratiche delle università italiane e, solo successivamente, si era posto il problema di uscire da esse investendo con la critica l’intero sistema sociale e cercando alleati in altri settori sociali sfruttati e oppressi per condurre assieme la lotta contro la società capitalistica. Nel ‘77 le università diventarono un luogo di aggregazione di soggetti il cui disagio non nasceva solo dalla tradizionale condizione studentesca. Era il risultato di problemi e situazioni di “sofferenza” che esistevano fuori dalla scuola e investivano il mondo giovanile.

Quel movimento non mosse dalle sedi universitarie per espandersi alle “periferie”, se mai furono i “luoghi periferici”, licei, istituti tecnici e professionali, circoli del proletariato giovanile, collettivi giovanili delle periferie urbane, che elessero l’Università a luogo di incontro e di ricomposizione di soggetti diversi prodotti dalla crisi che aveva investito le economie capitalistiche dei paesi occidentali, a partire dalla recessione generalizzata del 1974-75, innescando processi di ristrutturazione nell’industria, mentre nel settore dei servizi, l’inflazione e il debito pubblico producevano una politica di tagli della spesa.

Per i giovani degli anni Settanta questa congiuntura economica rappresentò un fatto nuovo rispetto al tempo dei loro coetanei degli anni Sessanta. Un’indagine dei primi mesi del 1976 valutava a circa 1.200.000 le persone fra i 14 e i 29 anni disoccupate o sotto-occupate (un anno dopo ammonteranno a oltre due milioni).

Il movimento, il suo “dire” e agire

Il ‘68 aveva prodotto un fenomeno di politicizzazione di ceti giovanili e gruppi sociali precedentemente esclusi o diffidenti verso l’impegno e la militanza politica. Aveva in qualche modo rifondato l’agire politico indicando nella partecipazione di base e nel movimento gli elementi nuovi per evitare di essere espropriati nelle decisioni dai partiti, dai sindacati e dalle istituzioni rappresentative. Se allora la protesta aveva prodotto nuove progettualità politiche e organizzative, nella seconda metà degli anni Settanta la protesta giovanile, pur cercando ancora di esprimersi politicamente, lo faceva in modo frammentario, indeciso, incerto e contraddittorio. Non esprimeva nuove certezze politiche e organizzative, piuttosto introduceva elementi di critica al modo di fare

politica, quasi un rifiuto, un prendere le distanze dal sistema, un sentirsi parte separata dal resto della società. Il movimento del ’77 aprì definitivamente gli occhi sulla comparsa di una nuova generazione, diversa da quella “sessantottina” nell’atteggiamento verso la politica. Era come se, tutto ad un tratto ed esageratamente, una parte consistente del mondo giovanile, che aveva sperato nella trasformazione dei rapporti sociali e delle relazioni tra gli individui, si sentisse “orfana”, priva di speranza, consapevole della difficoltà di vedere entro poco tempo realizzata una società nuova.

Nuovamente i giovani vissero l’esperienza di stare in una “società bloccata” nella speranza del cambiamento e della trasformazione. La società bloccata si ripresentava tale e quale nello sberleffo dell’ennesimo governo Andreotti e nella cautela cautissima di Enrico Berlinguer, del Pci delle astensioni e della non sfiducia, mentre i sindacati confederali si affannavano a firmare il 26 gennaio 1977 un “patto sociale” con la Confindustria, tra i “produttori”, per accrescere la competitività del sistema sul piano interno e internazionale. Parallelamente un’ondata di riflusso investì la generazione sessantottina, una dismissione improvvisa e secca del loro protagonismo sociale, culturale e politico, un ritorno al “privato” dopo anni vissuti ostentatamente in una dimensione pubblica attiva. I nuovi venuti al movimento invece reagirono diversamente. Una parte, quella più politicizzata, aumentò il grado di radicalizzazione e di estremismo, andando ad ingrossare le fila dell’autonomia operaia. Altri si chiusero nelle “riserve indiane” per poi “dichiarare guerra” al sistema delle “giacche blu”, secondo la fraseologia degli indiani metropolitani, o costituirono i circoli del proletariato giovanile, luoghi di ritrovo per giovani “sconvolti” dalla politica e dalla militanza, dove si provava a ricostruire una vita a misura d’utopia, partendo da sé, dal proprio sentire desiderante, intessendo relazioni coi propri simili per intervenire nel sociale, sul territorio.

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DIEGO GIACHETTI

da Popoffquotidiano.it

foto tratta da Wikipedia

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