L’uso politico della paranoia dal primo Novecento ad oggi

«Le courage c’est de chercher la vérité et de la dire, c’est de ne pas subir la loi du mensonge triomphant qui passe et de ne pas faire écho...

«Le courage c’est de chercher la vérité et de la dire, c’est de ne pas subir la loi du mensonge triomphant qui passe et de ne pas faire écho de notre âme, de notre bouche et de nos mains aux applaudissements imbéciles et aux huées fanatiques»

(Jean Jaurès)

All’inizio dell’estate del 1914, fra bagni di mare dei cosmopoliti intellettuali europei e gite in barca del kaiser Guglielmo II che ancora scriveva lettere al “caro cugino”, Nicola II, zar di tutte le Russie, nulla o quasi (tranne che per i pochi, soliti “menagrami” attenti ad un processo di militarizzazione in atto da due decenni, apparentemente sotto traccia rispetto all’ “entente cordiale” e ai guizzi della Belle époque e dell’ art nouveau) faceva presagire l’inizio dell’imminente tempesta e di una carneficina giunta quasi per inerzia dopo che l’attentato di Sarajevo del 28 Giugno, commesso da un giovane nazionalista serbo, Gavrilo Princip, a danno dell’ Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e della di lui consorte, determinò nell’intero continente un’esplosione improvvisa di deliri nazionalistici di massa, manifestazioni interventiste, demonizzazioni dello “straniero”; il francese per il tedesco, il tedesco per il francese, il russo per il tedesco, il serbo per l’austriaco, l’austriaco per il serbo e via di microstato in microstato in quella polveriera mitteleuropea e balcanica pronta ad esplodere in faccia al “grande malato”, l’impero ottomano che, nella sua multietnicità, aveva molte caratteristiche simili al vicino impero austroungarico, a partire proprio dal rischio di frantumazione; di “balcanizzazione”, per l’appunto.

La pallottola di Gavrilo Princip ben presto, grazie ad un uso politico della paranoia delle masse, strumentalizzate da un grande capitale che, per dirla con Jean Jaurès, martire di quei terribili giorni, porta la guerra come le nubi portano la tempesta, si trasformò, palla di neve che diviene valanga, in mitragliatrici, cannoni, navi, trincee, gas tossici, mutilazioni, dolore di massa e morte anonima a Ypres, Verdun, poi nei mari settentrionali d’Europa, sull’Isonzo, sul Carso, nei deserti mediorientali e a Gallipoli, entro una geografia del dolore le cui linee di faglia creano tuttora instabilità e rischi in tre continenti.

Come allora, quando la macchina della propaganda e della nazionalizzazione delle masse aveva appena scaldato il suo motore in rodaggio e le persone comuni si erano trovate trascinate in un gorgo più grande di loro e tuttavia formato anche e soprattutto dal loro essere pedine ideologiche di un gioco in cui erano le prime vittime,così oggi, nel tempo della biopolitica e della psicopolitica, nel tempo in cui il capitale globale ha unificato il Pianeta sotto il sinistro segno del profitto a tutti i costi e della socializzazione delle perdite, l’odio paranoico verso l’immigrato, versione attuale e volgarizzata del nazionalismo elitario delle borghesie grandi e piccole di un secolo fa, diviene l’unico collante di una società massacrata economicamente e giuridicamente da trent’anni di politiche di riappropriazione di quote di reddito da parte del capitale ai danni del lavoro, entro un processo di “controrivoluzione conservatrice” risalente almeno ai primi anni Settanta, quando la Trilateral teorizzò apertamente la necessità di fronteggiare gli “eccessi di democrazia” che in Occidente potevano determinare il “rischio” di una trasformazione socialista della società.

Le pulsioni più retrive, quelle un tempo relegate a rumore di fondo nelle chiacchiere da bar ed ancora sottomesse ai freni inibitori di una democrazia certo incompleta ma altrettanto certamente salda nei suoi valori repubblicani e antifascisti, quantomeno sulla carta, oggi fuoriescono nel magma delle reti sociali (volgarmente conosciuti come “social network”, perché il dominio imperiale si espleta anche nell’imperialismo linguistico), le quali riproducono tecnicamente l’odio moltiplicandone la portata distruttiva e l’effetto imitativo, sia esso quello dei giovani radicalizzati dal fascismo islamista di Daesh o di quelli fascistizzati dai partiti di destra legali o meno e dalla loro egemonia mediatica, speculare dimostrazione di una debolezza intellettuale e di una povertà di mezzi dall’esito potenzialmente – e non solo potenzialmente- esplosivo, ché il deserto sociale della distruzione del futuro, della stabilità economica, dell’ambiente e dei saperi, percepibile anche fisicamente in qualunque periferia europea, permette di sopravvivere solo agli sciacalli che, nutrendosi di disperazione, trasformano quest’ultima in pulsioni nichiliste e distruttive la cui razionalità va cercata fuori di esse: il paranoico senza strumenti culturali non è un essere razionale, mentre è razionale chi usa l’irrazionalità del paranoico per uno scopo che, peraltro, può essere altrettanto paranoico, come mostra la vicenda biografica dei vari dittatori grandi e piccoli del Novecento, ossessionati persino dalla loro ombra, eppure così ben organizzati nel pianificare le strategie del loro potere.

In sintesi, possiamo dire che oggi la xenofobia viene alimentata dai media, per poi essere riprodotta autonomamente dall’autoreplicarsi del virus attraverso le reti sociali e che tale clima sia funzionale ad un’asfissia cerebrale generalizzata grazie alla quale le masse, deprivate della capacità di esercitare un sapere critico e di analizzare le ragioni economiche e politiche del loro disagio, riversano tutto l’odio sugli immigrati, esattamente come i “pezzenti” di Pietro l’Eremita, partiti in una crociata verso Gerusalemme costellata di massacri di ebrei nei villaggi mitteleuropei attraversati.

Lo spaesamento della “gente normale”, divenuta negli anni della crisi gente normopatica, diviene un urlo sordomuto come nel quadro di Munch, sordo in quanto deprivato della capacità di ascoltare l’altro, e dunque di costruire una dimensione collettiva a partire da un idem sentire, e muto in quanto la perdita degli strumenti minimi di orientamento in una contemporaneità che al tempo della globalizzazione richiede un supplemento di cultura ,rispetto persino alla cultura media di due decenni fa, fa sì che non esca alcun suono da corde vocali rifluite in angoscia deglutita e poi vomitata sotto forma di odio, di pulsione necrofila, di distopia come unico orizzonte, ormai piatto come quello bidimensionale degli schermi dei “telefoni intelligenti”, i quali, per il già citato imperialismo linguistico ,sono conosciuti come “smartphones”.

La bidimensionalità, la binarietà dei codici arcaici ma metastorici sottostanti alla dicotomia amico/nemico divengono dunque l’unico orizzonte del normopatico, mentre le piazze vuote, la non partecipazione, l’isolamento costituiscono la fenomenologia del dominio biopolitico contemporaneo: delle folle oceaniche mussoliniane il neoliberismo non ha bisogno, giacché il consenso è fondato sull’assenso e sulla passività, nuova forma rientrante di mobilitazione delle masse, assai più economica per le classi dominanti in quanto, come si è visto nel caso della xenofobia seriale, in grado di autoreplicarsi, risparmiando così ai poteri costituiti lo sforzo di organizzare mobilitazioni continue come accadeva nel Novecento, mobilitazioni, peraltro, rese anacronistiche da uno sviluppo tecnologico che permette tutto quello che abbiamo visto poc’anzi.

In un simile contesto, lungi dall’esprimere un punto di vista luddistico nei confronti della contemporaneità, vagheggiando un ritorno ad un prima ormai storicamente impossibile se non a costo di produrre forme di totalitarismo eguale e contrario a quello che vogliamo combattere, è più utile studiare le modalità con cui l’egemonia reazionaria delle classi dominanti si espleta, mediante l’uso delle tecnologie, sino a divenire senso comune, e dunque regresso sociale e culturale dagli esiti devastanti e, una volta colte le tendenze di fondo di tale egemonia, in primis dal punto di vista della psicologia di massa, occorre impostare un lavoro pluriennale (la soluzione è ben lontana all’orizzonte) di decostruzione della stessa, consapevoli, tuttavia, del fatto che sfidare l’apparato ideologico dominante con gli strumenti da esso creati (reti sociali e tecnologie varie) rischia di sconfiggerci per manifesta inferiorità, giacché di fronte alla paranoia è totalmente inutile rispondere con il ragionamento e con la coerenza di pensiero, i quali mai saranno identificati come tali dal soggetto paranoico che “ragiona” proprio a partire da un’inversione delle cause e da una negazione delle evidenze trasformati in dogmi.

La soluzione, dunque, sta in un lavoro di lunga durata il quale cammini su un binario duplice: lo studio che ci permette di affrontare i contesti di delirio di massa con strumenti in grado di non farcene travolgere e, contemporaneamente, il recupero dei rapporti umani reali, al di fuori dei calcolatori e delle reti sociali, per far sì che, privo della “protesi” degli schermi e dell’assenza di freni inibitori da essi determinata, il soggetto interagisca in maniera paritaria con l’umano che gli è di fronte, corporeità compresa. Il cammino è, dunque, lungo, ma senza il primo passo non esisterà mai alcun cammino.

ENNIO CIRNIGLIARO

redazionale

26 luglio 2016

foto tratta da Pixabay

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