Iran, Biden sulle orme di Trump e non su quelle di Obama

Golfo. In un'intervista tv il neo presidente conferma: le misure restrittive contro Teheran, volute da Trump, restano. Dopotutto fu un acceso esportatore di "democrazia" per cui la Repubblica islamica rimane il sacrificio da offrire a sauditi e israeliani

Alle prese con l’Iran – insieme a Cina e Russia il dossier di esteri più spinoso – Biden conferma l’agenda di Trump e fa qualche passo indietro persino rispetto a Obama. La sua ricetta è questa: prima viene il consueto doppio standard del patto di Abramo, ereditato dal tycoon sotto il secondo impeachment, poi si vedrà.

Nel botta e risposta con la Guida suprema Khamenei che chiedeva di levare, almeno in parte, le sanzioni prima di negoziare sul nucleare il presidente Usa non ha avuto esitazioni: nella sacralità di un’intervista tv a ridosso della diretta del Super Bowl, ha scelto il «no» secco.

La mediazione europea avanzata dall’onnipresente Macron appare biforcuta e ancora di là da venire. Biforcuta perché la Francia, che negli investimenti ha scartato il Qatar, sponsor dei Fratelli musulmani, a favore dei sauditi, fu la potenza europea che nel 2015, proprio per gli affari in corso con Riad, sollevò le maggiori obiezioni all’intesa degli Usa con l’Iran: chiedere per informazioni sui negoziati di allora a Mogherini e Zarif.

La sostanza è sempre questa: gli europei vendono armi a Israele, Emirati, sauditi, Qatar, Egitto, Turchia, non all’Iran degli ayatollah. Sono quindi membri non dichiarati ma super attivi del patto di Abramo e della «Nato araba» con Usa, Israele, Emirati, Barhain, Sudan, Marocco.

Senza contare che Israele è appena entrata a far parte del CentCom (Central Command) con gli arabi, il comando militare americano in Medio Oriente. Con l’inserimento nel CentCom e la diffusione nelle basi Usa dell’Iron Dome, Israele diventa un’autorità delegata che Washington userà per gestire la regione anche a distanza.

Ecco perché il senatore Renzi, accreditato di ambizioni da segretario Nato, sbrodola che Mohammed bin Salman è come Lorenzo il Magnifico, il principe ereditario di un nuovo rinascimento delle sabbie dove si fanno a pezzi i giornalisti e gli oppositori marciscono in galera.

Ci piacerebbe sapere, un giorno, cosa pensa Draghi in proposito. Ma lo sospettiamo già: con l’elezione di Biden si è aperta a novembre la «finestra americana» e il bulldozer Renzi, cominciando proprio dall’attacco sulla delega ai servizi in mano a Conte, ha spianato la strada al «salvatore dell’euro», molto stimato dall’establishment Usa dove è stato allievo di Stanley Fisher, ex vice della Fed ed ex capo della Banca centrale di Israele.

Gli iraniani non possono abboccare agli zuccherini di Biden che ha preso le distanze dalla guerra saudita ed emiratina in Yemen e tolgono gli Houthi dalla lista nera dei gruppi terroristici. A Teheran si guarda alla sostanza e alle prossime elezioni presidenziali, se le cose restano così, si può immaginare che l’ala più dura della Repubblica islamica possa avere il sopravvento sui moderati come il presidente uscente Hassan Rohani.

Nell’ultimo anno americani e israeliani hanno fatto fuori un loro generale, Qassem Soleimani, e uno scienziato eminente come Mohsen Fakrizadeh. Usa e Stato ebraico non hanno mai smesso di bombardare i pasdaran iraniani in Siria e sono pronti a intorbidare le già limacciose acque libanesi per assestare qualche colpo agli alleati iraniani Hezbollah che vorrebbero espellere dal Medio Oriente.

Senza contare che gli Usa, nella panoplia delle sanzioni e dell’embargo petrolifero a Teheran, continuano a tenere congelati nei conti all’estero dozzine di miliardi di dollari dell’Iran, al punto di impedire che la Repubblica islamica negoziasse di recente una fornitura di vaccini anti-Covid con la Corea del Sud.

Ma gli Stati uniti, insiste Biden, sono una democrazia l’Iran no e quindi possono punire chi vogliono, come vogliono. Un argomento un po’ spuntato perché la luccicante facciata democratica degli Stati uniti si è decisamente appannata con l’assalto al Congresso.

Ma Biden è un convinto esportatore della democrazia americana, non per niente nel 2003 votò a favore dell’attacco all’Iraq e ora si è lanciato contro la Russia di Putin per il caso Navalny.

Un po’ meno contro la Cina perché con Xi Jinping, che conosce bene, è convinto di mettersi d’accordo mentre le banche d’affari di Wall Street, che lo hanno sostenuto in campagna elettorale, stanno sbarcando in forze a Pechino. Insomma ognuno ha i suoi banchieri, che molto spesso hanno lavorato per lo stesso padrone.

Peccato che l’afflato democratico di Biden, così impetuoso con l’Iran degli ayatollah, scompare quando si passa a esaminare i rapporti con le satrapie del Golfo, monarchie assolute e nemiche dei diritti umani, o di dittatori come Al Sisi che riceve gli aiuti militari americani e può fare quel che vuole senza che da Washington si alzi la minima obiezione.

Il temporaneo congelamento della forniture militari Usa a Riad è in realtà finalizzato non tanto a mostrare che gli Usa hanno intenzione di venire a patti con Teheran ma a convincere i sauditi ad accelerare il riconoscimento di Israele e a entrare nel Patto di Abramo. Allora il cerchio si chiuderà con la celebrazione del sanguinario Lorenzo il Magnifico delle sabbie.

ALBERTO NEGRI

da il manifesto.it

foto da Wikipedia

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