Classe, consigli, blocco storico

La dolorosa scomparsa di Pierre Carniti ha giustamente stimolato in molti compagni protagonisti con lui di una irripetibile stagione sindacale un insieme di importanti riflessioni. In particolare, in alcuni...

La dolorosa scomparsa di Pierre Carniti ha giustamente stimolato in molti compagni protagonisti con lui di una irripetibile stagione sindacale un insieme di importanti riflessioni.

In particolare, in alcuni interventi, si è rinnovata l’analisi sulla particolare dimensione che ebbe, in quel tempo, la lotta di classe (elemento totalizzante anche dal punto di vista della vita quotidiana per quanti s’impegnarono in quel contesto) e la trasposizione di questa in una espressione anomala dal punto di vista dell’organizzazione sindacale: i consigli.

 Si può allora ancora sviluppare una riflessione di merito che può risultare utile a comprendere ciò che è stato e, di conseguenza, a fornire prospettive per l’oggi in una situazione che riconosciamo senza difficoltà apparire affatto diversa da quell’epoca.

In particolare il tema principale della discussione che emerge dalla riflessioni dei compagni riguarda le ragioni del “blocco” subito dalla strategia consiliare dopo l’autunno caldo, con la torsione negativa imposta dall’arresto del processo di unità sindacale avvenuto attraverso la costituzione della Federazione CGIL – CISL –UIL formata sulla base di organismi paritari fra le tre organizzazioni.

Si formò così a livello di categoria l’FLM: si aprì un dibattito sul “quarto sindacato”, dibattito che non decollò, i consigli furono relegati in fabbrica (pur continuando per un non breve periodo a rappresentare soggetti di grande rilievo per il riferimento di classe), ripresero fiato le appartenenze partitiche e le conseguenti logiche di componente: il tutto assumendo via via l’ingiustificato moderatismo della linea dell’EUR fino al passaggio topico del decreto di San Valentino.

In realtà il punto che intendevo introdurre in questa riflessione riguarda il fatto che l’esaurimento dell’esperienza consiliare e la relativamente modesta incidenza sugli equilibri sociali e politici del Paese è stata dovuta alla mancata possibilità che i consigli contribuissero sul serio alla formazione di un nuovo blocco storico, all’interno del quale sarebbe stato possibile – in quel momento – che risultasse egemone la dimensione della classe.

Un blocco storico agibile politicamente in luogo del sistema di alleanze sociali e politiche fino ad allora consolidate, a partire dall’unità delle sinistre (già incrinata con la formazione del centro – sinistra, ma ancora attiva nelle giunte locali e nella CGIL, attraverso lo schema delle rigide suddivisioni di componente)

Abbiamo avuto in quella fase, diciamo fino all’esplodere dello choc petrolifero di fine ’73, un vero e proprio disequilibrio nel quadro politico originato da una fortissima spinta sociale.

In quella breccia, come scriverebbe Edgar Morin, non si infilò nessuno nonostante sforzi generosi compiuti attraverso lo schermo della visione operaista o delle iniziative di “dissenso” avanzate sia da parte del movimentismo cattolico, sia di derivazione comunista.

La classe che era stata protagonista insieme della trasformazione del ciclo produttivo e di se medesima (almeno dal punto di partenza delle grandi migrazioni interne e dell’acquisizione della coscienza di classe all’interno della divisione del lavoro imposta dal ciclo fordista) irruppe dopo una lunga gestione (almeno da Piazza Statuto in poi) nel grembo della società che la accolse benevolmente provvedendo a mutare alcuni dei suoi più importanti canoni di riferimento nel costume quotidiano.

La politica, invece, si richiuse quasi immediatamente nel fortilizio della sua apparentemente immodificabile liturgia.

La politica “ufficiale” fu più tenera e condiscendente con gli studenti, nella convinzione di integrarne presto le ambizioni e rompere la saldatura con la classe operaia che, pure, nell’autunno del 1969 (almeno fino a Piazza della Fontana) si era dimostrata fattore di rivoluzionamento del quadro dato.

 Se ci furono segnali di rottura politica(e ci furono) apparvero come semplici increspature di un mare piatto.

La “politica” e il suo sistema dei partiti si mosse per metabolizzare ciò che stava avvenendo e raccogliere soltanto i frutti maturi dell’aggregazione del consenso che le venivano offerti.

Eppure c’erano condizioni propizie per definire una svolta, ma la forza del patrimonio solidificato negli anni trascorsi dalla Resistenza in avanti si rivelò alla fine, almeno in apparenza vincente: ma mai vittoria si rivelò come quella foriera della sconfitta, presupposto di uno squassamento epocale che avrebbe percorso il ventennio successivo fino alla caduta di tutti i miti.

Il concetto di “blocco storico” rimase sostanzialmente inoperante soprattutto al riguardo della spaccatura verticale, ideologistica, verificatasi nel dopoguerra tra schieramenti politici: da un lato quello che prevedeva l’unità cattolico – conservatrice e dall’altro quello che prevedeva il limitarsi all’egemonia sulla rappresentanza che, per i suoi legami di massa e i suoi collegamenti internazionali,disponeva il partito che incarnava la classe operaia.

I consigli si ridussero (o furono ridotti) a soggetto tra gli altri del sistema di alleanze sociali del proletariato.

Alleanze tradizionalmente costruite come convergenze di interessi lesi anziché come unità degli interessi di classe portati nel vivo di una lotta politica coerente quale elemento fondante del progetto di trasformazione.

Su questo punto la FIM che pure appariva più aspramente rivendicativa della stessa FIOM perché maggiormente rappresentativa di quei settori di classe operaia che avevano modificato profondamente il loro essere (come ci è già capitato di segnalare nel corso di questo intervento) non riuscì a fornire un contributo determinante ad operare quel “salto” che era necessario.

Quanti potevano rappresentare una “rottura” del fronte cattolico – conservatore (ben dimostrato proprio dall’egemonia raggiunta dal soggetto significante l’unità politica dei cattolici) furono confinati (e/o si lasciarono confinare) all’interno della fabbrica oppure considerati, anche da chi avrebbe avuto l’interesse di muoversi diversamente, una entità strutturalmente minoritaria da integrare oppure da mantenere ai margini.

Stessa sorte toccò a chi si mosse per incrinare l’altro fronte, quello che automaticamente si auto designava interprete della classe operaia: presto fu decretata la qualifica di “dissenso”. Un dissenso addirittura da espellere dal proprio corpo storico.

 La saldatura operai/studenti si tradusse, alla fine, soltanto nella formazione di gruppi e gruppetti dai quali uscirono certo atti di grande generosità collettiva ma anche male piante che avrebbero tormentato il cammino della classe in nome della quale si proclamava, artatamente, di operare e ne avrebbero ostacolata, in una dimensione probabilmente decisiva, il cammino.

Sul versante sindacale si sviluppò qualche tentativo per contrastare quello di stato di cose come fu,ad esempio, il varo, effimero, dei Consigli di Zona unitari ma il peso della “tripartizione dall’alto” li vanificò presto: in provincia, alla prima riunione nella quale si avanzò – ad esempio – un’idea d’appoggio al movimento dell’autoriduzione delle bollette – il C.U.Z. non fu più riunito e non si svolse alcun incontro successivo.

Egualmente, dal punto di vista della società, il movimento dei Consigli di Quartiere (che pure ebbe occasione di dar prova di grande capacità di mobilitazione in momenti di particolare difficoltà come quelli legati al terrorismo) fu presto inquadrato nella logica del sistema politico e non fu mai sciolto il nodo tra l’ essere il consiglio espressione diretta dei bisogni sociali oppure di un livello ulteriormente decentrato dell’amministrazione pubblica. La legge del 1976 stabilendo la nascita delle circoscrizioni da eleggere su liste di partito suggellò la chiusura dell’esperimento dei consigli di quartiere.

Ho sviluppato una ricostruzione sicuramente schematica e abborracciata, tesa soltanto a dimostrare che in quel tempo non fu posto il tema di fondo dei “consigli” come soggetto portante della costruzione di una blocco storico nuovo, come base di una saldatura sociale tra soggettività “storiche” e soggettività emergenti (dall’operaio – massa, alla studente – proletario: dalle femministe agli intellettuali capaci di rompere il quadro accademico consolidato).

 L’espressione di una coerente critica alla modernità avrebbe forse reso possibile questo processo coinvolgendo ciò che stava avvenendo in fabbrica e ciò che stava mutando nella quotidianità.

Emerse invece proprio un limite di capacità critica e si arrestò la possibilità di esercitare un’estensione concreta della lotta di classe portata fino alla modifica delle espressioni politiche tradizionali.

Dei “se” e dei “ma” però “son piene le fosse”.

Si rientrò allora molto presto nell’ambito dello schema elettoralistico, della logica delle alleanze: si registrarono momenti fondamentali di modernizzazione nella vita civile del Paese ma alla fine fu delegato al “Governo” il processo di adeguamento ai nuovi tempi della società e della politica italiana.

Una logica di “Governo diverso”, di caduta della “conventio ad excludendum”, di inclusione del blocco sociale di riferimento dentro al gioco dettato dall’autonomia del politico.

Nel prosieguo di quella stagione, dentro gli anni’70 inoltrati, si ebbero ancora sussulti e ci fu chi cercò di organizzarli, si vissero momenti di grande tensione ma logica dominante era ormai quella dell’emergenza.

Non si trovò più il bandolo della matassa del rapporto tra espressione dei bisogni e sintesi politica, furono smarrite le coordinate dell’identità di classe e delle forme più adatte per esprimerla.

La stagione del riflusso era stata inaugurata, ben oltre quelle che apparivano come ancora alte capacità di mobilitazione di massa e confortanti numeri elettorali.

Non si compresero i termini della successiva ondata di cambiamento: certo non fu tutta colpa nostra, ma lo smarrimento di una riflessione, uno smarrimento colpevole, ci fu e agevolò prima di tutto la disgregazione sociale che l’avversario ci impose egemonizzando la natura del lavoro come finalizzata esclusivamente al consumo da parte dell’individuo.

Era stata persa l’occasione del provare a formare quel “blocco storico” che avrebbe pur potuto consentire di affrontare la temperie della trasformazione del modo di lavorare e di conseguenza di vivere imposto dalla controffensiva avversaria aperta negli ultimi anni del nostro secolo: di quel ‘900 del quale, in occasioni come queste dedicate necessariamente al ricordo, non possiamo non sentirci donne e uomini.

Un altro secolo: espressione ben diversa dal sospiroso “altri tempi!” che a volte si esclama aprendo il film del revival della gioventù.

Intanto le contraddizioni si inaspriscono e si allargano, contribuendo a immiserire non soltanto la condizione materiale di vita ma le fonti stesse del pensiero e nessuno o quasi osa più proporre e lottare per una alternativa.

Il resto della storia abbiamo continuato a viverlo in primissima persona durante questi primi anni 2000 e il suo drammatico epilogo sta sotto i nostri occhi, almeno di quelli dei sopravissuti al naufragio.

Il cambiamento sembra soltanto essere il prodotto di un più feroce egoismo, di un individualismo che ci mette in competizione gli uni contro gli altri soffocando inevitabilmente, in una eterna rincorsa, i più deboli storicamente per sesso, colore dei pigmenti, condizione sociale di partenza provocando prima di tutto emarginazione, sopraffazione, rassegnazione.

FRANCO ASTENGO

8 giugno 2018

foto tratta da Flickr su licenza Creative Commons

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