Giovanni Pesce e la guerra dei GAP

Pubblichiamo parte del capitolo 13esimo di "Senza tregua" scritto da Giovanni Pesce, comandante "Visone" dei Gruppi di Azione Patriottica

PREFAZIONE
Il titolo di questo libro — modesta opera che dedico a mia figlia Tiziana e ai giovani che, oggi impegnati nello studio e nel lavoro, si preparano ad essere gli uomini e le donne di domani — consacra l’impegno di chi vuole andare avanti.

I gappisti, gli uomini dei quali si racconta in questo volume, non si fermarono mai davanti a nessun ostacolo, a nessun pericolo. Le loro gesta occupano un posto di rilievo nella storia della Resistenza popolare contro nazisti e fascisti.
Chi furono i gappisti?
Potremmo dire che furono “commandos.” Ma questo termine non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso di semplici “commandos.” Furono gruppi di patrioti che non diedero mai “tregua” al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi fortilizi.
Con la loro azione i gappisti sconvolsero più e più volte l’organizzazione nemica, giustiziando gli ufficiali nazisti e repubblichini e le spie, attaccando convogli stradali, distruggendo interi parchi di locomotori, incendiando gli aerei sui campi di aviazione. Ancora non sappiamo chi erano i gappisti.
Sono coloro che dopo l’8 settembre ruppero con l’attendismo e scesero nelle strade a dare battaglia, iniziarono una lotta dura, spietata, senza tregua contro i nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano ceduto la patria all’invasore, per conservare qualche briciola di potere.
Gli episodi più straordinari e meno conosciuti di questa lotta si svolsero nelle grandi città, dove il gappista lottava solo e braccato contro forze schiaccianti e implacabili; sono coloro che colpirono subito i nazisti sfatando il mito della loro supremazia e ricreando fiducia negli incerti e nei titubanti i quali ripresero le armi in pugno.
I gappisti non furono mai molti: alcuni erano giovanissimi, altri avevano dietro di sé l’esperienza della guerra di Spagna e la severa disciplina della cospirazione, del carcere fascista e del confino. Tutti, nel difficile momento dell’azione, nelle giornate drammatiche della reazione più violenta, quando la vita era sospesa a un filo, a una delazione, a una retata occasionale, tutti, giovani e anziani, seppero trovare la forza e la coscienza di non fermarsi. Soprattutto, i gappisti furono uomini che amavano la vita, la giustizia; credevano profondamente nella libertà, aspiravano a un avvenire di pace, non erano spronati da ambizione personale, da arrivismo, da calcoli meschini.
Erano dei “superuomini”? No di certo. Erano soltanto degli uomini, ma degli uomini dominati dalla volontà di non dare mai tregua al nemico. Il loro orgoglio aveva radici profonde: coscienti del sacrificio di tutti coloro che avevano sofferto impavidi carcere, persecuzioni, sevizie ne rivendicavano la grandezza e l’insegnamento. Senza l’autorità dei vecchi militanti che avevano sofferto galera, confino, ed esilio, durante il ventennio fascista, ai dirigenti non sarebbe stato possibile esigere dai gappisti, dai partigiani la disciplina più severa che conduceva spesso alla morte più straziante, né ai combattenti avere il cuore saldo per affrontarla. Era soltanto orgoglio ed entusiasmo lo spirito che animò i gappisti? Era un legame di reciproca fiducia tra i vecchi militanti e i giovani, tra coloro che avevano dimostrato di saper resistere sulla via giusta prendo nuove prospettive e coloro che si inserivano in una lotta che era la lotta eterna contro la sopraffazione, il privilegio, la schiavitù. Senza gli antichi legami del presente oscuro col passato glorioso, davvero non vi sarebbe stata la guerra di liberazione, non avremmo riscattato l’onta del fascismo, “non avremmo conquistato il diritto di essere un popolo libero e indipendente.”
Nel libro sono dedicate alcune pagine alla guerra di Spagna. Se è vero che in terra spagnola il fascismo fece la prova generale della successiva aggressione all’Europa è altrettanto vero che in Spagna si formarono, si temprarono i valorosi combattenti della Resistenza italiana ed europea. Combatterono il fascismo in Spagna gli organizzatori e i comandanti gappisti come Barontini, Garemo, Rubini, Bonciani, Leone, Bardini, Roda, Spada ed altri. Ed è proprio in virtù degli antifascisti italiani delle Brigate Internazionali che la Resistenza italiana poté contare, fin dall’inizio, su molti uomini politicamente e militarmente preparati, pronti cioè ad affrontare con mezzi di fortuna un nemico bene organizzato.
Via via questi stessi uomini seppero raccogliere attorno a sé altri combattenti che si buttarono con decisione nella mischia e lottarono con intelligenza e coraggio fino alla Liberazione.
Il racconto delle loro gesta non vuole essere soltanto un’ampia elencazione o illustrazione di episodi di guerra. “Senza tregua” ha una morale profondissima, valida oggi come ieri. È un insegnamento che gli uomini, i giovani che furono impegnati in drammatiche battaglie, hanno consegnato ad altri uomini, ad altri giovani, oggi impegnati nel lavoro o nello studio, perché sappiano lottare per le libere istituzioni, la giustizia, la libertà, la democrazia. Anche ora si devono infrangere le resistenze al progresso, si deve conquistare maggiore democrazia nelle fabbriche e nelle scuole; anche ora si deve lottare per la pace nel mondo; anche ora è dunque necessario lottare senza tregua.
I morti e i vivi si affollano nelle pagine del libro. Sono volti sempre nuovi, pochi diventano familiari perché pochi scampano. Sembra di averli lasciati all’angolo di una strada e di ritrovarli dopo. Li ritroviamo oggi. Riemergono nell’abisso della memoria i molti che la morte ha ingoiato. Gli altri sono diventati diversi: la vita “normale” ha disperso quelli che un periodo di vita eccezionale aveva riunito una volta.
Il tempo di “Senza tregua” è diventato leggenda. Alcuni dei suoi eroi militano in differenti uniformi o addirittura non militano affatto. Che è rimasto dell’eroismo degli uomini? Soltanto la cara memoria dei martiri e il ricordo dei migliori? Gli uomini creano e scompaiono. E le loro opere?
E l’opera più solida è l’Italia antifascista, la pace, la fratellanza dei popoli. E l’opera dei protagonisti di Senza tregua. Tocca ai giovani continuare sulla strada maestra, ai giovani continuare la Resistenza.

CAPITOLO TREDICESIMO
“REAZIONI A CATENA”

Le azioni si susseguono con una reazione a catena. I fascisti debbono colpire brutalmente per tentare di interrompere l’assedio di una armata invisibile ed inafferrabile. Per questo hanno fucilato i cinque partigiani a Turbigo. Lilla Ferrari, segretaria del fascio di Arese, spia e responsabile dell’arresto di diversi ‘resistenti, è stata giustiziata. I fascisti hanno bisogno di ristabilire la situazione nella Valle Olona, focolaio di rivolta, dove le strade, la sera, sono diventate malsicure, per loro, per i tedeschi, per le autocolonne, per i convogli ferroviari.
Il 18 ottobre, quarantott’ore dopo l’esecuzione, ci saranno i funerali della spia fascista, con un imponente spiegamento di forze. Dall’alba gli automezzi e le autoblinde sferragliano sulle strade della cittadina. La gente dapprima si affaccia alle finestre; poi sbarra le persiane.
Accade quello che il comando della formazione ha previsto: il nemico tenta di risalire, psicologicamente, la china. I funerali sono un pretesto per una manifestazione di forza, il “via” a rappresaglie indiscriminate. La nostra legge, appresa nei mesi più duri di Torino e di Milano, è di non dar tregua al nemico. Di non farsi intimidire dalle rappresaglie. È l’unico modo per mantenere in efficienza le nostre forze e far capire al nemico l’inutilità della sua ferocia. Abbiamo reagito immediatamente alla manifestazione di forza dei repubblichini e dei fascisti.
Muniti di armi automatiche attaccheremo l’automobile del federale Costa all’altezza di Pero, approfittando dello scompiglio per dileguarci. Dobbiamo dimostrare che siamo in grado di agire in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, contro qualsiasi schieramento, in pieno giorno.

Il luogo d’incontro dei tre partigiani che dovranno affiancarmi è stato stabilito alle porte di Rho. Ci divideremo armi e munizioni e ognuno attenderà al suo compito. Giungo per tempo sul luogo dell’incontro e attendo per due ore i compagni. Finalmente sento il rombo di una motocicletta: è Sergio, la staffetta che deve precedere i fascisti e segnalarci l’arrivo del nemico. “Come, sei solo?” chiede Sergio. Non ho il coraggio di dirgli la verità. “Gli altri sono già appostati, piú avanti.” “Come vanno le cose?” “Il grosso sarà qui tra cinque minuti, mi sembra che vengano avanti piuttosto velocemente. Vattene subito,”
Sono solo: i miei compagni forse sono catturati, forse non hanno potuto raggiungermi, forse hanno avuto paura. Li capisco. La nostra è una guerra terribile e noi non abbiamo superuomini. Anch’io, il loro comandante, sono un uomo come gli altri; la paura e l’ansia non mi sono ignote. Se una cappa di piombo calasse dopo la manifestazione di forza dei repubblichini, le rappresaglie accelererebbero la nostra ritirata. So che quello è il momento decisivo. A Rho il nemico getta sulla bilancia tutte le sue forze; a Rho dobbiamo rispondergli. Anche se sono solo, devo fare qualcosa. Se l’azione andrà bene, sarà un’iniezione di fiducia per i miei, una staffilata per rianimarli.
Sono nei pressi della piazza del Duomo. Non c’è grande folla ad attendere il feretro che trascorre tra due cordoni ininterrotti di repubblichini. Vicino ad un gruppetto di civili ho la tentazione di tornare indietro.
Il carro è già passato dinanzi a me, e sono passati anche i parenti della spia. Seguono i gerarchi. Mi stacco dal gruppetto, al quale sembro aggregato e mi avvicino al cordone di militi schierati. Estraggo una bomba, una delle cosiddette “umanitarie”: molto chiasso, poche schegge. C’è bisogno di chiasso. Sono pronto ad usare le due rivoltelle. Stacco rabbiosamente la sicura e la lancio. Prima che raggiunga terra, mi allontano velocemente. Il drappello di religiosi che precede il feretro si dissolve in un attimo. Anche l’impeccabile fila dei militi diviene confusa. Cominciano ad echeggiare raffiche. Dapprima isolate, poi in coro. La gente fugge da tutte le parti, i fascisti si gettano a terra, si muovono carponi, fuggono senza ritegno verso gli androni delle case. L’aria pregna di fumo è diventata irrespirabile. Ad una raffica, da una parte, rispondono dieci dall’altra. Si odono i colpi secchi dei “mauser” tedeschi.
Io solo so. In quel momento repubblichini e tedeschi si stanno sparando addosso l’un l’altro. Raggiungo un posto noto. Tramite una staffetta chiedo a Carmen un’uniforme fascista. Mi travestirò sebbene i tedeschi possano spararmi addosso, proprio perché sono in divisa. Tra il momento del lancio del petardo e l’arrivo di Carmen è trascorsa un’ora. Indosso l’uniforme ed esco con lei. La sparatoria continua. I funerali hanno avuto inizio alle ore 17, ma, dopo un’ora, nessuno dei contendenti si è ancora reso conto che sulla piazza di Rho non ci sono partigiani. Il fuoco è terribile. Si direbbe che due reggimenti si fronteggino in uno spazio adatto appena a una recita teatrale. Facciamo un lungo giro per sfuggire il nemico. Ci fermiamo ripetutamente dove sappiamo di poter trovare un ricovero tranquillo. Quando giungo alla strada che conduce alla cascina Ghiringhella sono quasi le 19. Solo allora lo scambio di raffiche comincia a diminuire gradatamente. Il paese è stato bloccato. Sento un passo cadenzato, ho appena il tempo, scorgendo una pattuglia tedesca, di afferrare Carmen e di abbracciarla. Sento le sue unghie sulla faccia. Carmen è una nostra staffetta coraggiosa e fidata, ma non ama le confidenze. Capisce quando la pattuglia ci passa accanto. “Amore fascista,”, dice uno dei tedeschi e ride. Gli altri fanno coro. La pattuglia si allontana. Carmen mi accompagna verso la cascina Ghiringhella. Cerco invano un fazzoletto per asciugarmi il sudore. Nella tasca dell’uniforme non c’è.

Ogni notte nel territorio della 106ª i tedeschi e i fascisti vivono ore di angoscia: molti fra i loro soldati, lo si è saputo dai nostri informatori, sono profondamente scossi dalle nostre azioni offensive: sanno che ogni notte i nostri uomini colpiranno: non sanno dove e come; se li assaliremo con cariche di esplosivo su ponti o su tratti di ferrovia; se attaccheremo le loro autocolonne. Ma sanno che certamente li attaccheremo. In tutto il territorio della 106ª i gappisti incutono terrore al nemico: l’arma usata contro le nostre popolazioni, l’oppressore se la sente alla gola. Non si dorme nelle caserme, nei depositi, negli accantonamenti repubblichini e tedeschi; gli uomini di guardia agli impianti, agli automezzi ed alle caserme maledicono il momento in cui sono arrivati in questa pianura che sembrava così tranquilla e disadatta alla guerriglia.
Colpiremo non solo di notte ma anche di giorno. Non è la prima volta che accade. Per le forze partigiane è importante effettuare un’azione di guerra che abbia, oltre una efficacia militare, anche un chiaro significato politico.
La scelta dell’obiettivo è decisa da una segnalazione di Nerviano. In uno stabilimento dell’Isotta Fraschini, alla periferia del paese, si producono delicati congegni di guerra; parti di armi, modernissime, della Wehrmacht.
Alcuni partigiani vengono incaricati d’assumere dettagliate informazioni sull’attività bellica della fabbrica. Decido, senza informare nessuno, di compiere un sopralluogo. Con la mia vecchia bicicletta, i miei abiti da contadino, mi avvio verso la misteriosa fabbrica. Per raggiungerla bisogna attraversare, da Nerviano, la statale del Sempione e superare il ponte del canale Villoresi. Indubbiamente a destra si segue una strada che corre dapprima sull’argine del canale e si addentra poi nella campagna: è la via Rovereto che conduce attraverso un gruppo di case, in via Duca di Pistoia. Scorgo la fabbrica, un complesso abbastanza grande ma vetusto. Lunghi capannoni, un grande cortile cintato e deserto. Tre lati della fabbrica (l’ingresso è sulla via Duca di Pistoia) sono circondati da aperta campagna. Sul lato destro vi è anche una stradicciola campestre ombreggiata da grandi alberi che accompagnano la strada in aperta campagna, offrendo la possibilità di un nascondiglio, all’occorrenza. Dopo la perlustrazione, mi fermo in una bettola discosta dal paese. All’oste, nostro amico, chiedo un panino, un bicchiere di vino e alcune informazioni “beati voi che non avete a che fare con i brigatisti neri.” “Si sbaglia,” risponde, “i fascisti ci sono, in borghese.” I tedeschi non escono quasi mai dalla fabbrica ma ci sono anch’essi. Pago il piccolo spuntino e mi allontano, velocemente.
Le informazioni raccolte sono sensazionali. Nella fabbrica Isotta Fraschini destinata a produrre spolette per bombe si lavorano parti del congegno di dotazione della V-1 e della V-2. Dentro quei capannoni senza apparente sorveglianza, si fabbricano, quasi alla chetichella, per non dare nell’occhio e non richiamare l’attenzione dei partigiani e dei servizi di informazione alleati, delicatissime parti della terribile arma che sta devastando le città inglesi. I nazisti sono riusciti ad evitare sia il nostro sabotaggio, sia i bombardamenti alleati. Decidiamo un’azione che provochi non solo danni materiali allo stabilimento ma ne riveli la segreta attività. “Azione militare ma anche appello agli operai,” sostengo nel corso della ristretta riunione preparatoria.
Due gappisti, con l’aiuto di partigiani del luogo, trasporteranno lungo i sentieri di campagna le cariche di tritolo e le innescheranno in modo da far coincidere lo scoppio con l’avvenuta uscita degli operai. Nel pomeriggio del 9 dicembre i due compagni raggiungeranno la fabbrica, seguendo un fossato asciutto e collocheranno gli esplosivi; altri partigiani nelle vicinanze saranno pronti ad intervenire.

Sono le 17,15. Gli operai finiranno il loro turno alle 17,40. Lo scoppio avverrà alle 18, al momento del loro esodo in bicicletta dalla fabbrica.
Il nostro obiettivo è di danneggiare gli impianti della centrale elettrica, separata dagli altri edifici; la nostra preoccupazione è di assicurare l’incolumità alle maestranze comunque rimaste al lavoro. Fra i cespugli in prossimità del canale Villoresi attendo con relativa calma l’eco delle esplosioni, I lunghi mesi della clandestinità a Torino e a Milano, mi hanno educato a saper attendere e a riflettere. Controllo mentalmente i particolari dell’azione, le precauzioni prese, gli uomini scelti fra gli esperti della “scuola guastatori” di Lainate e Nerviano — fiorentissimo vivaio di gappisti, gente coraggiosa che alla generosità combattiva unisce una eccezionale capacità tecnica.
Mentre il nemico dopo l’esplosione si lancerà alla ricerca degli autori dell’attentato, ormai in fuga da 15 minuti, io muoverò verso la porta principale.
Le lancette dell’orologio stanno per scoccare le 18. La zona è tranquilla. Non c’è anima viva. Afferro la bicicletta, esco dal mio nascondiglio e pedalo verso la via Duca di Pistoia. Puntualmente, alle 18, tre formidabili scoppi scuotono l’aria. Un gigantesco lampo azzurrognolo si leva subito avvolto da una fumata nerissima. Le tre cariche sono esplose nella cabina elettrica. Il corto circuito che ne è seguito ha provocato l’incendio dei grandi trasformatori d’olio. La produzione resterà ferma per qualche tempo. Ora tocca a me.
Pedalando velocemente, decine e decine di operai, lavoratori dell’Isotta Fraschini stanno fuggendo, duecento metri piú indietro c’è la statale del Sempione, a destra il ponte che attraversa il canale Villoresi. Depongo la bicicletta sulla scarpata dell’argine ed estraggo dalla giacca due grossi pacchi. I fascisti ed i tedeschi stanno cercando i partigiani, ormai vicini ai loro rifugi, senza immaginare che il comandante della 106ª Brigata Garibaldi SAP è sul posto. Lancio volantini fra gli operai: alcuni sono spauriti, altri mi guardano con stupore, mentre mi metto al centro della strada; alcuni mi scansano senza capire, ma parecchi si fermano per ritirare il volantino con l’appello alla lotta del CLN. Grido con quanto fiato ho in corpo: “Viva i partigiani, viva la Resistenza, lottiamo uniti contro i fascisti e i tedeschi.”
Ho distribuito e lanciato tutti i volantini. Corro indietro passando in mezzo a gruppi di operai. Raggiungo il ponte sul Villoresi, lo attraverso. Il gioco è fatto. Anche se molti non hanno udito le mie parole, quasi tutti hanno ricevuto i volantini e li leggono nelle loro case.

Manca poco alle 23,30. A quest’ora sull’oscuro nastro della strada transitano quasi esclusivamente automezzi militari. Gli occhi dei ragazzi frugano nel buio. Mi avvicino con cautela alla strada, saltando con un balzo il fossato; in lontananza si ode il rumore sommesso di un motore. I ragazzi mi preoccupano. Sono dei nuovi. L’inesperienza e l’eccitazione possono giocare brutti tiri e provocare disastri. Ho un’idea. Abbandono ogni atteggiamento circospetto, dopo essermi accertato che la zona è deserta, e, camminando eretto, impartisco gli ordini a dieci metri di distanza dal gruppetto al quale mi sto avvicinando. Parlo a voce alta, come se invece di un’azione clandestina, si trattasse di un’esercitazione tattica. Con la mano indico a tre dei ragazzi di accostarsi alla sinistra, a una ventina di metri; colloco un altro gruppo al centro e il resto della piccola formazione in posizione più arretrata a destra, a una ventina di metri. Le disposizioni impartite con voce energica e con sicurezza allentano la tensione dei ragazzi ai quali raccomando di accostarsi dietro ripari rocciosi per evitare la risposta delle raffiche, nella macchia. I ragazzi si distendono con apparente calma. Continuo a dare disposizioni con pignoleria come il regista di un film: è questo un modo sicuro per infondere la calma. Grido ai ragazzi appostati a sinistra: “Fate attenzione agli automezzi militari. Dobbiamo colpirne uno con il rimorchio dove è presumibile che ci siano materiali e non uomini a bordo.” Il battesimo del fuoco di questi ragazzi deve essere graduale. È opportuno evitare un confronto armato. Mi rivolgo agli altri due gruppi, rimasti al centro e a destra. “Voialtri dovete essere pronti a sparare solo se il nemico reagisce e se ne impartirò l’ordine. Tenete pronte le armi e fate in modo che non si inceppino. Ma niente fuoco senza ordine. Capito?” Sono un po’ perplessi, forse si chiedono come attaccheranno il camion se non spareranno subito.
Si può combattere efficacemente il nemico, anche se si è in pochi, quando si ha fiducia nelle proprie forze, nella propria intelligenza, ma soprattutto si ha coraggio. Quella di stasera sarà una lezione di coraggio e un esempio di tipica azione di guerra partigiana. Chiamo Angelo ad alta voce: “Ti apposterai in quella macchia, lancerai una bomba a mano contro il camion, restando al riparo fino all’ultimo. Quando toglierai la sicura alla bomba e conterai fino a cinque, dovrai farlo in modo che il camion sia a una decina di metri. È chiaro?” Angelo assicura d’aver capito ma forse è turbato; non prevedeva di dover agire da solo. Ho molta fiducia in lui. L’accompagno nel centro del macchione. “Ricordati che ti devi poter muovere senza essere intralciato dai rami.” Un camion si avvicina, ma non sarà quello che attaccheremo; servirà per una prova generale. “Ragazzi, state fermi. Angelo,” riprendo ad alta voce, “adesso proverai a contare fino a cinque, come se avessi tolto la sicura alla bomba.” Angelo si apposta. Il camion si avvicina. Comincia a contare. “Uno, due,… tre,” la voce gli trema, “quattro, cinque…” “Molto bene,” gli dico, “ricordati di tirare la bomba sul parabrezza. Anche se il tiro è corto, colpirà il motore. Tienti al riparo perché gli altri possano sparare senza colpirti. Quando darò il segnale di ritirata, raggiungerai il filare di alberi a cento metri, dove ci ritroveremo di nuovo. Non perdere la calma e per i primi metri della ritirata, striscia a terra. Chiaro?” “Chiarissimo,” risponde.
Mi accosto al gruppo di sinistra. Un ragazzo ha la pistola in mano. “Sai usarla?” “La smonto e la rimonto in un minuto,” risponde spavaldo. “Fammi vedere.” Smonta con facilità i pezzi della pistola ma trova difficoltà nel ricomporli. “Se ti si inceppa, la rivoltella, quando ne hai bisogno, cosa fai? La porti dall’armaiolo?” Il ragazzo è umiliato. Gli do un colpo sulla spalla e me la prendo con gli altri due che non segnalano un automezzo in arrivo. “Che camion è quello? È distante ancora mezzo chilometro ma è indubbiamente un camion militare.” “Sembra un camion tedesco con rimorchio,” rispondono i ragazzi. “Bene, attenti a non sbagliare, badate che sia proprio un camion militare: quando sarà a cento metri, se sarete sicuri del fatto vostro, date il segnale ad Angelo, il resto dovrà farlo lui. Hai capito Angelo? Avete capito tutti?”
Continuo a parlare, coperto dal rumore del motore:
“Non dovete sparare se non do il segnale. Dobbiamo proteggere la ritirata di Angelo e del primo gruppo a sinistra. Il gruppo di destra dovrà proteggere il gruppo di centro e sganciarsi. Sarò con voi: fate attenzione ai miei ordini. Chiaro? Rispondete forte: ‘tutto chiaro.’ Allora siamo pronti.”
Il rombo del motore e i fanalini azzurri rettangolari sono quelli di un camion militare. Trascorre qualche secondo. Nel gruppo di sinistra c’è animazione. Arriva il segnale. “Calma, fa’ tutto con calma, Angelo,” riesco a dirgli, “e mira al parabrezza.”
Stavolta ho abbassato il tono della voce. Mi sposto verso il gruppo di destra. Se Angelo mancherà la mira o ci sarà una reazione, dovremo sparare subito senza lasciare un attimo di respiro al nemico. Purché sia carico di materiale e non di uomini. I ragazzi sono alla prima battaglia. Angelo ha preparato il lancio della bomba, ha spostato il fogliame, dovrebbe togliere la sicura. Il camion è a cinquanta metri. Angelo non ha mai lanciato una bomba. Il camion si avvicina. “State pronti a fare fuoco al mio ordine. Seguite il camion con le armi puntate,” dico ai ragazzi. Riesco a scorgere il gesto fulmineo, violentissimo di Angelo. Con quella forza — penso — avrebbe fermato il camion anche con un sasso. Un fragore, un bagliore accecante, il motore impazzito urla. Camion e rimorchio percorrono un ultimo tratto di strada sbandando paurosamente e sulla scarpata di sinistra si rovesciano incendiandosi. “Angelo?” “Si.” “Vattene subito e chiama anche i ragazzi del tuo gruppo. Al posto stabilito.”
“Bene,” risponde una voce diversa da quella esitante di prima. Per evitare ogni sorpresa aspettiamo qualche secondo. E evidente che sul camion c’era solo materiale che ora sta bruciando. È tempo di allontanarsi. “Ragazzi, dietro front; via di corsa.” _
Li vedo passare tutti davanti a me, infangati, felici. Nel punto stabilito come primo ritrovo raggiungo Angelo. “Sei stato in gamba, bravo.”
Non c’è tempo per i commenti. “Adesso ragazzi rientrate, fate presto, camminate celermente lungo i sentieri di campagna, ma siate guardinghi. Chi abita in paese è preferibile che dorma in uno dei rifugi o presso la cascina di qualche amico. A quest’ora il nemico è già in allarme.” La piccola formazione si disperde. I ragazzi incominciano ad imparare le prime regole della guerra clandestina.

I ragazzi ci sono tutti; è la prima grande azione simultanea in tutta la Valle Olona. Le antenne del nemico dovrebbero aver intercettato almeno qualche segno di preparazione della nostra offensiva. Mi preoccupa l’assenza delle immancabili avvisaglie: nessuna animazione nella sede del distaccamento fascista di Nerviano, un edificio poco illuminato, tetro e silenzioso, sorvegliato da un paio di sentinelle. Anche a Lainate il distaccamento tedesco sembra ignorare la minaccia incombente. La grande villa Borromeo, al centro del parco, è ancora piú silenziosa del solito, con le finestre ermeticamente chiuse. La calma del nemico mi inquieta. Per diretta esperienza so che soltanto le piccole azioni riescono a sfuggire al nemico e che le offensive su vasta scala fanno suonare qualche campanello d’allarme tra le brigate nere e nei comandi della Wehrmacht. Anche se nessuna infiltrazione nemica si fosse verificata nelle nostre file, qualche parola, qualche accenno dei nostri ragazzi, alcuni dei quali quindicenni, la sorveglianza degli informatori repubblichini, avrebbero potuto far sorgere il sospetto di quanto stava per accadere in Valle Olona, dalle 23 alle 24.
E’ opportuna una ispezione, la più ampia possibile. Molti degli uomini della brigata maneggiano le armi per la prima volta, altri hanno esperienza militare e i guastatori hanno già dimostrato notevole capacità tecnica e sangue freddo. Chi ha combattuto in Africa Settentrionale, nella guerra sbagliata, ora combatte contro i nazifascisti, ma la brigata è composta prevalentemente di ragazzi.
Affretto il passo, un distaccamento di Lainate è appostato sulla strada provinciale. Ci sono macchie di cespugli lungo la grande arteria e, dietro i filari di alberi, fossati. Un terreno favorevole alle rapide azioni notturne di sorpresa. I riflettori delle autocolonne tedesche non potrebbero illuminare in profondità il terreno, quando fossero attaccate. Anche se le fotoelettriche fossero di elevata potenza, i fasci di luce si arresterebbero ai filari di alberi, senza poter frugare nei fossati, protetti da arbusti, macchie, cespugli.
Una vegetazione senza piante nobili, ma preziosa in una pianura piatta e uniforme. I ragazzi stanno lì, proprio nel bel mezzo del macchione, perfettamente appostati. Controllano la strada nei due sensi ma le canne dei fucili e dei mitra sono celate nel fogliame. Un irregolare filare di pioppi li separa dalla strada. Potrebbero colpire il nemico d’infilata, e operare un rapido sganciamento. In quel macchione ci sono adolescenti dai quindici ai diciotto anni. Ridono nervosamente per un nonnulla, forse è lo stesso stato d’animo degli studenti agli esami.
Combattiamo la Wehrmacht coi ragazzini; attacchiamo le SS con gli alunni delle medie! “Hai paura?” chiedo ad uno. “Macché paura. Non vedo l’ora di cominciare.” Niente affatto convinto, ne interrogo un altro, alto e magro, studente di liceo classico, più maturo e cosciente. A lui non chiedo e ha paura, ma se ritiene che gli altri temano lo scontro. “No, al contrario, aspettiamo soltanto il momento di sparare addosso ai tedeschi.” “Scusi tanto,” chiede un altro timido, “a che ora crede che avremo finito?” “Sei in guerra e vuoi l’orario?” rispondo brusco e non aggiungo parola perché alle mie spalle, tranquillo come a un pic-nic scorgo un altro che, con un gavettino in mano sta mangiando una minestra di pasta e fagioli. Lo interrompo prima che pronunci una parola: “Non avrai fatto rifornimento in qualche osteria dei dintorni?” Sarebbe piuttosto preoccupante se, nell’attesa dell’agguato qualcuno si fosse recato a fare provviste in locali pubblici. Il ragazzo si mette a ridere. “La minestra l’ha preparata mia madre e mi ha dato anche una bistecca con le patate.” È ancora peggio di quello che temessi. Non solo dobbiamo attaccare í tedeschi con i ragazzini ma questo agguato segreto è a conoscenza delle madri di Lainate che, per i loro ragazzi, hanno preparato un piatto speciale. Anche altri stanno mangiando, hanno perfino la bottiglietta del vino. “Ma avete detto alle vostre famiglie che dovevate partecipare ad un attacco contro i tedeschi?” Mi risponde un “no” corale e scandalizzato. Si rifà vivo il ragazzino timido: “abbiamo avvertito le nostre famiglie che stasera, dopo il lavoro e la scuola, saremmo andati direttamente a una festicciola. Non vorrei che mia madre si preoccupasse eccessivamente del mio ritardo, perciò avevo chiesto a che ora avremmo potuto terminare…” È tutto chiaro, meglio del previsto. “Finirete abbastanza presto, ragazzi, non molto dopo la mezzanotte, perché in ogni caso, sarà bene sfollare, dopo questa ora.” Sollievo generale. E’ incredibile, ma quello che li angoscia è il timore di allarmare le famiglie. Che i tedeschi di lì a poco, debbano rispondere al fuoco, li turba meno.

GIOVANNI PESCE

da “Senza tregua – la guerra dei GAP”, ed. Feltrinelli, Biblioteca multimediale marxista

foto: murales raffigurante Giovanni Pesce “Visone”

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Comunismo e comunisti

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