Compendio de “Il Capitale”: il salario

Carlo Cafiero lesse la grande opera di Marx e si arrovellò su come poterla trasmettere anche in Italia alle masse di proletari che non avrebbero certo potuto leggerla per...
Carlo Cafiero

Carlo Cafiero lesse la grande opera di Marx e si arrovellò su come poterla trasmettere anche in Italia alle masse di proletari che non avrebbero certo potuto leggerla per intero, visto che ancora non era stata tradotta, che sarebbe costata comunque soldi e tempo a chi lavorava più di otto ore al giorno. Considerando che l’alfabetizzazione iniziava a farsi spazio anche tra i lavoratori, Cafiero ebbe la felice intuizione di fare un “compendio” del primo libro del Moro. Marx ne fu così colpito tanto da scrivere a Cafiero e a invitarlo a continuare i suoi studi e a fargli avere eventuali nuove stesure del “compendio”. Vi proponiamo qui la lettura del capitolo riguardante la composizione del salario, centrale nel sistema di produzione capitalistico.
Un ringraziamento alla Biblioteca multimediale marxista e all’Archivio internazionale dei marxisti per la pubblicazione su Internet delle opere che spesso riprendiamo nella rubrica “Comunismo e comunisti”.

(m.s.)


I sostenitori del modo di produzione capitalista preten­dono che il salario sia il pagamento del lavoro, e il plu­svalore il prodotto del capitale.

Ma che cosa è il valore del lavoro? Il lavoro, o si tro­va ancora nel lavoratore, o ne è di già uscito; cioè a di­re, il lavoro, o è la forza, la potenza di fare una cosa, o è la cosa stessa già fatta: insomma, il lavoro, o è la for­za di lavoro, o è la merce. Il lavoratore non può vende­re il lavoro già uscito da lui, cioè la cosa che egli pro­duce, la merce, perché questa appartiene al capitalista, e non a lui. Perché il lavoratore potesse vendere il la­voro già uscito da lui, cioè la merce da lui prodotta, do­vrebbe possedere i mezzi di lavoro e le materie di lavo­ro, e allora egli sarebbe mercante delle merci da lui pro­dotte. Ma egli non possiede nulla, è un proletario, che, per vivere, ha bisogno di vendere ad altri il solo bene che gli resta, che è la sua potenza o forza di lavorare, la forza di lavoro. Il capitalista dunque altro non può comprare che la forza di lavoro; la quale, come tutte le altre merci, ha un valore di uso e un valore di scambio. Il capitalista paga il valore propriamente detto, che è il valore di scambio, al lavoratore per la merce, che uni­sti gli vende. Ma la forza di lavoro ha pure un valore di uso, il quale appartiene al capitalista che l’ha compri ta. Ora, il valore d’uso di questa merce singolare lui una doppia qualità. La prima è quella che essa ha in comu­ne con il valore d’uso di tutte le altre merci, cioè, di soddisfare un bisogno; la seconda è quella, tutta sua speciale, di creare valore, che distingue questa merce da tutte le altre.

Dunque, il salario altro non può rappresentare che il prezzo della forza di lavoro. E il plusvalore non può es­sere prodotto dal capitale, perché il capitale è materia inerte, che trovasi nella merce sempre nella stessa quantità di valore nella quale ci è entrato; è materia che non ha vita alcuna, e che, rimanendo da sé sola, senza la forza di lavoro, non potrebbe mai averne. È la forza di lavoro che solamente può produrre plusvalore. È dessa che porta il primo germe di vita al capitale. È dessa che mantiene tutta la vita del capitale. Questo, altro non fa che, dapprima, succhiare, poscia assorbire da tutti i pori, e finalmente pompare gagliardamente plusva­lore dal lavoro.

Le due forme principali di salario sono: salario a tempo e salario a cottimo, a fattura, o a capo, che dir si voglia.

Il salario a tempo è quello che viene pagato per un da­to tempo; come per una giornata, per una settimana, per un mese, eccetera, di lavoro. Esso non è che una trasfor­mazione del prezzo della forza di lavoro. Invece di dire che l’operaio ha venduto la sua forza di lavoro di una giornata per 3 lire, si dice che l’operaio va a lavorare per un salario di 3 lire al giorno.

Il salario di 3 lire al giorno è dunque il prezzo della forza di lavoro per una giornata. Ma questa giornata può es­sere più o meno lunga. Se è di 10 ore, per esempio, la forza di lavoro viene pagata a 30 centesimi l’ora, mentre, se i è di 12 ore, la forza di lavoro viene pagata a 25 centesi­mi l’ora. Dunque, il capitalista, prolungando la giornata di lavoro, viene a pagare all’operaio un prezzo minore per la sua forza di lavoro. Il capitalista può anche aumentare il salario, pur continuando a pagare all’operaio, per la sua forza di lavoro, lo stesso prezzo di prima, e anche me­no. Se un capitalista aumenta il salario del suo operaio da 3 lire a 3,60 al giorno, e nello stesso tempo la giorna­ta la prolunga da 10 ore che era prima, sino a 12 ore, egli, pur aumentando di L.0,60 il salario giornaliero, verrà sempre a pagare all’operaio L. 0,30 all’ora per la sua for­za di lavoro. Se poi il capitalista aumenta il salario da L. 3 a L. 3,60, ma, nello stesso tempo, prolunga la gior­nata da 10 a 15 ore, egli, pur aumentando il salario gior­naliero, riuscirà a pagare all’operaio per la sua forza di la­voro meno di prima, cioè 24 centesimi invece di 30 cen­tesimi l’ora. Lo stesso effetto ottiene il capitalista, se, in­vece di aumentare il lavoro in lunghezza, l’aumenta in ispessezza; come già abbiamo visto poter egli fare con le macchine. Insomma, il capitalista, aumentando il lavo­ro, riesce a frodare onestamente l’operaio; e può farlo an­che procurandosi fama di generoso, con l’aumentare il suo salario giornaliero.

Quando il capitalista paga l’operaio a ore, trova ancor modo di danneggiarlo, aumentando o diminuendo il la­voro, ma pagando sempre onestamente il medesimo prez­zo per ogni ora di lavoro. Sia, infatti, 25 centesimi il sa­lario di un’ora di lavoro. Se il capitalista fa lavorare l’operaio per 8 ore, invece di 12, gli pagherà L. 2, inve­ce di L. 3; gli farà perdere, cioè, una lira, con la quale l’operaio deve soddisfare la terza parte dei suoi bisogni giornalieri. Inversamente, se il capitalista fa lavorare l’operaio per 14 o 16 ore, invece di 12, pur pagandogli L. 3,50 o L. 4 invece di L. 3, egli viene a prendere dall’operaio 2 o 4 ore di lavoro a un prezzo minore di quello che vale. Dopo 12 ore di lavoro le forze dell’ope­raio hanno già subito un consumo; e le altre 2 o 4 ore di lavoro, fatte in più, costano più delle prime 12. Questa ragione, presentata dai lavoratori, la si vede infatti accettata in diverse industrie, dove si pagano a un prezzo maggiore le ore fatte in più di quelle stabilite.

Quanto minore è il prezzo della forza di lavoro, rap­presentata dal salario a tempo, tanto più il tempo del la­voro è lungo. E ciò è chiaro. Se il salario è di L. 0,25 l’ora, invece di L. 0,30, il lavoratore ha bisogno di fare una giornata di 12 ore, invece di farne una di 10, per pro­cacciarsi le L. 3 richieste dai suoi bisogni giornalieri. Se il salario è di L. 2 al giorno, il lavoratore ha bisogno di fare 3 giornate, invece di 2, per procurarsi quanto gli bi­sogna in 2 giorni soli. Qui la diminuzione del salario fa aumentare il lavoro; ma avviene altresì che l’aumento del lavoro fa diminuire il salario. Per l’introduzione del­le macchine, per esempio, un operaio viene a produrre il doppio di prima; allora il capitalista diminuisce il nume­ro delle braccia; per conseguenza si aumentano le domande di lavoro, e i salari calano.

Il salario a cottimo, a fattura o a capo, che dir si voglia, altro non è che una trasformazione del salario a tempo; come ce lo mostra anche il fatto che queste due forme di salario si trovano usate indifferentemente, non solo nel­le diverse industrie, ma talvolta anche in una medesima industria.

Un operaio lavora 12 ore al giorno per un salario di L. 3 e produce un valore di L. 6. Qui è indifferente dire che l’operaio produce, nelle prime 6 ore del suo lavoro, le L. 3 del suo salario, e, nelle altre 6 ore, le L. 3 di plu­svalore; il che equivale a dire che l’operaio produce, in ogni prima mezz’ora, L. 0,25, una dodicesima parte del suo salario, e, in ogni seconda mezz’ora, L. 0,25, una do­dicesima parte del plusvalore. Nella stessa guisa, se l’ope­raio produce, in 12 ore di lavoro, 24 capi, e percepisce centesimi 12,5 per capo, in tutto L. 3, è perfettamente come dire che l’operaio produce 12 capi per riprodurre le L. 3 a lui toccate in pagamento, e 12 capi per produrre L. 3 di plusvalore; ovvero che l’operaio produce, in ogni ora di lavoro, un capo per il suo pagamento, e un capo per il guadagno del suo padrone.

«Nel lavoro a capo, la qualità del lavoro è controllata dall’opera medesima, che deve essere di una bontà me­dia, affinché il capo sia pagato al prezzo convenuto. Sot­to questo rapporto, il salario a capo diventa una sorgen­te infinita di pretesti per fare delle ritenute sul paga­mento dell’operaio. Esso fornisce, nel tempo stesso, al capitalista una misura esatta dell’intensità del lavoro. Il solo tempo di lavoro che conti come socialmente neces­sario, e che sia per conseguenza pagato, è quello che si è incorporato in una massa di prodotti determinata e sta­bilita sperimentalmente. Nei grandi laboratori di sarti, a Londra, un certo capo, un panciotto, per esempio, si chiama, un’ora, una mezz’ora, eccetera, e l’ora è pagata 12 soldi. Si sa per pratica qual è il prodotto di un’ora in media. Quando vengono le nuove mode, si eleva sempre una discussione fra padrone e operaio per sapere se il ta­le capo equivale a un’ora, sino a che l’esperienza non de­cida. Lo stesso succede nei laboratori di falegnami, eba­nisti, eccetera. Se poi l’operaio non possiede la capacità media di esecuzione, se egli non può consegnare un cer­to minimum di lavoro nella giornata, lo si congeda.»

«La qualità e l’intensità del lavoro essendo così assicura­te dalla forma stessa del salario, una gran parte del lavoro di sorveglianza diventa superflua. E su di ciò fondato, non solamente il lavoro moderno a domicilio, ma eziandio tut­to un sistema di oppressione e di sfruttamento gerarchica­mente costituito. Da una parte, il salario a capo facilita l’intervento dei parassiti fra il capitalista e l’operaio, il mercanteggiamento. Il guadagno degli intermediari, dei mercanteggiatori, proviene esclusivamente dalla differen­za fra il prezzo del lavoro, tal quale il capitalista lo paga, e la porzione di questo prezzo che essi accordano all’operaio.

D’altra parte, il salario a capo permette al capitalista di fa­re un contratto di tanto al capo con l’operaio principale (nella manifattura con il capogruppo, nelle miniere con il minatore propriamente detto, eccetera) e quest’operaio principale s’incarica, per il prezzo stabilito, di trovare egli stesso i suoi aiutanti e di pagarli. Lo sfruttamento, che il capitale fa sui lavoratori, diventa qui un mezzo di sfruttamento del lavoratore sul lavoratore.»

«Stabilitosi il salario a capo, l’interesse personale spin­ge l’operaio ad attivare il più possibile la sua forza; la qual cosa permette al capitalista di elevare più facilmente il grado dell’intensità del lavoro. Benché questo risultato si produca da se stesso (dice Dunning, segretario d’una Società di resistenza) s’impiegano spesso mezzi per pro­durlo artificialmente. A Londra, per esempio, fra i mec­canici, l’artificio in uso è “che il capitalista sceglie per capo d’un certo numero d’operai un uomo di forza fisica superiore e svelto nel lavoro. Tutti i trimestri, o come si vuole, gli paga un salario supplementare, a condizione che egli faccia tutto il possibile di spingere i suoi colla­boratori, che non ricevono che il salario ordinario, a ga­reggiare di zelo con lui”. L’operaio è ugualmente interes­sato a prolungare la giornata di lavoro, come mezzo per accrescere il suo salario quotidiano o settimanale.

Quin­di ne segue una reazione, simile a quella che noi abbiamo descritta a proposito del salario a tempo, senza con­tare che la prolungazione della giornata, anche quando il salario a capo resta costante, implica per se stessa un ribasso nel prezzo del lavoro.»

«Il salario a capo è uno dei due principali appoggi del sistema già menzionato, di pagare cioè il lavoro a ore, senza che il padrone s’impegni di occupare l’operaio regolarmente durante la giornata o la settimana.»

«Negli stabilimenti sottoposti alle leggi di fabbrica, il salario a capo diventa regola generale, perché là il capi­talista non può ingrandire il lavoro quotidiano che sotto il rapporto della intensità.»

L’aumento di produzione è seguito dalla diminuzione proporzionale del salario. Quando l’operaio produceva 12 capi in 12 ore, il capitalista gli pagava, per esempio, un salario di L. 0,25 al capo. Raddoppiatasi la produzione, l’operaio produce 24 capi, invece di 12, e il capitalista ri­bassa il salario della metà, cioè, a centesimi 12,5 al capo.

«Questa variazione di salario, benché puramente no­minale, provoca lotte continue fra il capitalista e l’ope­raio; sia perché il capitalista se ne fa un pretesto per ribassare realmente il prezzo del lavoro; sia perché l’au­mento di produttività del lavoro cagiona un aumento della sua intensità; sia perché l’operaio, prendendo sul serio quest’apparenza creata dal salario a capo (cioè che sia il suo prodotto e non la sua forza di lavoro ciò che gli si paga), si rivolta contro una riduzione di salario, alla quale non corrisponde una riduzione proporzionale dei prezzi di vendita delle merci. Il capitale respinge giusta­mente simili pretensioni piene di errori grossolani sulla natura del salario. Egli le qualifica come un’usurpazione, tendente a prelevare imposte sul progresso dell’industria; e dichiara spiattellatamente che la produttività del la­voro non riguarda per nulla l’operaio.».

CARLO CAFIERO

da “Compendio de ‘Il Capitale'”, marzo 1878

categorie
Comunismo e comunisti

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