Benedetto XVI e noi

Difficile pensare al gesto di rinuncia di Papa Benedetto senza essere attratti dalla necessità di una riflessione più di fondo cui quella decisione così tanto inedita ci spinge. Il...

Benedict XVIDifficile pensare al gesto di rinuncia di Papa Benedetto senza essere attratti dalla necessità di una riflessione più di fondo cui quella decisione così tanto inedita ci spinge. Il discorso (il primo dopo la rinuncia) che il Papa tedesco ha fatto alla funzione del mercoledì delle ceneri aiuta, forse, a comprenderne meglio lo spessore filosofico e teologico.
Quel “ritorno al Signore” cui allude, citando il richiamo che il profeta Gioele rivolge al popolo di Israele, parla di una ricerca di interiorità profonda, di totale donazione di se. “Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore, con i digiuni, con pianti e lamenti.” E ancora, con le parole del profeta “laceratevi il cuore e non le vesti”. “In effetti – continua Ratzinger – anche ai nostri giorni molti sono pronti a stracciarsi le vesti di fronte a scandali e ingiustizie, naturalmente commessi da altri, ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio cuore, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta”. Ratzinger coniuga in questi passaggi insieme la vocazione alla rinuncia di Francesco, quella straordinaria lezione umana e spirituale, e un fortissimo richiamo al tornare al se.
Questo significa tornare a Dio, quel “ritornate a me con tutto il cuore”. Un richiamo che pure non ha niente di individuale. Un partire da se che quasi ricorda l’autocoscienza del primo femminismo. E infatti Benedetto così prosegue: “La dimensione comunitaria è un elemento essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”. Anche se le principali testate giornalistiche in queste ore sembrano più attratte dagli intrighi e dai misteri, dalle lotte di potere e dalla successione, su tutto si innalza questo messaggio profondo che vola più alto. Non credo riguardi banalmente solo il Vaticano e la Chiesa. E neanche solo il potere politico in quanto tale. C’è una sofferenza autentica in questa opera messa in atto dal Santo Padre. C’è una consapevolezza acutissima e dolente della crisi non solo della Chiesa ( e della politica ) ma di tutta la contemporaneità. “Il vero discepolo non serve se stesso o il pubblico, ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità. E’ il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a lui”.
Non ho certo l’ardire di criticare grandi studiosi che in questi giorni commentano e scrivono. Eppure non mi persuade l’approccio, anche il più colto, che fa parlare, ad esempio, Emanuele Severino di tentativo di salvaguardare la pura interiorità della fede dalla compromissione politica. Così come il pur legittimo, e perfino possibile ,auspicio che un gesto così inusuale avrà sul rinnovamento di una istituzione secolare. A me sembra un messaggio più elevato.
Che non leggerei solo dal punto di vista della Storia.” Nel gesto del Papa – ha scritto il filosofo Aldo Masullo – è la muta verità dell’esistenza che si ribella alla messa in scena della Storia e si sottrae alla retorica della politica”. C’è come un prendere atto, insieme drammatico e profetico, della infelicità connessa alla condizione umana, non tanto nel senso Leopardiano ( contrariamente a ciò che si crede sul suo famoso “pessimismo” l’autore della Ginestra affrontò questo dilemma con una visione dialettica della vita e della Storia ) ma scorgendo nel vortice del presente la impossibilità strutturale ad esaudire il proprio bisogno di autenticità ( tornare a Dio ). E’ un tema ricorrente, questo della condizione esistenziale nell’epoca della scienza, della sua ricerca e riflessione religiosa. Già il giovane Ratzinger in diversi scritti riflette e soffre su questo argomento. “ Anche tra i credenti si diffonde sempre più un sentimento, quale può gravare tra i compagni di una nave che affonda. Essi si domandano se la fede cristiana abbia ancora un futuro o se invece non si renda sempre più palese come essa sia semplicemente superata dal progresso intellettuale”.

Come ha scritto Masullo Ratzinger è il teologo del naufragio e della solitudine. Forse anche da qui la sua insistenza critica contro il relativismo e quella idea della fede magari un po’ integralista ma certo tesa ad evitarne il degrado spirituale.

Anche questo suo ultimo atto clamoroso – la rinuncia al soglio di Pietro – porta i segni di questo tormentato e intellettualmente altissimo percorso. Massimo Recalcati ha scritto su Repubblica, descrivendo il significato psicoanalitico dell’abbandono, che gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, servono a nascondere il carattere finito e mortale dell’esistenza umana. Il gesto della rinuncia a un ruolo è carico di significati emotivi perché segna la fine della maschera e della sua funzione stabilizzante e rassicurante. Dopo, la nostra vita è alla sua condizione più nuda. Può esserci disperazione ma anche l’affacciarsi a un nuovo se stesso. Ripeto, la scelta di Benedetto richiama, pur se in contesti diversi, la rinuncia del santo di Assisi. Solo che lì – nella narrazione che ne ha costruito il mito – si coglie soprattutto la santità e la speranza. Benedetto – nel prendere atto che il legarsi ad una identità rigida non può essere il destino dell’uomo e ovviare alla sua finitezza mortale – lancia un segnale (anche con la sua stanchezza fisica e l’età) di disperazione umana reale e, insieme, una sfida positiva, concreta, a tutti noi, a coltivare in maniera diversa il difficile rapporto tra l’esistenza e la Storia.

VITO NOCERA

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