Ágnes Heller, alla ricerca dell’avventura dell’esistenza

Scompare nuotando nel lago Balaton l’intellettuale della «teoria dei bisogni». A suo giudizio era inutile guardare alla «presa del palazzo d’inverno», in attesa di cambiare la vita; la forma della vita deve già cambiare in attesa della rivoluzione
Ágnes Heller

È scomparsa nuotando nel lago Balaton, nella sua Ungheria. Così è terminata la vita di Ágnes Heller, con quella stessa spontanea e gioiosa naturalità che l’aveva contraddistinta. Sì, perché lei, minuta e fragile, era sopravvissuta, nel 1945, al ghetto di Budapest. Aveva solo quindici anni; quasi tutta la famiglia fu sterminata. «La libertà per me ha sempre significato liberazione dal nazismo». Di quell’esperienza traumatica le era rimasto un profondo attaccamento alla vita. Desiderava viverla ogni giorno pienamente, godendo di tutto quello che le veniva concesso; ma senza mai sottrarsi alle sue responsabilità. Forse anche per questo in ogni suo piccolo gesto, nel sorriso, nella battuta, nella replica, si riconosceva distintamente lei, la filosofa. Il suo pensare era tutt’uno con il suo agire.

Dietro l’apparente fragilità si percepiva una forza straordinaria che le aveva permesso di attraversare il Novecento, quel lunghissimo secolo, di cui pressoché nulla le era stato risparmiato. Dopo la Shoah c’era una data che non avrebbe mai dimenticato: il 1956, la rivoluzione ungherese. A quel tempo Heller era già assistente di György Lukács. Come molti dissidenti subì sospetti, processi, espulsioni, riabilitazioni. Fu un crescendo inarrestabile finché, dopo il 1968 e la primavera di Praga, la situazione divenne insostenibile. Accusata di revisionismo, insieme ad altri esponenti della «scuola di Budapest», nel 1977, insieme al marito Ferenc Fehér, coautore di diverse opere, dovette lasciare definitivamente l’Ungheria. Cominciarono quelli che lei chiamava con una certa benevola ironia «gli anni della peregrinazione». Prima in Australia, poi negli Stati Uniti dove alla prestigiosa New School for Social Research di New York tenne a lungo la cattedra che era stata di Hannah Arendt.

Era fiera di essere donna – di sentire e pensare da donna. Proprio per questo aveva accenti critici per quell’emancipazione così mal interpretata, come se si trattasse solo di prendere il potere imitando i maschi. La liberazione, insieme a un diverso rapporto con il potere, è ancora di là da venire. Ma in tale contesto puntava l’indice contro la politica: «Curiosamente la Sinistra non si è fidata delle donne, sebbene le prime donne politicamente influenti siano state quelle attive nei movimenti socialisti».

Ecco perché suona quasi un insulto apporle – come fanno sbrigativamente alcuni – l’etichetta «allieva di Lukács». Lei non poteva sopportare le classificazioni del pensiero e non voleva identificarsi con nessuno dei tanti «ismi» che le sono stati attribuiti. Soprattutto non ha mai voluto passare per semplice dissidente e non si è mai lasciata utilizzare dal liberalismo. Chi ancora oggi la presenta così le fa un torto. Anche per presentare la complessità del suo percorso ha scritto Breve storia della mia filosofia, pubblicato da Castelvecchi nel 2016.

Il suo rapporto con Marx ha influenzato profondamente la sua riflessione. Nasce così la trilogia di opere con cui diventa presto nota: La filosofia radicale, Teoria dei bisogni, Sociologia della vita quotidiana. È a partire dal Marx dei Manoscritti che Heller, già negli anni Settanta, identifica nei «bisogni radicali», cioè una vita piena di senso, un lavoro gratificante, lo studio, l’esigenza di tempo libero, quei bisogni che, proprio perché mirano a una liberazione radicale, non possono essere soddisfatti in una società ingiusta. Antitetici sono invece i bisogni alienanti, dal consumo insaziabile di merci al subdolo conformismo, che creano sempre ulteriore assoggettamento. Di quale «libertà» parla dunque il liberalismo?

Ecco la svolta che si disegna con chiarezza nella sua filosofia radicale: inutile pensare alla rivoluzione, immaginata come la presa del palazzo d’inverno, in attesa di cambiare la vita; la forma della vita deve già cambiare in attesa della rivoluzione. Basta, dunque, con questo circolo vizioso che la filosofia non può né deve ammettere. Parlare in quegli anni di «forme di vita» non era per nulla ovvio. Si capisce perché si sia trovata a suo agio tra gli intellettuali della Nuova sinistra, critica, radicale, libertaria, internazionalista. «Oggi sosteniamo spesso e volentieri – ha scritto nel 2013 – che la Nuova Sinistra è stata sconfitta. Ma è una sciocchezza. Quale accezione di “sconfitta” implicherebbe?». Se i sogni non si sono realizzati non vuol dire che la rivoluzione sia un inganno. Le speranze esistono per accelerare ciò che è effettivamente realizzabile.

Lei non si è mai data per vinta. Né in filosofia né in politica. «La persona giusta esiste. Cosa la rende possibile?». Dopo il saggio Oltre la giustizia, pubblicato nel 1990, ha sviluppato una complessa filosofia morale. Il terzo prezioso volume Un’etica della personalità, del 1998, è stato pubblicato da Mimesis nel 2018. Scegliere sé solo grazie all’altro: questa è l’avventura della vita di ciascuno, tessuta da tante storie che vanno quotidianamente ricostruite. Si può dire che proprio la vita sia il filo rosso della sua filosofia radicale.

Negli ultimi anni è ritornata in Ungheria, dove ha guidato con fermezza l’opposizione politica contro Orbán. Articoli, interviste, dibattiti, dimostrazioni in piazza. Era sconcertata dal riemergere dell’antisemitismo, allarmata da quelle spinte nazionalistiche e autoritarie capaci di disgregare per sempre il progetto politico e culturale dell’Europa in cui non ha mai smesso di credere.

DONATELLA DI CESARE

da il manifesto.it

foto tratta da Wikipedia

categorie
Comunismo e comunisti

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