«Fame e proteste» a Cuba, i vertici accusano Washington

La preoccupazione dopo le manifestazioni di domenica. Per il presidente Miguel Díaz-Canel il malcontento espresso nelle piazze è frutto degli «attacchi virtuali e reali» a cui l’isola è sottoposta dall’Amministrazione Biden, con la conferma delle politiche di Trump. Ma pesano anche i ritardi nelle riforme

«La rivoluzione cubana non porgerà l’altra guancia a chi la attacca in spazi virtuali e reali» ha scritto ieri via Twitter il presidente Miguel Díaz Canel. La situazione nell’isola dopo le proteste popolari di domenica è stata esaminata in una riunione dell’Ufficio politico del Partito comunista alla quale ha partecipato anche Raúl Castro, nonostante il novantenne ex presidente si sia ritirato dopo il recente VII Congresso del partito.

Sono segnali evidenti della forte preoccupazione nutrita in seno al vertice politico cubano di fronte a «un’agenda interventiista» che ha origine negli Stati uniti e che è amplificata da una «campagna mediatica» in rete che ha sponde in Spagna e in Argentina.
«Non è in atto una guerra tra il popolo cubano» ha ribadito il presidente. È in atto invece una campagna per «manipolare il popolo» riguardo sia alle gravi carenze di alimenti e di medicinali, sia all’intensificarsi della pandemia.

Cuba da molti anni non attraversa un periodo così buio. I casi attivi di Covid-19 sono 32.000, le vittime 1500. Nello scorso giugno e nelle prime settimane di questo mese si sono avuti più casi di contagio e di morti che in tutto l’anno passato. Poco più del 15% della popolazione ha completato i cicli di vaccinazione con i due sieri cubani, Abdala e Soberana. Il primo ha avuto l’autorizzazione a un uso di emergenza come vaccino ed è in corso una massiccia campagna nazionale per il suo uso.

La scarsezza di alimenti e di medicinali è generalizzata. I prezzi troppo alti dei generi di prima necessità, le lunghe e sfibranti code quotidiane per procurarsi di che andare avanti hanno indubbiamente generate un malcontento popolare che è andato crescendo.
Díaz- Canel e il vertice politico cubano indicano come principale responsabile di questa drammatica situazione l’Amministrazione Biden che continua la politica di strangolamento economico, finanziario e commerciale voluta da Donald Trump. Nei mesi passati sia a Cuba sia negli Usa si attendeva che il nuovo presidente mantenesse le promesse elettorali di riprendere la politica dell’ex presidente democratico Obama di relativo appeasement con l’Avana.

Così non è stato. Anche le 243 misure presidenziali adottate da Trump e che Biden avrebbe potuto eliminare con un tratto di penna, restano. E colpiscono duro l’isola, tra l’altro limitando drasticamente le rimesse e i rapporti famigliari tra cubano-americani e i parenti nell’isola. Il presidente Biden ha elogiato il «coraggio dei cubani che protestano pacificamente per rivendicare i propri diritti». Esattamente come ha Trump dalla Florida.

Ieri il presidente del Comitato affari esteri della Camera bassa statunitense, Gregory Meeks, ha chiesto a Biden di eliminare le sanzioni di Trump, se veramente crede nel mantra che ripete la sua amministrazione di «voler aiutare il popolo cubano». La messa al bando dell’embargo è stata chiesta ieri anche dal governo cinese, come pure dai presidenti del Messico e dell’Argentina. Se queste voci, come probabile, non verranno ascoltate, vi è il sospetto sempre più concreto che, per ragioni di politica interna, il presidente Biden sia intenzionato a portare avanti la politica del suo predecessore di destabilizzazione del governo socialista cubano e anche di un possibile intervento diretto, mascherato dalla necessità di “aiuti umanitari”.

«Fame, disperazione, proteste» erano, secondo l’allora vicesegretario di Stato, Lester D.Mallory, gli obiettivi dell’embargo unilaterale Usa contro Cuba decretato nel 1960.

Dare però tutta la responsabilità della crisi sociale in corso nell’isola alla politica interventista degli Usa e alla campagna mediatica dei social rischia di essere una pericoloso errore politico. Oltre ai fattori esterni, la crisi in corso nell’isola ha anche cause interne strutturali, errori nelle politiche economiche, riforme decise dieci anni fa e in gran parte incompiute, uno Stato socialista di diritto che non è ancora uscito dalle pagine della nuova Costituzione. Cause peraltro riconosciute dal governo, che ha minuziosamente tracciato negli ultimi mesi le strategie per superarle. Ma le autocritiche e i piani debbono portare a risultati, che invece tardano a realizzarsi.

In queste contraddizioni si sono inseriti i piani di destabilizzazione denunciati da Díaz-Canel. Le manifestazioni di domenica non sono state tutte pacifiche e spontanee ma non possono essere ridotte a atti «di manipolazione da parte delle reti sociali», né di «confusione di massa». Le ragioni di migliaia di persone scese nelle strade dell’isola per chiedere cambiamenti e di attuarli in pieno rispetto della sovranità nazionale meritano e devono essere ascoltate. Assieme a misure di difesa della Rivoluzione il governo cubano «deve perseguire una soluzione politica della crisi e a iniziare un processo di dialogo sociale che in molti hanno richiesto» afferma la direzione di Joven Cuba, un blog di analisti socialisti.

È questa la responsabilità del vertice politico ormai composto da leader nati dopo la rivoluzione del 1959. In questo modo può rispondere a una campagna mediatica che diffonde video di violenze, parla di morti e torture, usa immagini false. O agli inviti ad «ascoltare il malcontento popolare e a liberare i manifestanti arrestati per motivi politici» rivolti dal responsabile della politica estera dell’Ue, Josep Borrell.

La situazione nell’isola resta tesa. Senza internet le comunicazioni sono difficili.

ROBERTO LIVI

da il manifesto.it

foto: screenshot

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