Donald Trump, tutte le divisioni del presidente

Nell’America-Mondo di Barack Obama, anche il tema del cambiamento climatico rifletteva l’idea di un intreccio sempre più stretto tra la natura intrinseca degli Stati Uniti – paese «plurale», edificato...

Nell’America-Mondo di Barack Obama, anche il tema del cambiamento climatico rifletteva l’idea di un intreccio sempre più stretto tra la natura intrinseca degli Stati Uniti – paese «plurale», edificato con e dall’emigrazione da ogni angolo del pianeta e di cui Obama si sentiva specchio – e il mondo stesso. In Donald Trump l’America si chiude in se stessa, si mette al primo posto – America First – e segue il corso di un’agenda politica basata sulle convenienze «domestiche». Che il resto del mondo s’adegui. Il clima è cancellato dalle priorità, occuparsene non è nell’interesse degli Usa, sostiene Trump.

Nella visione obamiana dell’America-Mondo non c’è solo il crogiolo di comunità, fedi e culture, un melting pot di 320 milioni di americani.

C’è la valorizzazione della pluralità geografico-sociale che compone il puzzle americano, una federazione dove la California – sesta più grande economia del mondo – convive con il Texas, più grande della Francia e più ricco di tante nazioni, e col minuscolo Delaware, e con l’Idaho delle patate, e con gli stati delle fabbriche ormai dismesse o dislocate.

Le contraddizioni del mondo, le vedi tutte nel continente americano. Obama ha cercato di trovare punti d’incontro e di coesione tra pezzi d’America che, con la crisi e con il cambiamento demografico, come i ghiacci dell’Artico, si distanziano tra loro, concentrando il massimo dei suoi sforzi su questa dimensione interna dei problemi americani. E ponendo così la politica internazionale, di fatto, in secondo piano.

Per Obama, un’America virtuosa, anche sul fronte del clima (e dell’economia della conoscenza) come sul fronte della lotta alle diseguaglianze, poteva essere il modo migliore per continuare ad avere lo stesso peso che aveva nel Novecento grazie, allora, al combinato disposto di forza economica senza pari e di complesso militare-industriale, anch’esso senza pari.

Neppure in Trump c’è il ritorno alla politica di potenza mondiale, anche in lui è esplicita l’attenzione alla dimensione domestica dei problemi, ma con un’ottica opposta a quella obamiana, nel privilegiare alcune aree del paese a scapito di altre, certi settori elettorali a scapito di altri, certi settori economici a scapito di altri. Trump è un divider, Obama un uniter. Lo sono in casa, e lo sono pertanto anche nel mondo.

Proprio per questo è stato votato, e ha vinto, Donald Trump. E da presidente, non fa altro che mettere in pratica, anche se spesso in modo contraddittorio e confuso, quanto promesso e declamato in campagna elettorale.

È a dir poco curioso l’atteggiamento di chi se ne sorprende. Immaginavano un presidente che si sarebbe rimangiato le promesse di candidato? Molti commentatori hanno evidentemente introiettato il machiavellismo e il repertorio di bugie di certi politici che ha allontanato, in tutto il mondo, tanti elettori da tutta la politica, per rivolgersi agli outsider. Che una volta al governo tali restano, perché non hanno «cartelli» a cui devono qualcosa, ma sono in conversazione costante con gli elettori che li hanno votati e che li sostengono, disposti anche a scendere in piazza armati. Annunciando l’uscita dall’accordo sul clima, Trump ha detto: «Sono stato eletto per rappresentare i cittadini di Pittsburgh, non di Parigi».

Che lo stesso Bill Peduto, sindaco di Pittsburgh, città simbolo dell’America «arrugginita», si sia risentito della sortita di Trump e abbia definito «disastrosa» la decisione di uscire dall’accordo di Parigi, non toglie senso politico alle parole del presidente, semmai mette in luce il livello di guardia senza precedenti a cui si è giunti in America nello scontro tra i diversi centri di potere istituzionale.

Non diversamente da quanto accade in Europa, l’America somiglia sempre più a una maionese impazzita e rischia di andare a pezzi. Trump asseconda queste pulsioni, che non sono emotive (non c’entra niente la «pancia», l’«America profonda», pure scorciatoie giornalistiche), in ballo ci sono interessi oggi in contrasto tra regione e regione, tra elettorati ed elettorati.

Recentemente in Montana, un clone di Trump, peggiore dell’originale, Greg Gionforte ha vinto un’elezione suppletiva per la camera, con i progressisti locali illusi che non ce l’avrebbe fatta, perché poco prima del voto aveva aggredito un reporter. Ha vinto anche per questo, forse proprio per questo.

Il 20 giugno, ad Atlanta, il democratico Jon Ossof tenta di conquistare un seggio repubblicano in un’altra elezione suppletiva. Ossof, incredibilmente, ha vinto al primo turno, e tutta l’America democratica si è mobilitata – oltre 30 milioni dollari raccolti – per il secondo turno.

Da Atlanta potrebbe venire la buona notizia che l’onda dei Trump e dei Gionforte si è arrestata e che l’altra America sta già recuperando forza per tornare a galla? Difficile crederci, ma bisogna sperarlo. Altrimenti, sarebbe l’ennesimo segnale che la nuova guerra civile americana va spedita verso nuove e violente battaglie, con riverberi nel resto del mondo.

GUIDO MOLTEDO

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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