I tabù del Sol levante

Oshima in Giappone tocca l'intoccabile

Il cinema giapponese, spesso “confinato” nei festival cinematografici e lontano dalla grande distribuzione, è uno dei più importanti al mondo, ma il pubblico occidentale lo scoprì solo nel 1951 quando Rashomon (1950) di Akira Kurosawa vinse il Leone d’oro a Venezia e l’anno seguente l’Oscar come Miglior film straniero. Un cinema, quello del Sol levante, fatto dal realismo e dalla sensibilità di Kenji Mizoguchi, recentemente ricordato da Citto Maselli nella nostra intervista, autore, tra gli altri, di Vita di O-Haru, donna galante (1952), I racconti della luna pallida d’agosto (1953), L’intendente Sansho (1954); dalle avventure e dalle riflessioni di Akira Kurosawa regista di Una meravigliosa domenica (1947), Vivere (1952), I sette samurai (1954); dalla poesia e dall’intimismo di Yasujiro Ozu che diresse Tarda primavera (1949), Viaggio a Tokyo (1953), Tardo autunno (1963) pellicole, insieme ad altre, recentemente restaurate dalla Tucker Film e tornate anche nelle sale italiane.

Nagisa Oshima

Nagisa Oshima da giovane

Successivamente, negli anni sessanta, si affacciò in Giappone una nuova generazione di registi ispirati dalla Nouvelle Vague francese tra questi Kiju Yoshida autore di Akitsu Onsen (La sorgente termale di Akitsu, 1962), Masahiro Shinoda regista di Kawaita hana (Il fiore pallido, 1963) e Ansatsu (Assassino, 1964) e il più radicale di tutti Nagisa Oshima.

Nato a Kyoto il 31 marzo 1932 Oshima si impose quasi subito con Racconto crudele della giovinezza (Seishun zankoku monogatari, 1960). Nella pellicola una giovane coppia estorce denaro a ricchi automobilisti attirati dalla bellezza della ragazza (l’attrice Miyuki Kuwano), ma la malavita organizzata non accetta la “concorrenza” e li prende di mira. Il film fece scandalo, ma riscosse grande successo tra i giovani giapponesi e portò notevoli incassi alla casa di produzione Shochiku.

Nel succesivo Notte e nebbia del Giappone (Nihon no yoru to kiri, 1960), il cui titolo fu un omaggio a Notte e nebbia (1955) del francese Alain Resnais (tra gli ispiratori della Nouvelle Vague), Oshima si concentrò sul Trattato di sicurezza con gli USA, che prevedeva la presenza di basi americane sul suolo giapponese per la “salvaguardia della sicurezza internazionale”.

Il 1960 fu un anno cruciale della storia recente giapponese. Il 19 gennaio il “Trattato” fu sottoposto a revisione (prima firma l’8 settembre 1951). La Federazione dell’Autogoverno Studentesco del Giappone (Zengakuren) si oppose al rafforzamento dell’alleanza fra Giappone e Stati Uniti ed organizzò una grande manifestazione il 15 giugno. Il Partito Comunista Giapponese (Nihon Kyosan-to) tenne in quell’occasione un atteggiamento molto ambiguo nei confronti di quel vasto movimento, negò l’appoggio all’evento, causando lo sbandamento e la sconfitta dello stesso. Infatti, il 23 giugno fu ratificato il “Trattato di mutua cooperazione e sicurezza” (accordo tacitamente concluso tra gli anni novanta e i primi anni dell’attuale secolo).

Notte e nebbia del Giappone

Notte e nebbia del Giappone (1960)

Nel suo film Oshima criticò sia il dogmatismo stalinista del Partito che il moderatismo attraverso il racconto del matrimonio tra un ex esponente del movimento ora integrato nel “sistema” ed una giovane militante dello stesso movimento su posizioni più radicali. Il banchetto di nozze, tramite un uso ricorrente del flashback, anziché portare ad una riconciliazione tra generazioni divise dagli eventi, fa affiorare rancori e vecchi fantasmi legati alla storia del Partito.

Per i dirigenti della casa di produzione, sempre la Shochiku, fu uno shock. Il film era apertamente politico, una mina rivoluzionaria e l’assassinio del Presidente del Partito Socialista Giapponese Inejiro Asanuma, ucciso durante una trasmissione televisiva da un militante di estrema destra, portò al ritiro della pellicola che giunse in Europa solo nel 1972, al Festival di Pesaro. Oshima lasciò pertanto la Shochiku e fondò una sua casa di produzione, la Sozosha, per essere ancor più libero e indipendente.

Con la sua nuova casa di produzione Oshima iniziò ad attaccare, in film molto diversi, tutti i tabù sessuali e morali del Giappone contemporaneo.

Il razzismo, in particolare quello anticoreano, fu al centro dei film L’addomesticamento (1961) e Il ritorno degli ubriaconi (1968), ma raggiunse il suo apice ne L’impiccagione (Kòshikei, 1968) in cui il regista trattò, in modo inedito, anche il tema della pena di morte.

L’impiccagione

L’impiccagione (1968)

 R (Do-yun Yu), uno studente coreano, è condannato a morte per impiccagione colpevole di aver stuprato ed ucciso due ragazze giapponesi, ma sopravvive all’esecuzione ed è colpito da amnesia. Poiché la legge giapponese proibisce l’esecuzione della pena di morte per un condannato che non sia cosciente, le autorità presenti (tra i quali un prete ed il pubblico ministero), per far ritornare la memoria a R, inscenano una recita in cui ricreano la sua vita e i suoi crimini. Nel corso dell’insolita rappresentazione collettiva si materializza un nuovo personaggio che riesce nell’intento, una ragazza coreana che il protagonista chiama “sorella”. R prende coscienza sia delle sue origini sia dei delitti commessi. Il giovane coreano, pertanto, dopo essere stato graziato si confessa colpevole e accetta di essere giustiziato, ma la nuova esecuzione ha un esito enigmatico.

Opera unica sulla questione dell’identità coreana, sul crimine e sulla pena di morte. Un film grottesco con forti rimandi al teatro dell’assurdo e all’opera di Bertold Brecht, che si apre in stile documentaristico con la descrizione minuziosa del carcere e delle procedure per l’esecuzione della pena capitale, per poi evolvere in una commedia nera. Un film politico, ispirato alla figura reale di un pluriomicida degli anni cinquanta, in cui la critica alla pena di morte viene mossa non, come accade spesso, in presenza di un condannato innocente, bensì di un condannato colpevole: proprio questo rende la critica ancora più forte, in quanto non legata all’innocenza del soggetto protagonista, ma al concetto di pena di morte in sé.

Il pensiero di Oshima è chiaro: se in uno stato di diritto la pena serve a rieducare il reo, la pena di morte è totalmente inutile poiché non permette al condannato di comprendere il proprio crimine e quindi di essere rieducato.

L’impiccagione

nella scena de “L’impccagione”, gli ufficiali cercano di far tornare la memoria al condannato

Non meno forte la denuncia del razzismo dei giapponesi. Durante la rappresentazione vengono evidenziate le drammatiche condizioni di vita in cui versano gli immigrati coreani, considerati a tutti gli effetti cittadini “inferiori” ed emergono a più riprese i pregiudizi nei loro confronti. Un funzionario invita un altro a fingere di mangiare come un maiale, proprio “alla maniera di un coreano”, un altro ancora si lascia scappare che bisognerebbe sterminare tutti i 600.000 coreani che vivono in Giappone o almeno, precisa un suo collega, quelli fra loro che sono comunisti.

Oshima denunciò anche le “infanzie negate” nel dopoguerra in Diario di Yumbogi (Yunbogi no nikki, 1965) struggente ritratto di un ragazzino sudcoreano e nel successivo Il bambino (Shonen, 1969). Ispirato ad un fatto di cronaca riportato dai giornali nel 1966, il film racconta la vita di un bambino costretto dalla famiglia a gettarsi contro le macchine in corsa per estorcere agli automobilisti i soldi dell’assicurazione.

Il tema della famiglia fu anche al centro de La cerimonia (Gishiki, 1971) che rivive la storia del Giappone attraverso le cerimonie, tre funerali e due matrimoni, che hanno segnato la vita del giovane Masuo (Kenzô Kawarasaki) in cui i formalismi e le rigidità della tradizione si scontrano con la realtà in via di trasformazione. Un’opera calata nelle radici dell’anima giapponese, nell’ossessione della morte e del suicidio, nella forza dei legami familiari e di clan.

Oshima affrontò inoltre, in molte pellicole, il tabù del sesso. Da Il godimento (1965) a Il demone in pieno giorno (1966), da Sulle canzoni sconce giapponesi (1967) a Diario di un ladro di Shinjuko (1968). Questi film ebbero alcuni problemi con la censura, che in Giappone non è emanazione dello Stato, bensì un organismo privato formato da operatori del settore e “garanti morali” dell’associazione “Codice dell’etica cinematografica della commissione amministrativa” (Eiga Rinri Kitei Kanri Iinkai).

Ecco l’impero dei sensi

Ecco l’impero dei sensi (1976)

Il Giappone era, ed è, uno dei pochi grandi paesi al mondo in cui la “censura sessuale” continua ad essere soggetta a profonda ipocrisia, mentre la violenza estrema e il sadomasochismo si mostrano senza problemi: un corpo nudo può finire solo sulle riviste. Fece scandalo il nudo di Sophie Marceau in Al di là delle nuvole (1996) di Michelangelo Antonioni e Wim Wenders, ma il processo più famoso fu quello ai danni di Ecco l’impero dei sensi (Ai no corrida, 1976) di Oshima: una produzione Giappone-Francia che fu mostrato a Tokyo censurato e con i sottotitoli in francese per rimarcare le distanze dalla cultura giapponese.

Basato su un celebre episodio di cronaca avvenuto nel Giappone degli anni trenta, il film racconta il rapporto morboso che lega la giovane cameriera Sada Abe (l’attrice Eiko Matsuda) al proprietario della pensione Kichizo Ishida (Tatsuya Fuji). Un legame che li spinge a rapporti sessuali sempre più estremi fino allo strangolamento di lui, che regalerà ai due l’ultimo irripetibile amplesso.

Etichettato come “pornografico” per le “molte scene girate in maniera realistica, ma comunque mai volgare” (Mereghetti) il film di Oshima è più che altro un crudo racconto dell’alienazione sociale del Giappone dell’epoca.

Furyo

Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983)

Complici le polemiche di Ecco l’impero dei sensi (in Italia spesso chiamato L’impero dei sensi), il regista si affermò anche fuori dai confini nazionali e nel 1983, in una nuova coproduzione questa volta con Gran Bretagna e Nuova Zelanda, infranse altri tabù. In Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983) affrontò in un sol colpo i concetti di onore e di disciplina e l’omosessualità nel mondo militare.

Nel 1942 il Capitano Yonoi, che ha il volto del musicista Ryuichi Sakamoto, dirige con l’aiuto del Sergente Hara (Takeshi Kitano, comico giapponese autore del famoso Takeshi’s Castle commentato in Italia dalla Gialappa’s Band nella trasmissione “Mai dire banzai” e futuro regista di successo), un campo di concentramento a Giava che “ospita” diversi prigionieri occidentali. Nel campo è recluso anche il Tenente inglese John Lawrence, l’attore Tom Conti. Le condizioni sono pesantissime ed amplificate dalla frustrazione dei prigionieri per cui, nella cultura giapponese, è meglio un suicidio onorevole rispetto alla prigionia. Tutto è gestito con pugno di ferro, ma il Capitano Yonoi non riesce a contrastare il fascino che esercita su di lui l’ultimo arrivato, l’ufficiale neozelandese Jack Celliers, interpretato da David Bowie.

Oshima e Bowie

Nagisa Oshima e David Bowie

Oshima mise a confronto la cultura occidentale e quella orientale attraverso una storia di repulsione e attrazione tra due omosessuali interpretati dai due musicisti David Bowie e Ryuichi Sakamoto, quest’ultimo anche autore della straordinaria colonna sonora e pochi anni dopo premio Oscar per la colonna sono de L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci.

Un film che si scaglia una volta di più contro la guerra, la sua ferocia e perfino contro l’insensatezza della giustizia. A guerra finita, infatti, il tribunale militare condanna a morte il Sergente Hara che saluta uno dei suoi ex prigionieri, John Lawrence, con un commovente “Buon Natale, mister Lawrence”, frase che diede il titolo alla pellicola, mentre per la versione italiana fu scelto il titolo Furyo che è la parola giapponese per indicare un “prigioniero di guerra”.

Pochi anni dopo Oshima mise alla berlina i rapporti di coppia nel film Max amore mio (Max mon amour, 1986) una produzione Giappone-Francia-USA sceneggiata dal regista insieme a Jean-Claude Carrière, già collaboratore di Luis Buñuel. Un diplomatico inglese (Anthony Higgins) scopre che la moglie, l’attrice Charlotte Rampling, lo tradisce. Non si scandalizza, anche lui ha un’amante, fino a quando non scopre che il suo “rivale” è uno scimpanzé di nome Max.

Nagisa Oshima

Nagisa Oshima

Nella pellicola, in cui recita anche la “moglie di Fantozzi” Milena Vukotic, Oshima porta i paradossi fino in fondo e “si prende gioco con intelligente malizia delle attese e della curiosità dello spettatore” (Mereghetti). Si prende gioco dell’erotismo. Emblematica in questo senso la sequenza in cui Max rimane indifferente di fronte alla prostituta pagata dal diplomatico che si spoglia davanti a lui. Per un’animale una donna nuda o vestita non fa differenza.

Ma i tabù da sfatare per Oshima non erano finiti. Nonostante un violento attacco cerebrale che lo colpi nel 1995, il regista girò Tabù – Gohatto (Gohatto, 1999) in cui affrontò il tema raro dell’omosessualità nell’universo dei samurai.

Oshima fu il primo regista a “vibrare colpi d’ariete contro le fortezze del cinema giapponese classico, a rischio forse di far crollare tutto, come gli rimproverano alcuni cineasti dell’ultima generazione” (Tessier). Morì il 15 gennaio del 2013 a seguito di un’infezione polmonare privando il cinema di un genio eclettico, sovrabbondante e disordinato. Di se stesso disse “Ho sempre fatto un genere di film che mi rendeva poi difficile realizzare il film successivo. Quando a volte mi hanno proposto vie semplici, ho sempre rifiutato. Faccio dei film perché vedo dei fantasmi e intendo le loro voci. Quelli che vedono questi fantasmi e ne intendono le voci sono la mia troupe e i miei spettatori”.

MARCO RAVERA

redazionale


Bibliografia

“Dizionario del comunismo del XX secolo” a cura di Silvio Pons e Robert Service – Einaudi
“Storia del cinema giapponese” di Max Tessier – Lindau
“Nagisa Ōshima” a cura di Stefano Francia di Celle – Il Castoro
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2014” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

categorie
Corso Cinema

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