Se tentatissimo una fenomenologia del riarmo, potremmo prima di tutto riferirci alla teorizzazione dell'”interregno americano“, di quel momento tutto attuale e contemporaneo in cui la Repubblica stellata si è andata via via disimpegnandosi dalla scena globale. O, almeno, così pareva essere fino a pochi mesi fa, quando Donald Trump, reduce dalla rioccupazione della Casa Bianca sull’onda del voto popolare e del sostegno al suo pluridemenziale movimento MAGA, solennizzava il successo con frasi emblematiche: l’età dell’oro degli Stati Uniti era ricominciata.
Quindi, da lì a poco, la politica del nuovo governo del presidentissimo sarebbe stata improntata tutta alla soddisfazione del primato americano dentro il proprio “giardino di casa“, tralasciando le guerre tanto europee quanto quelle mediorientali. La conferma delle alleanze diveniva così una variabile dipendente tanto dai primi segnali di politica interna quanto da quelle sfrontate applicazioni di dazi esorbitanti per testare la sopportazione dei mercati da un lato e per comprendere la reazione dei principali avversari sulla scena multipolare globale.
Nei riguardi dell’Europa, Trump, pure consapevole che il Vecchio continente era e sarebbe continuato ad essere una pedina importante nello scacchiere dell’intero arco euroasiatico, aveva mostrato tutto il suo più inverecondo disprezzo: un gruppo di paesi abituati ad aggrapparsi ai jeans dell’alleato al di là dell’Atlantico, mentre la NATO non era poi così sicuro che potesse ricevere ancora i finanziamenti vitali da parte di Washington. Lo scoppio della guerra in Ucraina aveva messo in plateale, oggettiva evidenza che Kiev da sola era spacciata. Che con l’Europa a sostenerla era mezza spacciata.
Senza gli Stati Uniti d’America nessuna resistenza all’invasione russa era chiaramente sostenibile su un medio-lungo periodo. Il reingresso di Donald Trump sulla scena della politica mondiale avviene nel momento in cui il conflitto europeo è già su un asse temporale di lungo periodo e si deve dunque ragionare su un aggiornamento della tattica, così pure della strategia che meglio si adatta al prolungarsi della guerra. L’Europa non poteva fingere ieri e non può fingere nemmeno oggi di essere qualcosa di completamente separabile del Medio Oriente e dall’Asia stessa.
Ci troviamo davanti oggi, tanto nel caso del conflitto russo-ucraino, quanto di quello a Gaza e non di meno per quelli che Israele ha aperto nei confronti del Libano e dell’Iran, a guerre di sistema, a cambiamenti radicali che vengono gestiti con la forza che è la cifra della politica trumpiana e che sta divenendo anche quella della politica europea sostenuta da Ursula von der Leyen. Uno spostamento a destra verso un’economia bellica che tenta la strada della competizione con gli altri poli planetari e che è destinata a sacrificare su quest’altare ciò che rimane delle tutele sociali.
Non solo il trumpismo la fa da padrone nel consesso nordatlantico dell’Aja, ma sparge il suo influsso anche nel Consiglio europeo che non decide praticamente su nulla, tranne che su un nuovo pacchetto di sanzioni alla Russia. Ma Israele non si tocca: i ventisette prendono atto che a Gaza c’è una strage quotidiana di civili, che un popolo è prigioniero di una politica omicidiaria di massa, di una pulizia etnica, altrimenti detta molto più veritieramente “genocidio” (termine impronunciabile e non scrivibile nei documenti della UE), ma il governo di Netanyahu non viene sanzionato in nessun modo.
Dov’è la solidarietà tra le nazioni? Dov’è questa grande Europa dei popoli che viene magnificata da quella che è invece preda dei banchieri e della logica del capitale a tutto spiano? Nel momento in cui la competizione multipolare si fa strada sulla scia delle guerre regionali, l’Unione non ha il coraggio di rinunciare ad una parte dei propri interessi particolari nel nome di quei diritti umani che dice, sempre e soltanto a parole, di voler proteggere perché sono nel suo DNA, nel suo atto fondativo che dovrebbe essere il contrario del sostegno alle guerre di aggressione e di sterminio.
Nemmeno un nazionalista come il generale De Gaulle oggi sarebbe probabilmente d’accordo con la virata a destra della Commissione UE e del suo Consiglio. Si fa sentire solo, in dissenso, la voce della Spagna di Pedro Sánchez che, proprio perché isolata, viene subito tacciata di tradimento dall’imperatore americano che minaccia dazi speciali esclusivamente per Madrid. Eccola qui la cifra della violenza. Sempre e soltanto quella. L’unico linguaggio che il governo americano del MAGA conosce e capisce. Se la guerra in Ucraina aveva già mandato nel panico la fragile unità della politica estera europea, quella contro Gaza ha sovvertito ogni schema.
Perché, è la tesi di coloro che sostengono la doppiezza di comportamento, il cosiddetto “doppio standard“, le sanzioni alla Russia sono sacrosante dal momento in cui ci troviamo davanti ad una pericolosa autocrazia, ad una aggressione di uno Stato nei confronti di un altro Stato. Mentre nel caso di Israele abbiamo a che fare con l’unica democrazia mediorientale e con i fatti del 7 ottobre 2023: quindi c’è un presupposto, c’è un’origine scatenante che, ormai è sotto gli occhi davvero anche di chi non ha mai voluto vedere e ha negato persino la luce del sole, da due anni quasi a questa parte è sbiadito innanzi alla totale distruzione di Gaza.
Non sarà una questione gretta di cifre, perché ogni vita merita di essere rispettata, perché anche un solo morto è troppo, ma cinquantamila palestinesi assassinati dalle missili e dalle bombe israeliane, oltre a più di centocinquantamila feriti gravi, marcano una distanza davvero anni luce dalla tremenda, tragica strage compiuta dai terroristi di Hamas. L’Europa solo ora, così come Giorgia Meloni, si accorge che “forse” la reazione israeliana sta assumendo un carattere di sproporzione! Meglio tardi che mai. Purtroppo si tratta di una constatazione cui non fanno seguito i fatti.
Ed i fatti sarebbero: la rottura di ogni rapporto commerciale con lo Stato ebraico, la condanna apertis verbis dei crimini contro l’umanità e di guerra perpetrati da Netanyahu e dal suo governo, la formulazione di sanzioni simili a quelle imposte alla Russia. Niente di tutto questo. Si rimanda e, giustamente, paesi più progressisti come Spagna e Irlanda, con anche Slovenia e Danimarca, avvertono: se il Consiglio europeo non vuole agire contro il governo israeliano, toccherà ad ogni singolo Stato dell’Unione regolarsi come meglio crede. Tradotto: la UE non tratta i diritti umani ugualmente per tutti. Si distingue a seconda degli interessi economici e finanziari.
Non di meno, naturalmente, visto che stiamo trattando di guerra, badando a quelli delle grandi aziende che producono armi e che le vendono a Tel Aviv, così come a tanti altri Stati che fanno le guerre contro i propri o altri popoli. Non c’è morale che tenga, non c’è carta fondativa che abbia valore. Le costituzioni sono carta straccia se messe a confronto con lo strapotere imperiale di questo o quell’agglomerato di paesi che intende avere il suo posto nel complesso risiko mondiale. Prova ne è la remissività di von der Leyen nei confronti della NATO e dell’ormai famoso 5% di spesa militare (pardon… “per la difesa“…).
Il Consiglio europeo non muove una critica, un anche blando rilievo. Non uno. Si acquisisce ciò che venuto fuori dal consesso dell’Aja, sic et simpliciter. L’ordine liberal-liberista occidentale è, in fondo, alla base del consolidamento tanto della presunta Europa che dovrebbe marcare le distanze da Trump (ma, come abbiamo appena rilevato, non le marca affatto…), quanto del Make America Great Again. Per la strategia statunitense anche questa impostazione subalterna della UE, questa remissività persino ridondante, è utile all’affermazione di una rotta sempre più conservatrice delle direttive di politica economica e di gestione del dissenso sociale e civile.
La Storia, piano piano, secolo dopo secolo, si è capovolta. L’Europa, che aveva conquistato il mondo, che era definibile come la “madre dell’America” moderna (la cui evoluzione si fonda sul genocidio dei nativi e su una spietata guerra civile), è divenuta, certamente non da oggi, ma almeno a far data dalla fine della Seconda guerra mondiale, un avamposto della grande Repubblica stellata. Un tempo criticabile contraddizione tra elogio della sua democrazia e dominio imperiale su vasta parte del pianeta; oggi nemmeno più quello.
L’autocrazia è una delle liberticide linee di decomposizione proprio della liberalità dei regimi statali improntati sulla scia dell’Illuminismo. L’imperialismo americano si rinnova oggi in una fase in cui l’economia è preda, da parecchi decenni, di una deregolamentazione spietata. La finanziarizzazione ha scardinato ogni certezza nei bilanci statali e ha, sostanzialmente, dato adito ad un caos in cui la variabilità delle regole è la costante. Questo avviene quando il potere politico si rende conto di essere in balia di eventi più grandi di lui e viene trascinato dalle nuove correnti del mercato.
La struttura, del resto, è la base su cui poggiano le sovrastrutture per l’appunto statali, politiche, civili e sociali. La stessa globalizzazione, che noi sovente appelliamo aggettivandola come “capitalistica“, in realtà è un prodotto sì del capitalismo, ma sfugge alle dinamiche della politica e finisce con il coincidere con i tempi di un mercato moderno in cui il sistema dell’Occidente si è sempre riconosciuto, stabilizzato e che oggi perde completamente la bussola. La reazione prima è l’autarchia a stelle e strisce, il riflusso trumpiano e il disordine globale è servito. In questo caos, fatto di chiaroscuri gramsciani, effettivamente nascono i mostri.
Sono i nuovi pseudo-sovranisti e patrioti che mettono davanti ad ogni altro problema la riconoscibilità di sé stessi come nuovi corifei della modernità, sapendo bene che il disagio sociale aumenta ed aumenterà ancora. Il tentativo di mitigare la crisi dell’ordine globale, così come lo si era conosciuto fino a pochi decenni fa, è stato fatto forse con la ricetta keynesiana dello Stato che interviene con misure di sostegno alla domanda aggregata qualora questa si dimostri apertamente insufficiente nel poter garantire la piena occupazione o la crescita che si è stabilita.
Non ha funzionato granché: l’economia sociale perde terreno e lascia il passo, infatti, a quella di guerra. Se rassicuri pienamente i mercati è ancora presto per dirlo. Ma di sicuro li mette al riparo, per il momento, da contorsioni anticapitalistiche che potrebbero sorgere come processo inevitabile di rivalsa delle classi più disagiate e deboli, fiaccate prima dalla pandemia e ora dal multipolarismo di guerra. L’Europa avrebbe potuto avere anche un ruolo duplice in questo contesto: cercare una pace sociale che si innestasse sul compromesso tra un aumento della spesa per il mondo del lavoro e una tutela dei capitali più esposti.
Invece ha scelto di investire tutto sul fronte privato, iperliberista, filoatlantico e neoimperiale. Ha scelto una economia di guerra e oggi, quando non è completamente prona ai dettami della NATO e dell’imperatore americano, o impaurita dalle reazioni della grande finanza mondiale per eventuali sanzioni ad Israele, si mostra persino remissiva sul fronte della democrazia interna, della tutela dei diritti civili ed umani, accogliendo le proposte xenofobe dell’estrema destra: von der Leyen pare disposta a tutto pur di rimanere al timone del sandolino vecchiocontinentale.
Questa pochezza può essere, se non il funerale dell’Unione, sicuramente l’inizio di una decadenza che potrà essere per qualche tempo mitigata dall’afferenza con l’Alleanza atlantica e con una parte delle teorizzazioni trumpiane, ma che prima o poi verrà prepotentemente a chiedere il conto di tutta una miserabile, vigliacca e indecente incoerenza tra i valori fondativi dell’Europa e la sua attuale triste, inquietante maschera carnascialesca.
MARCO SFERINI
27 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria