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Marco Sferini

Un’altra prova di incostituzionalità del governo Meloni

C’è un risvolto tutt’altro che secondario tra le pieghe della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul pasticciaccio brutto delle deportazioni dei migranti dall’Italia all’Albania: precisamente si tratta dell’accusa che il governo Meloni fa alla magistratura continentale (ed anche a quella nazionale) di interferire nel processo democratico di applicazione del diritto, di sostanziazione pratica delle leggi fatte da parlamenti – per essere sinceri – che contano sempre meno e che rispondo ad interessi cui gli esecutivi fanno da guardiani del barile.

È poi vera, quindi, questa storia che i giudici farebbero politica e che, oggi, in presenza di un governo di destra-destra che una ne fa male e cento ne pensa altrettanto male, si darebbero alla pazza gioia nel costituirsi come una lega vendicatrice della democrazia violata, della Costituzione vituperata e vilipesa? Non è una argomentazione nuova: fu uno dei principali leit motiv del berlusconismo d’antan: addirittura il Cavaliere nero di Arcore sosteneva, nei suoi focosi interventi alle Camere, che i giudici se volevano giudicare dovevano farsi eleggere, proprio come aveva fatto lui.

Quindi l’investitura popolare avrebbe dato al governo (piuttosto che al Parlamento, l’organo veramente eletto!) un surplus di rappresentanza, di delega da parte della nazione e, quindi, gli avrebbe attribuito il diritto-dovere di regnare sugli altri poteri dello Stato, fatto salvo il Quirinale visto come un fortilizio prima o poi da espugnare per creare le premesse di un presidenzialismo che, oggi, Giorgia Meloni declina nell’unicum mondiale del premierato. Perciò, è abbastanza evidente che il problema, come Willy Signori, viene da lontano e che non potrà risolversi facilmente se non con un cambio di cultura da parte della politica italiana.

Il tema dell’influenza della magistratura nella vita politica italiana può anche essere posto su un piano critico: domandarsi se e come le sentenze, così come le indagini (che sono pur sempre inquisizioni), possano condizionare le libertà di azione degli altri poteri costituzionali è lecito e, forse, anche opportuno. Perché, di per sé, i giudici non sono infallibili e, soprattutto, non sono esenti da condizionamenti e influenze: possono essere corruttibili e possono essere utilizzati per scopi che trascendono il loro ruolo.

Possono essere usati, dunque, ma possono anche abusare delle loro prerogative, così come ogni altro corpo dello Stato. Prendiamo il caso del tetto degli stipendi pubblici: fino a pochi giorni fa, prima che la Corte Costituzionale lo abolisse, questo non poteva superare i 255.000 euro lordi annui. Ciò riguardava esplicitamente tutti i dipendenti dello Stato. Quindi anche i giudici della Consulta. La misura era temporanea, prorogata di volta in volta, di anno in anno per undici volte. Ai supremi giudici è parso che ciò contrastasse con la temporaneità della norma e, quindi, hanno abolito il tetto predetto.

Siccome riguardava anche loro si potrebbe affermare che sussiste un certo conflitto di interessi nel merito, ma è pure vero che i magistrati hanno il dovere, l’obbligo di rispondere alle loro funzioni e quindi, anche in questo caso, hanno dovuto decidere, nonostante la sentenza li riguardasse in prima persona. Del resto, anche il governo, nel momento in cui esercita il suo potere, decidendo politicamente come gestire la vita del Paese, non è mica scevro da conflitti di interessi. Molto più dei magistrati, presidenti del Consiglio, ministri e sottosegretari sono i protagonisti, si può dire tranquillamente nella Storia d’Italia, dei più grandi scandali che riguardano commistioni di interessi privati e pubblici.

Ciò non toglie che i poteri dello Stato possano intralciarsi a vicenda e che, in questi casi, lo facciano anche volutamente: in ragione di ciò, è giusta la critica; ma, spesso, soprattutto da parte della magistratura, si tratta di necessità che alla politica paiono invasioni di campo perché determinano la sospensione o il decadimento di normative che erano espressione di programmi di coalizione e di governo e che, magari, andavano a salvaguardare questo piuttosto che quell’interesse. I giudici, soggetti soltanto alla Legge, non possono – per antonomasia – rispondere ad altro se non al diritto, all’insieme delle norme e alla Costituzione.

Se una indagine o una decisione contrasta con quello che il governo aveva stabilito, è quest’ultimo che deve prenderne atto, domandandosi anzitutto dove ha sbagliato, visto che ha infranto delle normative e, nel caso qui in questione, quelle europee sul diritto di asilo, sulle migrazioni che non comprendono le deportazioni di persone dal territorio italiano a quello albanese. Meloni e i suoi ministri hanno agito forzando, con le loro disposizioni, il contesto già presente delle leggi e lo hanno fatto scientemente per creare dei presupposti capaci di allargare ancora di più le falle che avevano stavano creando.

L’accusa che il governo delle destre rivolte alla Corte del Lussemburgo, sostanzialmente di aver prodotto una sentenza politica, è la tipica rivalsa di chi sa di aver fatto non una normativa per la tutela della vita delle persone, ma per obbedire ai princìpi di esclusivismo, di pregiudizializzazione e di ineguaglianza dei trattamenti tra italiani e non italiani. Non c’è un atto del governo italiano che sia ispirato sinceramente alla voglia della condivisione sui valori costituzionali di solidarietà e uguaglianza civile, sociale, morale. Tutto viene fatto pensando alla particolarità del privilegio: sia economico per certe fasce di popolazione, sia per origine etnica o culturale.

La rimodulazione del patto europeo sulle migrazioni (calendarizzata per il giugno del 2026) potrebbe scavalcare il dettame della Corte europea? Potrebbe, certo. Ma è pur vero che l’ampiezza della decisione, che smonta completamente ciò che il governo Meloni riteneva perfettamente incasellato nel diritto tanto nazionale quanto continentale, è tale da essere difficilmente superabile se non affermando che bisogna rimettere mano ai valori fondanti la UE in tema di rispetto dei fondamentali presupposti di dignità della persona, del cittadino anche non comunitario.

L’affermazione ricorrente sulla magistratura che interferisce sul terreno politico e, quindi, impedisce l’agibilità delle prerogative dei governi (come della Commissione europea, si intende…) mira a negare il presupposto fondamentale che sta nella terzietà del ruolo giudicante: i magistrati hanno il dovere di vigilare sul rispetto delle regole e non possono deflettere da questo compito. Là dove questa terzietà, non solo tra le parti in causa, ma tra i poteri che vorrebbero comprimerla, venisse meno, si avrebbe quello che, in fondo, la destra sogna da sempre: il controllo del processo, il controllo della pubblica accusa, il controllo del magistrato non solo inquirente ma anche giudicante.

Prova ne è la riforma della giustizia di Nordio, le continue ostilità manifeste nei confronti di una libertà di indagine che viene messa invece sotto la lente di ingrandimento dell’esecutivo che pretende di limitare molto il perimetro di competenza dei magistrati e i mezzi messi a loro disposizione per poter indagare e valutare nella piena completezza del reperimento delle informazioni e delle prove. Caso mai ve ne fosse bisogno, la sentenza del Lussemburgo prova che non è ancora il tempo per ritenere, come fa invece il governo Meloni, che sia tutto possibile per un esecutivo: come un princeps legibus solutus.

Il miraggio per Giorgia Meloni e Matteo Salvini è l’oasi delle libertà, un Paese in cui è lecito agire nel senso di un interesse che riguardi particolari categorie di persone e cittadini piuttosto che altre. Per preservare il potere che oggi hanno fanno questo, compiacendo gran parte del loro eterogeneo elettorato, e sono pronti a fare anche altro. Il carattere eversivo di questo governo deve poter essere visto e vissuto per quello che è: un pericolo per l’Italia democratica e costituzionale. Tutto questo lo si può affermare prescindendo persino dalle singole politiche che mettono in essere.

Perché la linea di fondo cui si rifanno è un autoritarismo mascherato da democrazia disposta ad essere tale solo a determinate condizioni: non quelle che concernono il pubblico interesse, ma quelle che riguardano le esclusività che sono proprie del peggiore conservatorismo reazionario. La posta in gioco è altissima e non riguarda solamente una decisione magistratuale su dispositivi governativi che contraddicono i più elementari diritti umani e le leggi tanto italiane quanto europee. I giudici continentali fanno presente con la loro sentenza che c’è stata una volontà manifesta di andare in quella direzione disumana.

Quindi non si tratta di inadempienza con un dolo che è oggettivo, di inosservanza voluta delle norme e di un tentativo di limitare il diritto dei giudici italiani di agire nel rispetto delle loro piene competenze. Secondo il governo Meloni il progetto dei centri di deportazione dei migranti in Albania avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello della politica di contenimento degli sbarchi. Il tutto col corredo dei colpevoli consociativismi politici con gli Stati africani che tollerano, perché vi traggono profitti economici e di tenuta politica, la tratta neoschiavistica dei migranti dal Sahel fino alle coste europee.

Invece tutto questo si è rivelato un disastro clamoroso, un fallimento su tutti i fronti: nella gestione dei centri come nel rapporto con le leggi, col diritto, con gli altri poteri dello Stato cui un governo deve delle spiegazioni. Il Parlamento e la Magistratura. Non parliamo della coscienza, visto che chi opera in questo modo sembra davvero esserne piuttosto carente. Parliamo di un rispetto dell’equipollenza dei poteri, del ruolo dell’esecutivo entro i cardini costituzionali veri e non solo vagheggiati nei toni comiziali o nelle interviste a favore di telecamera.

Questo fallimento è l’ennesima cartina di tornasole della disumanità di un governo che ha fatto tanti danni, materiali e morali ad un’Italia che invece avrebbe bisogno di più cultura della coesione, della compenetrazione delle idee, di interazione dei diritti sociali, civili e umani. L’esatto contrario del programma delle destre: esclusivismo, primazia etnocentrica di una italianità scoperta dagli ex padanisti relativamente tardi, privilegio dei privilegiati, attacco costante alle fasce più deboli e indigenti della popolazione.

Rismontare tutto e riportare la Repubblica ad un dignitoso vivere complessivo sarà molto dura e sarà un lavoro di lunghissima lena che solo una coalizione veramente progressista potrà fare: partendo dal lavoro, dalla giustizia sociale e dalla pace disarmante come bussola di una nuova, costituzionalissima, politica estera.

MARCO SFERINI

2 agosto 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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