Una sinistra inefficace e inefficiente davanti al pericolo governativo

Enrico Berlinguer, più che intuire, comprese pienamente che, dopo i fatti del Cile nel settembre del 1973 e dopo una sequela di poco rassicuranti rivelazioni sulla tenuta della democrazia...

Enrico Berlinguer, più che intuire, comprese pienamente che, dopo i fatti del Cile nel settembre del 1973 e dopo una sequela di poco rassicuranti rivelazioni sulla tenuta della democrazia in Italia, era necessario mettere un argine ad eventuali, probabili tentativi di eversione antidemocratica che avrebbero avuto, inevitabilmente, una ripercussione violenta nei confronti del mondo del lavoro, della scuola e dell’università. Mettere un grande partito come il PCI a disposizione della salvaguardia della costituzionalità, della preservazione della Repubblica come patto fondante resistente, laico e sociale, significava coniugare l’autonomia delle scelte su singole questioni nazionali con una necessaria ricerca dell’unità delle forze antifasciste.

Mezzo secolo dopo non ci troviamo, almeno così sembra, in presenza di tentativi di colpi di Stato, di trame nere, di eversioni di vario tipo, natura e colore. Ma davvero possiamo pensare di essere tanto lontani dalle minacce alla tenuta democratica del nostro Paese? In un clima generale di economia di guerra, con l’allarme permanente lanciato dalle destre postfasciste e populiste sui pericoli di invasione da parte dei migranti che sfuggono ai morsi della fame e alle guerre omicidiarie che dilagano nell’Africa abbandonata ai suoi conflitti più reconditi e pluridecennali; in un contesto di instabilità globale influenzata pesantemente dai mutamenti climatici, con un revanchismo iperconservatore e ultraliberista al di qua e al di là dell’Oceano atlantico, sarà lecito avere ancora qualche timore in merito?

Può una sinistra di alternativa, modernamente intesa come tale, quindi consapevole di essere terza rispetto, ovviamente, alle destre, così come al centro e ad una sinistra moderata sempre pronta a condiscendere ai dettami del capitale, avere oggi la capacità berlingueriana di comprendere a fondo i cardini su cui si regge la ristrutturazione globale e su cui verte il mutamento concreto dei rapporti di forza tanto in Europa quanto in Italia? Possiamo essere così miopi da non renderci conto che la vicenda Almasry e, ora, quella inerente i giornalisti e gli attivisti delle ONG come Mediterranea spiati illegalmente con programmi destinati esclusivamente ai governi amici di Israele, sono la cartina di tornasole di una involuzione antidemocratica, illiberale e antisociale per l’Italia intera?

Abbiamo il diritto, nel nome della purezza ideologica, dell’imperturbabilità delle nostre elevate coscienze politiche, di minimizzare queste vicende e rubricarle ad accidenti contestuali alla nuova fase del multipolarismo che esige una sempre maggiore concorrenzialità merceologica, nuove strategie imperialiste e, quindi, anche il controllo sempre maggiore da parte degli Stati e dei governi sulle attività di tutti quei soggetti che sono critici nei confronti del sistema liberista e dei suoi corifei istituzionali? Abbiamo questo diritto? Possiamo assumerci la responsabilità di delegare ad altre forze politiche il compito di fronteggiare, spesso sulla base di una critica molto meno efficace di quella che noi comunisti potremmo esercitare, tutto questo senza un anche minimo apporto della sinistra di alternativa?

Non ci vogliono? Non ci considerano? Questo è anche probabile. Ma lo è sempre e soltanto nella misura in cui noi ci mettiamo, almeno per parte nostra, lì dove la dipendenza dalla nostra volontà è più che oggettiva, nella condizione di una irrilevanza che cortocircuita su sé stessa, che non esce dal circolo vizioso di una rappresentazione della lotta sociale e politica come della costruzione di un terzo polo che non ha nessuno spazio in quel bipolarismo che va, non c’è dubbio, scardinato. Ma per potersi trasformare in cuneo scardinatore serve una premessa di ordine generale che, anzitutto, parta dalla considerazione della nostra inefficacia: comunicativa e interattiva nei confronti del mondo del lavoro. Il che vuol dire confrontarsi con la disperazione giornaliera di un pauperismo incedente e, per questo, indecente.

Il governo Meloni non è solamente un blocco politico conservatore e retrivo capace di assecondare al meglio, almeno in questa fase storica, le necessità del padronato, della grande impresa e dell’alta finanza che investono in Italia, che si rapportano con vecchie e nuove polarizzazioni del capitale nell’intero pianeta. Nel corso di questi ultimi tre anni ha lavorato alla sostanziazione di una alternativa antropologica poggiante su una narrazione dei fatti del tutto alternativa a quella ispirata ai valori della Costituzione della Repubblica: quindi tanto della laicità dello Stato quanto dell’indipendenza dei poteri che lo riguardano e dell’equipollenza degli e tra gli stessi. Ha descritto l’opposizione come una sopportabilità a tratti intollerabile per un governo efficiente del Paese. Ha regalato e propalato alla popolazione l’idea che per essere concreti occorre sbarazzarsi degli armamentari ideologici del passato.

Ha quindi creato tutte le premesse utili per una riproposizione del melonismo oltre sé stesso, ben al di là del quinquennio di legislatura che si è preso col voto del settembre 2022 e che, nonostante tutti gli scandali piccoli o grandi, gli inciampi e le goffaggini da inebriamento del potere da parte di singoli ministri, regge e impara dai suoi errori. Ne commette sempre dei nuovi ma, pure in presenza del disvelamento delle chattate private tra alti membri della maggioranza che insultano questo o quell’altro esponente della stessa, nell’attimo immediatamente dopo si ricompatta e mostra una capacità – come si usa dire oggi – di resilienza davvero notevole. È una modernissima traduzione della vecchia realpolitik che si lascia scivolare addosso scandali di ogni tipo, sapendo di poter reggere grazie ai numeri parlamentari.

Ma, soprattutto, grazie ad una reale assenza di costruzione di un fronte progressista alternativo in tutta Italia: a cominciare da quello delle opposizioni politiche, dei partiti, dei movimenti e dei comitati che non trovano una quadra minima in quel denominatore comune che dovrebbe essere, premessa imprescindibile per un recupero alla Repubblica delle sue più forti pietre angolari democratiche, sociali, civili e morali, il rispetto tanto dei diritti a tutto tondo. A cominciare da quelli umani per proseguire con quelli propri della libera espressione di ciascuno e di tutti entro un contesto di ripresa di politiche che guardino ad una giustizia sociale che abbia nell’abolizione delle leggi che perseguitano i lavoratori, i precari e i disoccupati il primo punto all’ordine del giorno di un nuovo programma di governo.

Non è facile per chi, con una certa benevola ostinazione, oggi si colloca ancora nel comunismo come “movimento reale” che vuole oltrepassare lo stato di cose presente, guardare all’unità delle forze progressiste con un più che sufficiente ottimismo. C’è l’istintiva tendenza a voltarsi indietro per evitare il ripetere gli errori fatti e rifatti, che non sono proprio cosa da nulla ma hanno rappresentato delle svolte antisociali di grande conto: privatizzazioni, precarizzazioni, Jobs act, tagli della spesa pubblica in ogni direzione. Il tutto nel nome di quelle compatibilità generali che il mercato pretende anche, e soprattutto, dalle forze progressiste per asservirle nella logica del governismo a tutti i costi e farne dei lacchè di pregio. Che la destra sia lo scendiletto delle classi dirigenti sta nell’ordine naturale della sua essenza, della voglia di un potere che è fine a sé stesso. Ma che lo abbia fatto anche la sinistra è quanto meno disdicevole.

Il capitalismo vince proprio così: seducendo i moderati con la teorizzazione della necessità del servilismo di Stato nei confronti di una economia mostrata come ineluttabile. Praticamente un dato di fatto, una realtà contro cui non si può fare nessuna rivoluzione perché il pragmatismo non la tollera, perché è quasi una bambinesca, puerile infatuazione giovanile di chissà quanti comunisti e anticapitalisti. Lasciamogli sognare un mondo che non avranno mai! Accontentiamoci delle briciole riformiste e di un miglioramento delle condizioni sociali pur entro il capitalismo immutabile, immarcescibile. Ma i limiti del sistema sono sotto gli occhi di tutti. Potrà forse ancora trascinarsi per un secolo… nonostante il cambiamento climatico, ma sarà poi costretto a scendere, se non a patti con forze rivoluzionarie, con sé stesso.

La crisi verticale del capitalismo è, prima di tutto, crisi ambientale: non riesce ad essere vivo e vivibile nel contesto globale di una natura che non è impazzita, ma che reagisce soltanto alle violenze che le si fanno, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Nel governo Meloni, oltre a tutto l’armamentario di antisocialità, omofobia, xenofobia e antidemocraticità reperibile, vi è anche una certa dose di negazionismo del cambiamento climatico. Buon peso. E di fronte a tutto questo, la sinistra di alternativa in Italia che cosa fa? Discute se la strategia degli ultimi decenni è ancora valida o meno, se va cambiata, se ci si deve adeguare ai tempi oppure andare avanti come se nulla fosse successo. Si intende: nel nome della coerenza senza se e senza ma.

Provare a fare fronte comune, cercare accordi per limitare prima i danni di queste destre e poi magari mandarle via da Palazzo Chigi, è tradire i princìpi rivoluzionari. Uno i princìpi rivoluzionari li può tradire se c’è una rivoluzione concretizzabile o se è in corso. Ma chiudersi al confronto, non tentare un dialogo con il mondo progressista italiano è per i comunisti un autoimprigionarsi nelle segrete di un settarismo incolore, inodore, insapore che, alla fine, risulta – infatti – invisibile ai più. Al nostro stesso popolo di riferimento: quella che chiamavano “classe operaia“, distinguendola dalla borghesia, e che oggi, più latamente, possiamo definire come classe degli sfruttati includendovi davvero tutti coloro che solo salariati da altri o che lo sono da sé stessi (il popolo delle partite IVA…) e che sono imprenditori del nulla.

Non è solo il governo Meloni, come pericolo impellente della tenuta democratica, sociale e civile dell’Italia di oggi, ad essere la ragione prima di una unità nella diversità, di una convergenza nelle divergenze delle forze di sinistra, ecologiste, di progresso, libertarie e antifasciste. Il quadro più generale di una globalizzazione che esige l’aumento delle spese militari a discapito di quelle sociali, l’economia imperialista di guerra, i conflitti che si ampliano, gli scontri di civiltà e l’etnocentrismo come nuovo pilastro culturale del moderno razzismo di massa, dovrebbe essere la spinta propulsiva aggiornata di una sinistra in grado di reagire al torpore tanto della frustrazione del ruolo di opposizione quanto alla tentazione neosettaria di ficcarsi nell’angolo dell’imperturbabilità coerente delle proprie posizioni.

Bisogna battere queste due malevole tentazioni: rialzarsi soltanto per andare al governo e farlo per proporre una opzione di mera coerenza ideale e di nessuna praticabilità concreta qui ed ora. Bisogna abbandonare moderatismo ed estremismo nel nome di un principio giacobino di “salute pubblica“, di salvezza del principio di bene comune, di tutela del sociale e del civile, del morale e del culturale. Di un insieme di dinamiche oggi alterate da una dicotomia evidente tra impianto democratico e antifascista dell’Italia costituzionale e potere di comando di un governo di destra che nulla ha a che vedere con l’essenza della Repubblica, con l’Italia laica, solidale ed inclusiva.

Questa è una critica propositiva. Almeno tenta di esserlo. Non ho la soluzione a portata di mano per mettere allo stesso tavolo sinistra moderata e di alternativa, ecologisti di vario tipo, libertari, radicali, atei, agnostici, credenti che confidano comunque anche nella Costituzione e nel Paese riconoscibile, nonostante tutti gli errori, nel suo essere divenuto sufficientemente resistente da non permettere, di punto e in bianco, alle destre postfasciste di capovolgere di netto tutto il lavoro fatto dal 1946 in avanti. Il lavoro tanto di una parte della classe borghese quanto di tutta quella operaia e del vasto mondo del lavoro e della scuola, della conoscenza e della scienza. La sinistra si rifaccia interprete di questo patrimonio e avrà ancora una possibilità di interconnettersi col moderno proletariato e farsi interprete delle sue esigenze.

MARCO SFERINI

7 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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