Una sconfitta netta. Ma c’è un lascito a cui guardare…

Dopo referendum. Il 70% di astensionismo ha vinto e, quindi, ha sostanzialmente perduto la ragione democratica della consultazione e il suo potenziale di espressione diretta della popolazione, ancora più...

Dopo referendum. Il 70% di astensionismo ha vinto e, quindi, ha sostanzialmente perduto la ragione democratica della consultazione e il suo potenziale di espressione diretta della popolazione, ancora più diretta del voto politico (visto che non c’è delega nei confronti di nessuno, ma solo una decisione di massa su un quesito preciso); il 30% dei votanti ha perso e, dunque, oltre tredici milioni di voti finiscono nell’irrilevanza più completa.

Si possono fare mille considerazioni sull’esito di questo voto che, per paradosso, è un quasi-plebiscito al contrario perché lo rappresenta una assenza, una mancanza, un vuoto, una disaffezione di lungo corso nei confronti delle elezioni e delle istituzioni che si somma, in questo caso, all’indicazione data dalle destre di disertare le urne. Totò diceva che è la somma che fa il totale. Caro ragioniere! Bisognerà prima o poi evincersene.

Se il quorum fosse stato raggiunto, i SÌ avrebbero prevalso nell’eguale misura, in un rapporto di otto a uno sui NO per quanto riguarda il lavoro, di sei a tre per quanto concerne invece la domanda sull’accorciamento dei tempi per l’ottenimento della cittadinanza. Ma il quorum è stato molto ben lontano dal poter anche solo essere avvistato. Le ragioni sono tante e possiamo, come sempre si fa ad ogni tornata elettorale, metterle in fila per scoprire che il Paese è in grande sofferenza.

Una sofferenza sociale, cui i referendum tentavano di dare un qualche lenitivo sul piano della precarizzazione facile facile, del dramma dei morti sul lavoro e, quindi, modificando norme che riguardavano la sicurezza; nel merito dei licenziamenti fin troppo disinvolti da parte degli imprenditori, senza alcuna giusta causa, per passare agli indennizzi ridicoli che vengono dati oggi… Ma sembra che il popolo italiano non abbia colto questo messaggio.

Mentre il quesito sulla cittadinanza, che ha destato molto più dibattito rispetto agli altri quattro sul lavoro, pur non essendo stato oggetto di maggiore partecipazione popolare alle urne, è stato più combattuto nelle urne stesse. Si può pensare che una parte del popolo della destra sia andato a votare e abbia votato NO. Ma è più probabile che, invece, una gran parte del popolo progressista, per la precisione circa tre milioni, abbia in questo caso pensato che non era il caso.

Non era il caso di accorciare i tempi con cui si può dare ad uno “straniero” la cittadinanza italiana, pur in presenza di una serie di requisiti che moltissimi italiani farebbero fatica a soddisfare oggi (primo fra tutti la buona conoscenza della loro madre lingua!) se fossero chiamati ad un esame del genere per essere completamente considerabili come italiani. La questione culturale non va sottovalutata. Eppure non riesce spesso a fare capolino nelle discussioni e nelle analisi giornalistiche.

Non si tratta soltanto dell’importante problema della comunicazione, della chiarezza, della comprensione dei complessi tecnicismi che, ad esempio, il quesito referendario pone. Si tratta di un fattore molto più dirimente e profondo, dai tratti sociologici e antropologici: c’è una regressione in questi termini che, come è facile vedere, proviene da decenni di destrutturazione della scuola della Repubblica, a vantaggio delle variabili del privato tanto sul piano della concorrenza scolastica quanto su quello dell’introduzione nel mercato del lavoro.

Contribuisce a questo neopauperismo intellettivo (prima ancora che intellettuale) una pigrizia mentale che è data dalla quantità di notizie superficiali che, date a valanga ogni giorno da televisioni e soprattutto dai social, sono un vero fiume in piena che scorre velocissimo. Approfondire vuol dire, ormai, perdere del tempo nella competizione internettiana dell’essere protagonisti con centomila likes al giorno, prendendo e riprendendo meme che, il più delle volte, sono degli acchiappaclic.

I giornali online non sono da meno: buttano nella rete una tale caterva di sensazionalismi che eccitano il presunto lettore che vuole solo essere sorpreso, colpito dalla notizia e che non vuole stare lì a perdere tempo per “sapere”, ma vuole avere qualcosa da rimaneggiare per ributtarlo a casaccio sui propri canali, le proprie pagine, i propri profili. Ecco servito il tam tam della disinformazione perfetta. Per cui se la destra afferma che la cittadinanza non si può “regalare” così facilmente, tutti (o quasi) alla fine ci credono.

Pochi (per l’appunto trenta su cento) si prendono la briga di informarsi di più, di cercare le ragioni uguali e contrarie dei quesiti per capire come votare. Il voto, così, diventa una ritualità che, come tutte, alla fine stanca: la democrazia appare come un insieme farraginoso di processi formali che, in sostanza, non incidono poi più di tanto nel mutamento delle condizioni sociali. A partire proprio dalle lavoratrici e dai lavoratori.

I dati dell’ISTAT ci dicono che a febbraio gli occupati in questo disgraziato Paese erano 24 milioni e 300 mila circa. Dipendenti e autonomi, tutti compresi e così suddivisi: 16.450.000 contratti permanenti, 2.710.000 contratti a termine e circa 5 milioni di lavoratori non dipendenti. Qualcuno, banalizzando, afferma: se avessero votato tutti… Sarebbe stato appena sufficiente per oltrepassare il quorum (gli aventi diritto al voto erano a ieri: 45.997.941).

Un voto importante avrebbe dovuto riguardare non solo il mondo del lavoro ma anche quello della scuola, degli atenei, dei pensionati… Siamo molto, molto lontani ormai dall’idea di democrazia che si aveva quando votava il 93% dell’elettorato. Qui si innesta la diatriba sul senso o non-senso del quorum oggi. Effettivamente non ha più molto senso una soglia di validità del voto referendario abrogativo al 50%+1 dei voti quando a votare va appena il 55/60% degli aventi diritto.

Pure è vero che, eliminando ogni soglia, qualunque quesito potrebbe essere approvato o cassato con molta facilità e, quindi, si porrebbe la questione della strumentalizzazione delle posizioni in campo. La non partecipazione al voto è legittima se è consapevolmente esercitata. Purtroppo rischia di essere inquinata da fattori esogeni che finiscono per riguardarla direttamente: tra questi, il primo posto spetta al populismo e al qualunquismo che manipola la rabbia popolare (le destre sono maestre in questo).

Lo si vede con grande chiarezza nei risultati del quinto quesito sulla cittadinanza: oltre tre milioni di italiani assumono una postura reazionaria, conservatrice, dai presupposti razzistici nel momento in cui passano dal considerare l’interesse proprio e di tutti riguardo al lavoro al presupposto di essere cittadini tutti quanti, senza distinzione alcuna, dopo aver soddisfatto comunque i requisiti di cui si faceva cenno poco sopra.

Questo accade anche perché la componente cinquestellina del voto, che ha seguito il partito personale di Conte, proviene non da una storia politica consolidata, bensì da un continuo galleggiamento vivacchiante del M5S che è passato da posizioni di destra estrema (i decreti approvati nel primo governo con la Lega di Salvini) a posizioni progressiste (nel Conte II). Un trasformismo davvero sorprendente. Noi lo accettiamo per convenienza, ma non si può dire che i Cinquestelle posseggano veramente una “cultura” politica sociale.

Se i cinque quesiti sono naufragati, dice qualcuno, è colpa del fatto che sinistra e sindacato (ossia la CGIL) oggi vogliono abrogare norme che hanno fatto o sostenuto in precedenza. Nessuno ha mai negato che il PD abbia prodotto alcune tra le peggiori leggi in materia di regolamentazione del mondo del lavoro. Per l’appunto il Jobs Act renziano che, nelle urne, comunque viene difeso da circa un milione e mezzo di elettori, pari a percentuali che oscillano dal 10 al 12%.

Questa contraddizione riguarderebbe, a detta di una parte della sinistra più intransigentemente pseudo-rivoluzionaria e supercomunista, in particolare il sindacato di Landini che, non solo oggi avrebbe sbagliato il mezzo con cui far valere i diritti di chi lavora e di chi è precarissimo sul lavoro, ma che avrebbe in passato dato poco da fare ai governi cosiddetti “amici“, di centrosinistra o tecnici. Va ricordato che la CGIL si è sempre opposta al Jobs Act, così come alla Riforma Fornero.

Dal 2011 in poi sono stati fatti: tre scioperi generali sotto Monti, tre manifestazioni e uno sciopero generale sotto Letta, uno sciopero generale e la raccolta di firme per abolire il Jobs Act proprio sotto il governo di Renzi e manifestazioni nazionali sotto quello di Gentiloni sempre per lo stesso motivo. Durante il Conte I altre manifestazioni nazionali contro la legge di bilancio, sul Codice degli appalti pubblici e una campagna per i diritti dei ciclofattorini (riders).

Nel periodo covidico del Conte II la CGIL porta avanti una campagna per la sanità pubblica e per una ripartenza dai luoghi di lavoro. Non di meno l’attività del sindacato si fa sentire durante il governo di Mario Draghi. Questa sequela di citazioni cronologiche serve per significare che, ancora una volta, tantissime persone parlano per sentito dire, per slogan: preferiscono acchiappare al volo non un concetto, ma una frase che passa di bocca in bocca e che suggestiona perché dà sfogo alla rabbia.

Una rabbia che non va solo stigmatizzata perché produttrice di pressapochismo e di estraniazione dai contesti. Va capita ma non giustificata quando diventa ottusità e presupposto di una sempre maggiore ignoranza dei fatti. Per evitare che tutto questo continui a prodursi e riprodursi, oramai sembra evidente anche a chi prima lo negava con forza, serve una nuova saldatura generazionale, un nuovo “patto” tra meno giovani e giovani, tra forze sociali, civili, politiche e culturali del mondo progressista.

Moderatismo liberal-liberista e intransigentismo settario non sono utili alla causa del lavoro, delle libertà e dei diritti sociali, civili ed umani. Se questi referendum falliti ci consegnano un lascito – che è essenzialmente il merito che si può ascrivere alla CGIL e a Maurizio Landini – è quello di aver costretto i partiti progressisti a riparlarsi, a dialogare, ad unirsi per una lotta davvero sociale. Non sarà stata la rivoluzione che giganteggiava in stile pop dai manifesti di Alleanza Verdi Sinistra, ma certamente sarebbe stato, in caso di quorum e vittoria del Sì, un bel passo avanti.

Se è andata male, è perché non siamo stati in grado di farci percepire come forze del cambiamento. Non da oggi. Da troppo, lungo tempo. La gente che sistematicamente ormai si rifugia nell’astensionismo e non vi si muove più, considera la Repubblica un vaso vuoto, le istituzioni degli accidenti burocratici e il potere un peso insopportabile.

Invece, sappiamo che, laddove comunisti, socialisti e ambientalisti hanno gestito amministrazioni per lunghi periodi, nella storia della cosiddetta “prima repubblica“, soprattutto negli anni della ricomposizione sociale, qualcosa di buono è stato fatto. E qualcosa è rimasto ancora oggi, nonostante tutti gli smantellamenti operati tanto dal centrodestra quanto dai centrosinistra di varia colorazione seguiti dopo la fine del Novecento. Bisogna guardare al futuro, certo.

Ma bisogna farlo non con la leggerezza di chi oggi pensa di aver ottenuto una non-sconfitta avendo portato a votare tredici, quattordici milioni di italiane e di italiani. Siamo di fronte ad una batosta non da poco. Ma, ribadiamolo, il merito evidente dei referendum è stato, nella loro difficile concretizzazione prima e svolgimento poi, offrire un tavolo comune di riflessione su temi importantissimi su cui, per troppo tempo, la sinistra si è colpevolmente divisa.

Non il potere per il potere. Non il governo per il governo. Ora occorre un patto progressista che metta insieme questa Italia, la più bella, il nostro popolo, noi stessi. Cercando di aprirci a tutta una sottoproletarizzazione moderna dei ceti sociali che non sopportano più le parole, ma vogliono i fatti. Facciamo i conti con una ignoranza spaventosa dei temi di cui abbiamo parlato. Con una incoscienza evidente, con un menefreghismo che induce alla rassegnazione.

Possiamo anche maledire la superficialità delle condizioni culturali di milioni di italiani che se ne infischiano della politica, dei referendum e di come vanno le cose. Ma non ci rimarrà, dopo la nostra rabbia e le nostre maledizioni, niente in mano, niente per affrontare le contraddizioni evidenti tra l’essere poveri e il restarlo pur avendo una opportunità per migliorare un po’ quella sopravvivenza quotidiana.

Se vogliamo che la gente ci ascolti di nuovo, dobbiamo prima di tutto ricrescere culturalmente noi: non per pensarci coerenti nell’essere contro tutto e tutti, senza distinzioni, ma per entrare nei processi che determinano i rapporti di forza e provare ad essere una parte di quel cambiamento.

MARCO SFERINI

10 giugno 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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