Una piazza per l’Europa di oggi? Ma anche no

Michele Serra sollecita tutte e tutti ad una grande partecipazione alla manifestazione per l’Europa che ha lanciato dalle pagine de “la Repubblica” il 27 febbraio scorso. Si rianima il...

Michele Serra sollecita tutte e tutti ad una grande partecipazione alla manifestazione per l’Europa che ha lanciato dalle pagine de “la Repubblica” il 27 febbraio scorso. Si rianima il dibattito politico e sociale attorno ad una concezione comunitaria della vita dei popoli del Vecchio continente fondata su una reciprocità di sentimenti, di norme, di diritti e di diritto come ius propriamente detto e inteso.

E tutto questo, indubbiamente, non è altro che un bene. Ma rimane un problema non proprio di fondo, come un rumore cosmico che viene da lontano, dall’origine non tanto del Big Bang universale quanto dell’Europa medesima che non si è mai fatta veramente Stato, che è rimasta un ibrido unico nel mondo.

Questa radiazione più politico-economica, percepibile oggi forse più di un lontano ieri, riguarda l’essenza stessa dell’Unione: dei popoli o dei mercati? Della giustizia sociale o delle banche e della finanza? Del riarmo a tutto spiano o del disarmo nella direzione della pace senza se e senza ma?

I fautori del pragmatismo a buon peso saranno sempre pronti a tacciarci di ingenuità, di una sorta di buonismo delle intenzioni che si infrange contro la durissima realtà dei fatti. Noi pacifisti siamo degli sprovveduti senza l’arte del compromesso utile, senza quella della compromissione conveniente soltanto agli alti piani dei palazzi da dove si guarda la pochezza dell’esistenza di decine di milioni di persone.

Michele Serra scrive che «…qui o si fa l’Europa o si muore…». Forse, qui o si fa la pace o l’Europa muore.

Se la manifestazione a cui l’ex direttore di “Cuore” ci chiama è rivolta al rafforzamento di questa sintesi maldestra dell’europeismo tutto vonderlayano, fatto di gesticolazioni e appelli al riarmo a tutto tondo nel nome della difesa del pavido fondo teatral-tragico della preservazione dell’Occidente buono contro l’Oriente perfido e se, in nome di ciò, prevede la presenza delle sole bandiere dell’Unione senza quelle della PACE che sarebbero le uniche meritevoli di essere sventolate, allora non si può chiedere a chi è di sinistra, per il disarmo e la giustizia sociale di prendervi parte.

Non è questa l’Europa che salverà sé stessa dal cantuccio dell’irrilevanza in cui si è andata a cacciare con decenni di servilismo nei confronti della politica estera statunitense e, immediatamente a ridosso dello sfondamento del conflitto tra gli imperialismi nella guerra d’Ucraina, con la riesumazione della NATO dallo stato di soporifero morfeico addormentamento in cui era piombata per un tempo nemmeno poi così breve (tanto da far dire ad Emmanuel Macron che l’Alleanza atlantica era praticamente ormai una sorta di “dead man walking“).

Non è questa l’Europa per cui può e si deve scendere in piazza come contraltare, anche e soprattutto, all’emergenza-neonazionalismi che ci riguarda direttamente.

Verso l’orgoglio iperidentitario dei neofascisti e dei neonazisti che si fanno largo tra le macerie delle socialdemocrazie di guerra (Germania docet…) l’unica risposta possibile è l’avvicinamento e la compenetrazione dei diritti sociali, civili ed umani in tutti e ventisette gli Stati dell’Unione: le parole da mettere avanti a tutto sono programmi che non possono essere separati.

PACE vuol dire DISARMO e, insieme, significano GIUSTIZIA SOCIALE aumentata: perché dall’economia di guerra, che dirotta risorse verso gli armamenti, svuotando le casse pubbliche a sostegno delle reti di contenimento della povertà incedente, si dovrebbe passare ad una economia della solidarietà continentale. La torsione conservatrice che dalle Americhe all’Europa riverbera sul mondo intero è fronteggiabile solo così.

Altrimenti si continua, nonostante i buoni propositi di addivenire ad una fase di diplomatico dialogo tra le parti, a fare il gioco del liberismo ipermoderno che, proprio nell’alimentazione delle guerre regionali (su scala comunque globale), trova la sua espressione di migliore equilibrio a scapito del vasto, immenso disagio sociale, civile ed umano che riguarda sempre più aree continentali rispetto a singoli paesi, a singole zone.

L’accelerazione destabilizzatrice di un sempre più sbiadito “ordine mondiale” impressa nel primo mese e mezzo di presidenza di Donald Trump, ha gettato letteralmente nel panico i sostenitori del democraticismo di guerra.

Quelli che, in sostanza, predicavano sempre meno bene e razzolavano ancora peggio: la guerra in Ucraina è al centro di una contesa mondiale che prima del ritorno del magnate alla Casa Bianca veniva, in un certo qual modo, negata proprio da coloro che oggi sono pronti a sperticarsi le mani plaudendo all’appello di Michele Serra e prendendo parte al girotondo di nuovo modello intorno alla bandiera europea come simbolo di vera giustizia, libertà, democrazia e convivenza tra i popoli.

Niente di più ipocrita o, se non altro, niente di meno vero nel confronto tra intenzioni e pratiche: pensare di ridare senso all’Europa in quanto tale, come organismo sovranazionale capace di impedire le scorciatoie belliciste dei singoli Stati, puntando sul continuo armamento dell’Ucraina contro la Russia è una vera e propria miopia colpevole.

Colpevole perché ci si rifiuta oggettivamente di discernere tra desiderata e realtà: chi è più utopista? Chi pretende la pace oltre ogni frontiera e oltre ogni riarmo, oppure chi la propugna asserendo che la guerra in corso è tutt’ora uno scontro tra civiltà e barbarie, tra il Bene rappresentato da noi e dall’Alleanza atlantica e il Male rappresentato da Putin e dai suoi alleati? Il punto debole dell’appello di Michele Serra è la sua vaghezza. Inevitabile, del resto.

Perché se fosse sceso in una particolarizzazione dei termini, in una esplicitazione delle condizioni per avere una vera Europa della pace, avrebbe dovuto invocare la PACE a caratteri cubitali, maiuscoli e consentire che la trasversalità non divenisse, ancora una volta, elemento di discriminazione e divisione. Si sentono già le sirene adulanti nei confronti di coloro che cercheranno non tanto di tapparsi le orecchie o farsi legare agli alberi maestri delle navi per evitare il peggio, quanto di prospettare una alternativa realmente popolare, realmente antimilitarista, realmente politica a quella che diverrà la piazza della retorica inascoltabile.

Si dirà, seguendo l’antico adagio, che se vuoi la pace devi comunque ancora preparare mesi, forse anni, di guerra: perché l’Ucraina non può perdere, essendo il baluardo di una mistificazione tutta occidentale e nordatlantica dei valori democratici e dell’universalismo dei diritti. Ancora una volta la guerra tra la NATO e la Russia, il conflitto tra gli opposti imperialismi e militarismi, assumerà fisiognomicamente i connotati del conflitto nel nome della civiltà da preservare.

Così come le narrazioni false ed ipocrite delle guerre di esportazione della democrazia contro la minaccia del terrorismo mondiale si sono, decennio dopo decennio, rivelate al mondo per quello che erano.

Atti di conquista, di espansionismo in cui la bandiera della libertà arrivava insieme a quella delle mine antiuomo e del fosforo bianco. Le armi di distruzione di massa attribuite ad un dittatore indubbiamente spietato come Saddam Hussein, le avevano i nuovi “liberatori” che mettevano piede a Baghdad aprendo la fase della nuova destabilizzazione di un Medio Oriente finito nell’occhio del ciclone dei fanatismi religiosi e delle contese tribali più moderne che ci possano essere.

Nel nome di un giusto antritrumpismo e antiputinismo non si può ritenere giusta la configurazione politica di un’Europa che, per vincere una guerra fintamente di liberazione sacrifica i diritti fondamentali dei propri cittadini. Per essere più democratici di chiunque altro, i progressisti moderati di questa Italia del terzo anno meloniano commettono l’errore di essere acritici nei confronti di quello che oggi è realmente l’Europa. Mentre scriviamo, Ursual von der Leyen proclama che è pronto il piano “Rearm Europe“, consistente in oltre 800 miliardi di dollari per la difesa.

Non usa mica mezzi termini la presidente della Commissione continentale: siamo nell'”era del riarmo” e quindi ad ogni Stato dell’Unione si danno poteri eccezionali in materia di aumento delle spese per finalizzare il tutto all’accrescimento della produzione bellica. Spese militari su spese militari. Mentre si restringono sempre di più i margini di una necessità impellente di un nuovo sistema sociale sovranazionale che permetta di far respirare le classi più disagiate nell’ambito della crisi globale.

Mark Rutte chiedeva un aumento del PIL nazionale dell’1,5/2% in termini di riarmo. Trump, per rimanere nell’Alleanza atlantica, tuoneggiava percentuali attorno al 5. Ora, il ritiro di ogni aiuto americano all’Ucraina, manda ulteriormente nel panico le cancellerie europee: chiunque si sente minacciato da un asse multipolare impazzito, che non rispetta più i ruoli storicamente e più attualmente dati. Stati Uniti e Russia non solo si parlano, ma concordano le mosse per la fine della guerra in Ucraina.

La NATO rimane a metà tra Washington e Bruxelles. Putin passa dall’essere il Satana mondiale ad un neo-interlocutore per tutto il pianeta tranne che per l’Europa che non ha un Trump che la metta in una condizione di voltafaccia tale da poter giustificare un capovolgimento della posizione difensiva in cui si è andata ad impantanare.

Quindi, l’Europa per cui dovremmo scendere in piazza dovrebbe essere quella del riarmo a tutti i costi? Dovrebbe essere quella del sostegno di un imperialismo contro un altro imperialismo? Dovrebbe essere quella del pragmatismo del grande capitale spacciato per oculatezza e lungimiranza magari pure di stampo sociale? L’appello di Michele Serra muove certamente da buone iniziali intenzioni ma finisce con l’essere un sostegno ad un Vecchio, vecchissimo continente tutt’altro che moderno e proiettato verso una nuova era di pace.

Per fermare Trump gli si oppone l’Europa priva di una politica estera comune, dedita solamente al riarmo come mezzo di affratellamento finanziario e affaristico, speculativo e mortifero al tempo stesso? Nel nome di tutto questo i progressisti, la sinistra, i pacifisti dovrebbero scendere in piazza? Se si vuole tenere insieme le ragioni della pace con quelle della giustizia sociale, non si può non chiedere a gran voce anzitutto la trattativa diplomatica in cui i Ventisette in qualche modo devono entrare.

Poi si deve passare per una politica di disarmo che non è – non siamo ingenui – all’ordine del giorno tanto delle forze conservatrici (Trump e consociati) quanto di quelle pseudo-progressiste o liberal-liberiste che dire si voglia. Invece di muovere le coscienze verso un sentimento diffuso e condiviso di avversione nei confronti della guerra, la si declina ennesimamente come parte della soluzione di un più complesso internazionale. La guerra per mettere fine alla guerra. Sembra un paradosso, ed invece è la cruda, impietosa realtà.

MARCO SFERINI

4 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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