Enrica Morlicchio, sociologa alla Federico II di Napoli e autrice tra l’altro de «La povertà in Italia» con Chiara Saraceno e David Benassi (Il Mulino), il governo Meloni ha varato lo sdoppiamento del reddito di cittadinanza in un «assegno di inclusione» e in uno «strumento di attivazione». Qual è la sua analisi?

Questa è una politica espressione di un blocco economico-sociale coeso e aggressivo che impone un trattamento della povertà di tipo conservatore e punitivo. Ed è un messaggio rassicurante rivolto all’elettorato di destra che ha paura del declassamento.

In cosa consiste il «trattamento conservatore e punitivo della povertà»?

Nell’applicazione del principio della less eligibility, cioè della «minore preferibilità». Fu introdotta da una riforma del governo dei poveri nel 1834 in Inghilterra. Si voleva rendere l’assistenza «meno preferibile» al lavoro a qualsiasi costo, e a qualunque condizione. I poveri avrebbero dovuto accettare qualsiasi salario o entrare nelle Workhouses. Erano istituzioni totali dove veniva costretto chi non era invalido, anziano o vedova. Gli altri, a cominciare dai bambini, dovevano essere rieducati, anche moralmente, al principio: se sei povero è colpa tua.

La logica applicata dal governo Meloni oggi è la stessa del 1834?

Sì, ma in una situazione storica diversa, ovviamente. Vogliono rendere le condizioni di assistenza così degradanti da spingere le persone a trovarsi un lavoro. Ma così facendo le respingeranno nella realtà dalla quale provengono. Stanno punendo le vittime della deregolamentazione del lavoro e dell’impoverimento degli ultimi vent’anni. È come ributtare in mare persone che hai appena salvato. Così come con gli immigrati, lo fanno con i poveri.

Così non resteranno sul«divano», dicono…

Da qualunque parte vengano queste sono visioni ideologiche e autoritarie che ignorano la realtà del mercato del lavoro e colpiscono le persone che lavorano in maniera povera, precaria e intermittente. Quelle che non guadagnano abbastanza per mantenere una famiglia. È un altro modo per scaricare sulle loro spalle il fallimento di un sistema. Non mi sembra che il governo, ad oggi, abbia chiarito come intende risolvere i giganteschi problemi dei centri per l’impiego, per esempio.

Risparmieranno un miliardo, dicono…

A me ricordano una signora che va al mercato con la borsa da mille euro e tira sul prezzo delle mele. Un miliardo di euro è poca cosa per il bilancio dello Stato. Il «risparmio« si perderà in un paio d’anni. Se non si interviene subito, avremo sempre più persone con problemi di alcolismo, senza risorse per curarsi, a carico del servizio sanitario nazionale. E più bambini che saranno colpiti indirettamente dalla povertà dei genitori.

Quante possibilità esistono che un «occupabile», fuori o dentro le famiglie che riceveranno l’«assegno di inclusione», avranno un’offerta di lavoro?

Sono idee irrealistiche. Una fetta degli attuali percettori può essere solo accompagnata verso un lavoro protetto. Ci sono persone adulte con problemi di salute, senza diritto all’invalidità, con bassi livelli di istruzione. A me fa venire in mente Donnarumma ai cancelli dell’Olivetti di Ottiero Ottieri. Aspirava ad entrare in fabbrica ma non aveva i requisiti. Dobbiamo dare una risposta ai Donnarumma di oggi. O li facciamo morire di fame?

Se un’eventuale offerta di lavoro sarà rifiutata, una famiglia perderà l’assegno. È un ricatto?

Sì. L’intero nucleo sarà considerato responsabile per i singoli componenti. Ciò potrebbe accrescere i conflitti intergenerazionali, le diseguaglianze di genere.

Chi riceverà un’offerta di lavoro a tempo indeterminato dovrebbe spostarsi da Palermo a Milano, per esempio. Cosa ne pensa?

Sempre che qualcuno venga assunto. Cosa tutta da dimostrare. È un provvedimento crudele che non tiene conto degli elevatissimi costi di trasferimento e degli affitti. Questi hanno in testa l’epoca dell’emigrazione dal Sud verso le fabbriche di Torino e Milano. Certo non troveranno il gabinetto sul ballatoio, ma li farebbero vivere in condizioni incivili simili.

Gran parte di queste norme erano già presenti, in forma diversa, nel «reddito di cittadinanza». Perché è difficile criticare il Workfare al quale anche il sistema di Meloni & Co. è ispirato?

Perché si teme di infrangere un tabù della sinistra: l’ideologia produttivistica che attribuisce di per sé al lavoro una capacità di emancipazione.

Cosa fare per superare il Workfare?

Bisogna pensare, come dice Alain Supiot, a un nuovo statuto del lavoro al di là degli impieghi che non guardi solo al lavoro salariato fordista in senso classico ma sia in grado di dare una rete di protezione ai giovani, soggetti fluidi anche dal punto di vista della collocazione professionale, oltre che sessuale. Quelli che non possono realizzare progetti di vita a causa dell’insicurezza economica. Per la sinistra è importante non guardare alla povertà come un fenomeno che riguarda solo aree arretrate, ma come una componente essenziale del capitalismo digitale postfordista. Vanno contrastati i tentativi di spingere a lavorare con la fame. Invece bisogna rafforzare l’autonomia delle persone e quella collettiva, creare forme di alleanza tra soggetti che condividono la stessa condizione di classe e esistenziale anche se non si incontrano mai in uno stesso luogo di lavoro.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto: screenshot You Tube