L’Antimafia indaga. L’ordigno che è esploso intorno alla mezzanotte scorsa davanti alla casa del giornalista Sigfrido Ranucci, autore e conduttore della celebre trasmissione di inchiesta “Report” su Rai 3, pesava circa un chilogrammo. Fatto con rudimentali esplosivi, poteva comunque provocare la morte. Nello specifico di uno dei familiari del cronista o di lui medesimo, indubitabilmente vero obiettivo dell’attentato. Perché di questo si tratta.
Fortunatamente non eravamo più abituati a sentire notizie di esplosioni di bombe contro giornalisti, sindacalisti, politici, uomini di punta delle istituzioni. La stagione pareva archiviata, lasciata alla memoria del passato: quello in cui la rivendicazione politica era una delle opzioni, mentre la matrice di stampo mafioso era la prima a cui si pensava. Le indagini diranno a quale filone appartiene questo gesto criminale. La solidarietà più piena va a Ranucci, alla sua famiglia e alla redazione tutta di uno dei migliori programmi di inchieste che non fa sconti a nessuno.
Abbiamo imparato dalle parole di Giovanni Falcone che la criminalità organizzata agisce contro il singolo quando questi rimane isolato dal resto del contesto in cui lavora: il magistrato cui viene fatta intorno terra bruciata, che viene lasciato al suo destino, privo di una vera e propria solidarietà, di una empatia tra colleghi, è più facilmente individuabile come bersaglio. Quante volte è accaduto? Troppe, certamente.
Così è successo per giornalisti famosi per le loro inchieste contro la malavita, contro affarismi assolutamente torbidi in cui pubblico e privato si mescolavano fino a diventare qualcosa di letteralmente indistinguibile e lì, in quella melmosa stagnazione e sospensione del diritto, della democrazia, del rispetto dei valori e delle pratiche costituzionali, emergevano le ombre e i chiaroscuri in cui i mostri nascono, crescono e si moltiplicano sotto la protezione tanto di altri affaristi quanto di politici di alto bordo.

Giancarlo Siani
Nel 1970 si ricorda Mauro De Mauro. Due anni dopo Giovanni Spampinato. Nel 1978 è Peppino Impastato ad essere assassinato dalla mafia che controlla Cinisi e dintorni. Quattro anni dopo cadrà sotto i colpi delle organizzazioni criminali Giuseppe Fava. Nel 1985 il giovane cronista campano Giancarlo Siani e nel 1988 Mauro Rostagno. Questi sono alcuni dei nomi di giornalisti assassinati perché le loro indagini stavano andando troppo a fondo e dal quel fondo venivano fuori rapporti sempre più complessi ed evidenti tra mafia e politica e viceversa.
Ma a questi nomi si potrebbero aggiungere quelli di Cosimo Cristina, di Walter Tobagi… L’elenco, purtroppo, è drammaticamente lungo. Esattamente cosa ci comunica la bomba fatta esplodere davanti alla casa di Ranucci? L’immagine delle due auto di famiglia coinvolte, distrutte completamente, rimanda alla mente quelle di altre auto: crivellate di colpi o fatte esplodere nonostante le scorte, le misure di sicurezza, l’attenzione stessa che i giornalisti e i magistrati ponevano nei loro spostamenti.
Quella bomba ci dice che “Report” è un programma che dà fastidio, perché la sua indipendenza giornalistica è oggettiva e si rivela ogni volta che una inchiesta viene meticolosamente preparata senza lasciare nulla al caso, con prove circostanziate e fonti controllate riguardo tutto quello che si racconta. L’inoppugnabilità delle indagini di Ranucci è il punto di forza di un lavoro veramente molto accurato; un lavoro che difficilmente può essere smentito. Alla radio il conduttore ha parlato di tutte le querele ricevute, delle richieste di risarcimento danni: quasi duecento.
Ma non c’è mai stata una volta in cui i giudici abbiano dato torto a lui e alla trasmissione. Questo perché se racconti la verità supportandola con altrettante verità, ne hai una al quadrato e forse anche al cubo che è davvero molto, ma molto difficile poter anche soltanto mistificare. Nel corso di una trasmissione su RTL 102.5, Ranucci ha descritto il sistema informativo di oggi: esiste una intolleranza piuttosto diffusa nella classe politica odierna nei confronti di un giornalismo veramente libero.
Nonostante le comode, prammatiche, istituzionali dichiarazioni di vicinanza a lui, a “Report” e al lavoro svolto, non si può non rilevare come, soprattutto dai settori governativi, sia sempre stata manifestata nei confronti di questa tipologia di giornalismo quella che lo stesso Ranucci ha chiamato benevolmente (e molto eufemisticamente) una “disattenzione“, una lontananza che è figlia di una serie di commistioni tra mondo dell’informazione deformata e politica altrettanto tale.
Le riforme Cartabia e Costa hanno senza ombra di dubbio amplificato un clima di ostilità nei confronti dell’inchiesta libera, introducendo elementi di censura di non poco conto come il divieto di parlare di collegamenti tra i soggetti di una indagine e terze persone e, nello specifico, di queste stesse. Ed ancora: l’impossibilità di parlare di un fatto avvenuto e di un processo a carico dei suoi autori fino a procedimento giudiziario terminato, sia che si tratti di un fatto privato, sia che riguardi invece esponenti delle istituzioni e sia quindi classificabile di pubblico interesse.
Negli ultimi decenni lo stato di salute dell’informazione italiana è peggiorato sensibilmente: nel rapporto del 2024 elaborato da Reporter Senza Frontiere, il nostro Paese è scivolato alla 46esima posizione sul piano mondiale e, a distanza di un anno, quindi oggi, in questo 2025 anno terzo dell’era meloniana, scendiamo ulteriormente al 49esimo posto…

Sigfrido Ranucci
Citiamo dal sito di RSF: «I professionisti dei media a volte cedono all’autocensura, sia per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, sia per evitare una causa per diffamazione o altre forme di azione legale. La situazione può essere aggravata per i giornalisti di cronaca nera e giudiziaria dalla legge bavaglio votata dalla coalizione di governo del Primo Ministro Giorgia Meloni, che vieta la pubblicazione di un ordine di custodia cautelare in carcere fino al termine dell’udienza preliminare. I sindacati dei giornalisti condannano anche la crescente ingerenza politica nei media pubblici».
Non di meno, poi, vanno valutate anche le possibilità economiche delle testate giornalistiche: chi ha dietro grandi sovvenzionatori, grandi gruppi industriali, tutto sommato sopravvive alla tempesta della sempre maggiore disaffezione della popolazione nei confronti della lettura di giornali e riviste. Chi, invece, non ha questi privilegi (e per fortuna in molti casi…), e per lo più si tratta di quotidiani, settimanali e mensili fortemente critici con la narrazione corrente e con il sistema di potere dominante, deve cavarsela in mezzo a mille tortuosità, a cavilli di ogni tipo per poter sopravvivere.
Non si può dire, quindi, che l’Italia oggi tuteli il diritto di informazione libera, perché la prima preoccupazione di chi governa è un’altra tutela: quella degli interessi di chi rappresenta le grandi imprese, i grandi capitali, l’alta finanza e le reti di collegamento che questa ha stabilito con un sistema disinformativo che è mera propaganda delle meravigliose sorti e progressive in cui siamo stati gettati dall’economia di guerra. In uno stato di allarme permanente, in un disagio sociale che aumenta e che, quindi, costringe molte persone a trascurare i fondamentali diritti e libertà civiche e civili.
Tra queste quella di poter avere a disposizione una pluralità dell’informazione che, ad esempio nella televisione pubblica e di Stato, dovrebbe garantire a tutti i soggetti politici, sociali e culturali di accedere senza alcuna distinzione di grandezza: né per età, né per forza parlamentare, né per presupposto di diffusione maggiore o minore nella popolazione. Invece qui siamo ormai oltre alla vecchia “lottizzazione” della RAI. La logica spartitoria, da manuale Cencelli, aveva un certo rispetto formale per le cariche, per i ruoli e persino per le competenze.
Qui ed ora, invece, una nuova presuntuosa, più che presunta, classe dirigente di governo ha occupato i posti chiave di tutte le istituzioni: RAI compresa ovviamente. Ha escluso le opposizioni da qualunque ruolo nell’amministrazione dell’azienda radiotelevisiva, mentre i giornali che fanno riferimento alla maggioranza non fanno altro se non insultare e denigrare quotidianamente gli esponenti delle minoranze: non solo quelli di partito, ma anche quelli sindacali oltre che un ampio settore del mondo della solidarietà condivisa.
Si sono quindi poste le basi per la rimodulazione di un più complesso e complessivo clima pseudo-cultural-sociale che spostasse l’attenzione dei cittadini sulle priorità etniche, nazionaliste, fintamente patriottiche (perché smentite dall’acquiscenza nei confronti dell’altantismo a tutto tondo da un lato e del trumpismo riemergente dall’altro) per allontanarne la critica ragionata da una crisi verticale della democrazia voluta e ricercata mediante un ridimensionamento del ruolo del Parlamento e un protagonismo governativo che sovverte l’equipollenza dei poteri dello Stato e la natura della Repubblica.
In questo contesto così difficile da sintetizzare in poche, semplici frasi, il fattore informazione è, di per sé stesso, un qualcosa che mette in contatto realtà sociale con realtà istituzionale: dalla concretezza dei bisogni della gente, mortificati dalle politiche liberiste, alle protezioni dei privilegi dei grandi ricchi, passando per una lettura critica che non si vuole e che si tenta di relegare nell’angolo angusto della tolleranza e non della condivisione.
Le prossime inchieste di Ranucci saranno su temi che possono creare qualche pruriginosità dalle parti della maggioranza di governo. Questi i titoli annunciati: “La musica come forma di resistenza e speranza nella Striscia di Gaza”, “Le donazioni e lo stile di vita del miliardario Jeff Bezos“, “Sospetti legami tra il Governo Meloni e la gestione del monopolio dei bagni marini“. Intorno a lui e alla squadra di Report si è venuto creando, da qualche tempo a questa parte, senza dubbio dopo l’entrata sulla scena del governo meloniano, un clima di ostilità che aveva visto la trasmissione di Rai 3 ridotta nelle sue messe in onda, nonostante facesse grandi ascolti.

Corrado Formigli
Una insensatezza anche dal punto di vista più elementarmente mercatista per l’azienda RAI. Meno puntate di Report, quindi meno grane per il governo da sbrogliare il giorno dopo tra mezzi silenzi, imbarazzi e fughe precipitose dai giornalisti davanti alle Camere e a Palazzo Chigi nel momento in cui compare all’orizzonte qualche microfono. Non differente è la postura assunta da Giorgia Meloni nei confronti de La7 e di Corrado Formigli che tiene il conto dei giorni che separano la Presidente del Consiglio dal suo insediamento ad una intervista con “Piazza Pulita“.
Se il governo avesse meno timore del diritto di critica e della libertà di indagine giornalistica, che sono materie veramente privilegiate e tutelate dalla Costituzione della Repubblica, forse ci indurrebbe a pensare che possa aver trovato un modo di passare dalla condivisione dell’autoritarismo missino, erede del neofascismo d’antan, ad un liberalismo di destra. Non è così, nonostante esistano anche dentro alcune forze della maggioranza delle spinte in questa direzione.
Per quanto possa sembrare una dimostrazione di risoluta forza da parte dell’esecutivo, questa altrimenti non è se non una debolezza evidente: il timore di non poter del tutto soprassedere al fatto che la democrazia, per quanto imperfetta e attaccabile possa essere, è una perdita troppo grande per essere lasciata andare così, sic et simpliciter, assistendo alla sua dipartita nel nome di un autoritarismo premieristico unito ad una regionalizzazione esasperata e diseguale all’ennesima potenza. Quella bomba esplosa sotto casa di Ranucci è un tentativo di intimidire un giornalismo che ha scelto di essere non eroico, ma vero.
Sia che governi la sinistra, sia che governi la destra. Sia che governino i politici, sia che lo facciano i tecnici. Senza quel giornalismo non si può veramente parlare di libertà di informazione e di stampa in Italia. Per questo va difeso, protetto e sostenuto, così come vanno difesi i diritti fondamentali di ogni cittadino: lavoro, scuola, sanità, pensioni, tutele e assistenze. I diritti e le libertà si tengono tutti insieme. Se ne viene meno uno, tutti gli altri rischiano la stessa sorte.
MARCO SFERINI
17 ottobre 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria







