I nazionalismi più recentemente intesi come espressione di una nuova concezione di patriottismo (e viceversa) si richiamano talvolta ai più nobili pensatori che hanno ispirato tanto singole azioni quanto veri e propri moti di rinascita dei popoli. Naturalmente lo fanno per legittimarsi in un retroterra non solo storico ma, soprattutto, culturale e, quindi, anche ideologico. Il più delle volte queste operazioni mistificanti, prettamente propagandistiche e, in un certo qual modo, acriticamente autoassolutorie per un passato non proprio brillantemente democratico, sono destinate ad essere smascherate in un breve lasso di tempo.
Questo perché le contraddizioni risultano sempre più evidenti nel momento in cui i partiti dai tratti autoritari (e siamo benevoli nel definirli così…), che fingono di essere popolari e costituzionalmente devoti ad una ragione sociale e democratica di una nazione, entrano in conflitto con quasi tutti i paradigmi della gestione pratica e, dovendo conservare il potere di governo, scendono abitualmente a compromessi di natura tanto pratica quanto teorica: il risultato è una disonestà intellettuale che, il più delle volte, fa il paio con una altrettanto poco edificante disonestà materiale.
Il più delle volte si tratta di formazioni politiche fanno – come si faceva cenno poco sopra – del nazionalismo la loro punta di diamante, associandolo ad una idea della conservazione che si incunea in un tradizionalismo ancestrale, fin dentro i più remoti millenni da cui prenderebbe origine una discendenza che, nel caso dell’Italia, avrebbe i suoi progenitori nella romanità tanto repubblicana quanto imperiale. Il fascismo fu, del resto, anche questo: un patetico tentativo di configurarsi come erede della grandezza cesaristica, come attualizzazione novecentesca dei fasti di Roma.
Proprio il fascismo ha provato ad assimilarsi, tra gli altri, anche la figura e l’opera politico-culturale-filosofica di Giuseppe Mazzini, sostenendo che l’unità italiana, come processo di rifondazione moderna del sogno di gloria della grandezza della terra già di Cesare, di Augusto, di Dante e di santi, navigatori e altri eroi, era stata la premessa per una “rivoluzione” ancora più grande: quella, appunto, delle camicie nere che completavano così, con la loro missione, il tracciamento dei veri confini naturali d’Italia. Se messi l’uno accanto all’altro, mazzinianesimo e fascismo non hanno praticamente nulla in comune.
Prima di tutto perché Mazzini non era un nazionalista e nemmeno un patriota per come è stato inteso da Mussolini e soci. Né tanto meno potrebbe riconoscersi il triumviro della Repubblica romana nell’idea di nazione e di patria che i conservatori moderni alla Meloni portano avanti facendo retrocedere tutta una serie di diritti fondamentali dell’uomo (e del cittadino) che invece all’idealità mazziniana erano molto cari nello sviluppo imponente di una corrente democratica entro un dibattito tutto nazionale che nell’Ottocento aveva preso il suo avvio e che era al centro della traduzione pratica dei movimenti risorgimentali.
L’Italia di Mazzini non è nemmeno paragonabile a quella dei fascisti e dei postfascisti: se di nazionalismo mazziniano si vuole parlare, lo si deve sempre fare entro i cardini di una concezione duplice di “umanità” e di “popolo” che riguarda un rapporto di mutuo scambio in cui la soggettività abdica il suo ruolo senza disconoscere i suoi diritti. Il dovere assume qui una connotazione senza dubbio spirituale che Mazzini porta avanti come presupposto di una confederazione di emozioni, sentimenti, presupposti tanto ideali quanto pratici che si rifanno alla presa di consapevolezza di quella che è per lui una vera “missione” dell’essere umano.
La nazione mazziniana, l’Italia di cui si ricerca l’unità politica, non è un luogo in cui avvampano le pulsioni suprematiste, le concezioni di eticità di uno Stato che deve primeggiare rispetto agli altri e gareggiare quindi un circuito di concorrenza con gli altri popoli per stabilire il proprio dominio nel nome di chissà quale principio tanto laico quanto religioso o presupponentemente deistico. Mazzini è, come scrive Gaetano Salvemini, un vero e proprio “mistico” perché la sua esistenza è dedicata agli altri, ad una idea di popolo come soggetto prosecutore nell’hic et nunc di una volontà divina che si realizza pienamente nella Storia.
Non c’è dubbio sul fatto che questa sia “storia umana“, ma Mazzini le conferisce anche un ruolo metafisico, una propensione alla realizzazione dei grandi processi di mutamento, secolo dopo secolo, grazie ad un incessante ricambio generazionale che può essere, un po’ cinicamente, inteso come un indistinto insieme di singolarità prive quasi di un vero significato e che, invece, ritrovano la loro specificità e la loro importanza nel realizzarsi liberamente proprio come tali entro i termini del rispetto della libertà vicendevole. Lo “spirito universale” che si ritrova citato in molti scritti di Mazzini è, pertanto, una idea di continuità dell’esistenza umana che non prescinde dalla volontà del singolo.
Ognuno è artefice non solo del proprio destino ma, più ancora, ha la responsabilità della formazione di quel principio collettivo di un progresso che è tale solo se trova la sua realizzazione nell’affermazione della felicità in seno all’uguaglianza civile, morale, sociale ed anche culturale. Pur essendo il “tribuno del popolo”, Mazzini, come non va confuso con il nazionalismo iper-identitario e suprematista dei fascisti, così non va nemmeno tacciato di essere una sorta di marxista ante litteram o un socialista mal riuscito. Il suo trittico è, e rimane, Dio, patria e proprietà. Privata e pubblica. Il contrasto con la Prima internazionale a trazione marxiana è dunque inevitabile.
Mazzini condivide le istanze sociali che Marx ed Engels portano avanti: si batte per la libertà da ogni schiavitù del profitto ma, a differenza dei comunisti, ritiene che si possa riformare il sistema capitalistico e che sia possibile una sorta di giustizia sociale entro un’economia in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione non debba essere sovvertita: il timore più grande è che, crollato il perno proprietario, vengano meno anche le altre certezze che promanano dalla tradizione. Anzitutto quel concetto di nazione che per lui è traduzione del divino nell’umano, del sublime nel possibile, del popolo come intermediario della volontà celeste.
La sovranità popolare nella repubblica unitaria che sogna per l’Italia ottocentesca è la sostanziazione di una interpretazione della Legge con la elle maiuscola come servitrice anch’essa del Fine (sempre con la maiuscola, per chiarire il carattere di antonomasia) che è, si potrebbe dire così…, presso quel Dio che non è mediato dall’intercessione cattolica del papa-re, ma direttamente assunto dal popolo come elemento chiaro, distintivo della possibilità di fare del benessere sociale il carattere primo della Nazione (ora sì, anche questa, con la maiuscola). La sua Italia è, quindi, un prodotto di questa missione mistica, sintesi di Umanità, Popolo, Legge, Fine e Dio.
Siamo, come è del tutto evidente, nel più pieno misticismo irreale, quasi all’ombra di un rassicurante e protettivo scudo che preserva dalla cruda realtà dei fatti: Mazzini, al contrario di quello che si potrebbe ritenere, non si culla in un mondo ideale, ma ne prospetta uno quanto meno democratico e oltre il liberalismo delle classi dirigenti che fanno il paio con certi tipi di autoritarismo monarchico spacciati per modernissimi esperimenti costituzionali. Perché la repubblica è così importante per lui? Perché consente il decisionismo collettivo come espressione conseguente del ruolo divino che vede nel popolo.
Così come lo vede nella Nazione laica ma non atea. Persino Robespierre, che nella critica sociale era molto più radicale di Mazzini, affida sé stesso ad un misticismo missionario che non è molto lontano da quello del nostro patriota genovese. La convinzione dell’esistenza di un Essere supremo è necessaria anche alla pacificazione delle coscienze, agiate oltre che dai moti rivoluzionari anche da un insito, ancestrale, continuo domandarsi il senso dell’esistenza (e soprattutto di una vita fatta di stenti, privazioni, miserie inenarrabili…). L’invivibilità della vita è attenuata esattamente dalla missione che il mistico assegna al popolo: essere il rappresentate di un Dio sulla Terra.
Non più le religioni rivelate in quanto tali, ma una fede che si nutre del bene comune, del dialogo e dell’ascolto reciproco, dell’essere unici e singolari così come collettivamente intesi nel contesto di uno sviluppo sociale che è dovere di una civicità capace di vivere solo attraverso l’innovazione repubblicana moderna: la res publica propriamente intesa secondo l’etimologia classica. Non l’oligarchia romana, ma lo Stato come concretizzazione di un supremo principio educativo (così lo definisce Mazzini) per cui la comunità vive grazie ad una esaltazione della moralità intesa come onestà tanto intellettiva quanto materiale.
Mazzini e Robespierre, lontani e vicini, si somigliano anche in questo: nell’incorruttibilità. Il bene supremo è il bene collettivo e, quindi, anche del singolo. Il problema semmai sta nel riuscire a dare seguito pratico a queste enunciazioni ideali e misticheggianti. Il pensiero mazziniano è, nonostante il suo carattere para-metafisico, un insieme antropologico di precetti progressisti: se si guarda oltre la mitizzazione dei concetti e la trascendenza di certe espressioni che sublimano oltre il necessario e che, per questo, risultano – almeno oggi, con un forse un po’ preconcettuale “senno di poi” – tendenzialmente stucchevoli, la grandezza di Mazzini sta nella fiducia laica che attribuisce agli esseri umani.
Nonostante molti aspetti del suo tempo lo deludano, compresi gli espansionismi monarchici malcelatamente mascherati da interessi nazional-popolari, non smette mai di avere una indefessa fiducia nelle capacità di riscatto di una umanità che può parlarsi oltre i confini della patrie e che è l’unico soggetto capace di fondare una “repubblica mondiale“. La missione mazziniana è anche un apostolato per l’unità d’Italia, ma la sua vita non è solamente riducibile a questo pure importante e, se vogliamo, patriottico compito. Mazzini per primo sente che è solo una tappa.
Un momento necessario per uno sviluppo nel futuro di una convergenza di interessi sociali che si uniscano a quelli civili e che, quindi, siano il prodotto di una nuova umanità che si riconosce nella propria missione creatrice (secondo lui, ormai è quasi pleonastico scriverlo ancora, interprete della volontà dello Spirito Universale o, se vogliamo, di Dio). Così, come è evidente, Mazzini è quanto di più lontano possa esservi dai ciechi nazionalismi che fanno della volontà del capo il principio primo e assoluto in cui si risolverebbe ogni espressione dei caratteri patriottici e dell’identità stessa della nazione.
L’Umanità e il Popolo che lui ha presagito, vagheggiato e sperato si potesse affacciare al nuovo secolo con una nuova Italia, è ancora molto al di qua dal venire. Il misticismo potrebbe essere un comodo rifugio idealistico, per fuggire alla triste realtà dei tempi di guerra e di ipercapitalismo multipolare che mette in competizione i popoli, separandoli e rendendoli sempre più nemici: tanto in patria, nell’esasperazione del disagio sociale, quanto all’estero nella contesa della ricchezza globale… Ma, se possiamo azzardare, Mazzini se ne allontanerebbe se rappresentasse solo un palliativo, uno sterile lenitivo temporaneo.
Di sicuro rimarrebbe convinto della missione umana su questa Terra: realizzare le condizioni per una vita degna di essere vissuta nel migliore modo possibile e nel rispetto delle reciproche differenze. Non è il socialismo, ma in un certo qual modo gli somiglia almeno un poco.
MARCO SFERINI
18 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria