Trump prima di Trump. O meglio, la genesi di un brand che, almeno in apparenza, da significante vuoto che si nutre costantemente e in modo esclusivo della propria riproposizione, si è fatto interprete di un sinistro «fascismo pop», capace di sedurre laddove non domina incutendo paura.
Ricorrendo apertamente alle sue doti di abile «cantastorie», e intrecciando ironia e sarcasmo con l’indagine del teatro civile, Stefano Massini ricostruisce in Donald. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man (Einaudi, pp. 218, euro 18,50), l’origine dell’uomo e del mito, e il modo in cui entrambi gli elementi hanno finito per coincidere nella per altro resistibile ascesa del personaggio.
Massini, le cui qualità di grande narratore gli hanno già valso, tra gli altri riconoscimenti, la conquista di cinque Tony Award (gli Oscar del teatro) nel 2022 con la Lehman Trilogy che mette in scena l’origine e la caduta della celebre famiglia di banchieri al centro della crisi finanziaria globale del 2008, si è già cimentato con tragiche figure del calibro di Adolf Eichmann, in un dialogo con Hannah Arendt, Adolf Hitler e il suo Mein Kampf o con lo sviluppo dell’atomica in Manhattan Project (Einaudi, 2023).
Ma, nel cimentarsi con il «Golden man», la cui auto-narrazione è letteralmente imperniata su una sorta di parallelo con l’antico Re Mida dal tocco aureo, Massini si vede obbligato a creare una partitura dall’andamento sincopato, dove agli aspetti grotteschi si alternano i momenti apertamente minacciosi. A confermare che ci si trova nel territorio del mito più che in quello della biografia, c’è la scelta di campo narrativa che vede prevalere l’incedere dei versi su qualsiasi concessione alla prosa.
Del resto, come accade anche in The Apprentice il film diretto lo scorso anno da Ali Abbasi, che mette in scena il personaggio al suo apparire sulla scena pubblica, ben prima della Casa Bianca ma già proiettato verso la dimensione che lo condurrà fino a quel traguardo, l’opera di Massini scava nella psicologia e nell’indole di Trump, evidenziando le caratteristiche che ne definiranno l’intera traiettoria.
Emerge per questa via la sostanziale adesione del futuro «politico» alla figura dell’uomo d’affari, o, per maggiore precisione, il suo definirsi progressivamente come «il brand» di se stesso: «Depositerò come marchio commerciale non solo il mio nome ma la mia stessa faccia il mio corpo la mia vita in ogni sua piega, farò di me da ora innanzi una leggenda che narra se stessa, non mi basta più il mercato è un vestito stretto finalmente io sarò un business vivente in carne e ossa, oh sì da adesso io non faccio affari io sono l’affare, io non vendo prodotti, io sono il prodotto, io non scrivo la storia, io sono la storia».
Il «ragazzo d’oro» dell’infanzia, biondo e luccicante in maniera perfino sospetta, figlio di una coppia di origine tedesco-scozzese, orgogliosa del proprio essere «bianca» nella New York meticcia della fine degli anni Sessanta, diventerà il «Golden Man» dell’età adulta, l’uomo-simbolo che all’inizio degli anni Ottanta imporrà il proprio nome a lettere dorate sulla skyline di Manhattan dall’alto dei 58 piani del grattacielo che porta il suo nome, la Trump Tower.
La sua strada, Donald la cerca da sempre, mentre riscuote gli affitti per l’impresa paterna che ha costruito migliaia di alloggi a prezzi popolari e che sarà poi accusata di discriminare i clienti afroamericani – sulle loro richieste compare una vistosa «C», per coloured -, e quando, più tardi, si lancia in spericolati investimenti nei casinò di Atlantic City. L’incontro che lo convincerà di poter davvero tramutare ogni cosa in oro, avviene però già all’inizio degli anni Settanta, quando ingaggia l’avvocato Roy Cohn, una figura losca e potente allo stesso tempo, repubblicano oltranzista e già in primo piano nella stagione del maccartismo che sarà a lungo vicino a Trump come all’imprenditore dei media Rupert Murdoch.
È Cohn, solito a servirsi del ricatto e delle minacce e spregiudicato a tal punto da essere radiato dall’ordine degli avvocati nel 1986, ad iniziare il futuro presidente alla sua personalissima «etica» del potere. Un «potere vero» che, nelle sue parole, «tanto per cominciare non ammette contorni non vuole confini non sta nei recinti e come tale non conosce regole né leggi se non quella del mantenere e conservare se stesso, nonostante tutto e sempre».
Cohn stesso suggerirà a Trump tre regole per vincere ad ogni costo: attaccare sempre, non ammettere niente e dire che hai vinto e non ammettere mai la sconfitta. Una lezione che il «Golden Man» mostrerà di aver appreso a meraviglia, quando, decenni più tardi, dalla Trump Tower si trasferirà alla Casa Bianca, trasformandosi nell’interprete più credibile di una sorta di fascismo pop nel quale, come ama ricordare lo stesso Donald citando «un certo Grisom, re del poker», ad un certo punto, come al tavolo verde, in mezzo ai perdenti, ti accorgi «distintamente che tu solo non sei più un perdente, e che la mano è tua».
GUIDO CALDIRON
foto: screenshot, particolare della copertina del libro