La retrocessione culturale è un problema di primaria importanza perché oggi la diffusione dell’informazione o, se vogliamo, la propagazione delle notizie che dovrebbero essere supportate da cronache separate dalle opinioni è immediata e non necessita dei corrieri postali del Settecento che impiegavano dieci giorni da Parigi a Marsiglia per annunciare che Luigi XVI se l’era data a gambe (anzi in carrozza) verso il confine col Sacro Romano Impero per tornare alla testa di un esercito di mercenari e mettere giudizio ai rivoluzionari che prendevano campo.
Oggi, almeno in questi casi, i cavalli possono riposare. Ci pensa Internet, mediante il complesso sistema satellitare che gravita attorno al pianeta Terra, a far circolare in men che non si dica qualunque tipo di buona, cattiva o falsa nuova che sia. L’era della digitalizzazione ossessivo-compulsiva è iniziata da qualche tempo: noi fingiamo che tutto sia sotto controllo, ma non è così. Ben prima dello scoppio della pandemia da Covid-19, lo smercio a buonissimo mercato di notizie falsissime era florido e mostrava tutti i segni di una ulteriore torsione peggiorativa.
Abbiamo imparato a chiamarle, ovviamente con un inglesismo, “fake news“. Milioni di “meme” (quindi di cartoline-immagini con sopra scritte le scempiaggini più risolutamente proposte a miliardi e miliardi di individui) hanno sostituito le prime immagini che postavamo su Instagram: nato come il social delle fotografie, ha soppiantato il verboso e verboso fratello maggiore Facebook ed è parso uno strumento per raccontarsi senza sprecare molte parole e senza dover dare troppe spiegazioni. La concettualità, risorsa preziosa dello stimolo dialettico del nostro già povero moderno cerebro, ha subito una nuova compressione.
Meno lettura, più intuizione mediante le immagini: velocità, velocità, velocità. Ne consegue che l’assimilazione giornaliera di migliaia di immagini provoca in chiunque un caleidoscopico cortocircuito di sensazioni, di emozioni, di ispirazioni che, non avendo il tempo di esprimersi compiutamente, finiscono con l’essere più che altro delle induzioni alla credenza sensazionalistica del sentito dire che si fa prima paleonotizia e poi protoinformazione.
Ma, concretamente, non contribuisce in nulla nell’aumentare il livello critico di apprendimento e regala soltanto qualche sorriso se si tratta di barzellette, di più o meno divertenti “reel” (altro inglesismo per descrivere dei brevi video da scorrere “scrollando” (ma letteralmente…)) in cui si cimentano tutt’altro che consumati attoruncoli di provincia nel mostrare le loro abilità o nell’attirare l’attenzione per avere più visualizzazioni e monetizzare… Di culturale, in questa enorme, titatica, pantagruelica produzione di immagini e parole non vi è praticamente nulla.
Fin qui si parla di un utilizzo di Internet piuttosto innocente: ridere per ridere, nessuno si fa male. A meno che su Tik Tok non si rimanga prigionieri dell’ossessione per le “challenge” (le sfide…), tentando l’effetto emulazione in pericolose acrobazie sui muri dei palazzi, saltando da un tetto all’altro, camminando sui convogli dei treni, sfidando così il brivido dell’impossibile, della sorte, del destino, di un avventura che a volte finisce male e qualche ragazza o ragazzo termina così la sua breve esistenza.
Se negli anni Novanta si percepiva una qualche forma di “cannibalismo televisivo“, e ne scrivevano a tale proposito eminenti critici radio-catodici, oggi, nel giro di pochissimi decenni, siamo stati proiettati in una dimensionalità ulteriore, completamente impensabile soltanto trent’anni fa. Sembra un tempo lungo? Non lo è affatto se si ragiona su come si viveva soltanto sul finire del secolo scorso e su come oggi ci siamo alacremente abituati ad avere come protesi dei nostri corpi e delle nostre sempre più povere menti tutti i supporti telematici consacrati alla dea dell’Indispensabilità.
Tablet, telefonini, orologi supertecnologici che misurano la pressione sanguigna, parlano, mandano la posta elettronica e hanno altre mille funzioni compreso il rilassamento notturno. Del resto o questa vita la affidiamo alla semplicità totale, pur nella crisi verticale del capitalismo neoliberista che individua nell’Occidente e nell’Asia in velocissima via di sviluppo il terreno di sfruttamento dell’emozionalismo a buon mercato, oppure rischiamo di essere tacciati per coloro che, “boomer” oltre ogni quantificazione da generazione X, Y, Z, non comprendono i mutamenti antropologici e sono condannati all’irrilevanza.
E sia. Adeguiamoci, siamo “resilienti“, cerchiamo di capire e mantenere comunque anche un po’ di contatto con l’esperienza, col passato che, per quanto possa sembrare inutile, è il retroterra su cui ogni giorno si sostiene questa finta modernizzazione globale. Però c’è un limite a tutto, dice la vulgata comune. Se è così, allora rischiamo davvero di non riuscire a coniugare la malsana abitudine alla verifica delle fonti, al principio da metodo storico di scrittura sulla base del contesto in cui i fatti si sono svolti (con note, ricerche, confronti delle testimonianze) con una superficialità davvero disarmante.
Non si può pensare di affermare tutto e il contrario di tutto. Non si può, soprattutto, avere la presunzione di essere depositari di un criticismo pressoché assoluto che propone e dispone della verità in quanto tale e ogni altra fonte informativa è corrotta, ipocrita, falsa, priva di qualunque aderenza alla realtà perché in questa c’è la quintessenza del complotto a tutto tondo. Che l’uomo non avesse messo piede sulla Luna lo sospettavano già eminenti giornalisti degli anni Sessanta del Novecento. Ma allora il complottismo germogliava e viveva in una ristretta cerchia di addetti ai lavori.
Si vociferava, si ipotizzava, ma alla fine si aveva fiducia nella scienza e, nonostante si sospettasse che il governo americano, nella famosa Area 51 nel deserto, nascondesse chissà quali abitanti dello spazio scesi sulla Terra e intercettati dalle macchine fotografiche di decine di migliaia di aspiranti ufologi, la corrente prevalente era quella della razionalità correlata alla realtà e viceversa. L’hegelismo forse non era direttamente e utilmente responsabile della concretezza ragionata e ponderata delle opinioni, ma succedeva – per quanto oggi sembri strano – che prima di parlare si pensava.
Si ascoltava, ci si infervorava anche e si dibatteva con grande entusiasmo e rabbia. Ma le opinioni, proprio perché costrette a viaggiare su una onda di frequenza minore rispetto a quelle attuali, avevano proprio il tempo di essere valutate e discusse. Non semplicemente propagate come una eco che si perde indistintamente nell’immaterialità dell’eterea infinità della voce che chiama nel deserto nostro e dell’altro da noi. La proprietà del linguaggio si è così assottigliata a tal punto da reputare le parole come dei mezzi e non come dei fini. Scopo della comunicazione è interagire per aumentare il livello di comprensione reciproca.
Invece, oggi, noi il più delle volte parliamo per sentito dire e non verifichiamo nessuna informazione. Così capita che qualcuno pubblichi su Facebook la notizia della morte di un attore o di un cantante mentre è ancora in ottima salute, vivissimo e vegetatissimo. Il rapporto tra realtà ed immaginazione, che è oggettivamente contestuale nel nostro vivere quotidiano e che non può essere sostituito da un dogmatico iper-realismo dal sapore reazionario, non è più quello della compenetrazione vicendevole.
Oggi prima si immagina sospettando complotti da parte di chiunque verso chiunque e poi si tenta una qualche, improvvida, impropria e imprudentissima afferenza con una realtà che, smentendo i presupposti immaginifici del pressapochista di turno, viene così rifiutata e rigettata alle ortiche. La favola esopica della volpe e dell’uva, come si può constatare, è sempre molto, molto attuale. Cosa se ne deduce? A quale non-conclusione si arriva?
Forse che abbiamo bisogno di una serie di certezze affidate ad un modellamento della realtà su standard sempre più singolari e che, nel nome della disperazione globale che il capitalismo ci affida in termini prettamente materiali, sommando il tutto all’ancestrale bisogno del dare un senso all’esistenza, finiamo col rifugiarci in una nuova oppiaceità popolare che oltrepassa l’effetto narcotico e lenitivo della religiosità come superstizione. La fede merita rispetto, la superstizione no.
E il complottismo è superstizione, perché è insincero, perché parte da presupposti che non sono nemmeno lontanamente riconducibili ad un qualche dato storicamente dato. Il Cristianesimo, l’Islam, l’Ebraismo e molti altri culti anche non monoteistici si rifanno ad un pregresso millenario in cui si sincretizzano appunto storie narrate e riportate dai più celebri cronisti delle epoche passate con un tradizionalismo popolare che ci insegna come le credenze possano avere risvolti di varia natura. Ma pur sempre si tratta, senza ombra di dubbio, di passaggi epocali e quindi fondati su un tentativo di comprendere e di comprendersi.
Nella estrema modernità del trumpismo muskiano nordamericano, dopo la crudele fase del biennio pandemico, il complottismo è diventato la manifestazione di una frustrazione introitata mediante la sfiducia progressiva nei confronti del politicismo di bassa lega, del tradimento degli interessi sociali, popolari, di massa. Quando non si crede più alla rappresentanza democratica come valore eticamente politico ed istituzionale, ciò accade perché chi doveva interpretare quei dispositivi di gestione del bene comune ha tradito più e più volte le aspettative delle fasce più deboli delle popolazioni.
La perdita di aderenza tra noi e la realtà, il rifugio nell’immaginifica pianificazione dei complotti è la filiazione di un processo di scostamento da una disillusione che non si vorrebbe accettare come compagna esistenziale, ma di cui troppe volte si è provato l’abbraccio ferale. Ed è così che si moltiplicano gli ambienti utili alle teorizzazioni MAGA, alle narrazioni iperboliche dell’età dell’oro americana fatte da Trump davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America. Per un’ora e mezza quel consesso pareva essere una riedizione della adunate alla Krolloper sotto l’imponente aquila ad ali spiegate.
Non di meno, la retorica del presidentissimo-magnate, le risate del suo vice alle spalle, i plausi sperticati di metà della platea, non erano molto diversi dai sorrisetti di Hermann Wilhelm Göring alle spalle di Hitler o del trasporto estasiato della primissima cerchia dei gerarchi del regime seduti accanto e nelle file prospicienti la tribuna del cancelliere-presidente del Reich. Per ultima considerazione proponiamo una immagine. I capaci di intendere e di volere ci perdoneranno anzitempo:
Lo si può leggere dalla didascalia di Fox News. Questo è il segretario di Stato americano Marco Rubio, praticamente il ministro degli esteri di Donald Trump. Quando ho visto la foto ho pensato ad una “fake news“, ad un “meme“, per l’appunto. Qualcuno si era divertito a tracciare una croce sulla fronte di uno degli esponenti di spicco del governo della Repubblica stellata. Invece no. È tutto vero, non c’è trucco, non c’è inganno. Nemmeno i cardinali e il papa si tracciano sulla fronte una croce per il Mercoledì delle Ceneri… Marco Rubio sì.
Il livello, dovrebbe essere più che evidente, è sceso tanto, tanto in basso. Fanatismi religiosi, recrudescenze repressive, intolleranza verso il dissenso, la critica, la libertà di espressione. Il vicepresidente Vance che, alle proteste di un deputato democratico verso Trump, fa segno alla sicurezza di cacciarlo fuori senza altro indugio… Ce la possiamo fare… Ma tra complottisti sulla morte di papa Francesco, terrapiattisti e trumpiani, il gran circo tragico del mondo va ogni giorno orribilmente in scena e noi dobbiamo in qualche modo resistere.
Se non lo facciamo, davvero non c’è più speranza, per qualche generazione, di salvare il salvabile, di recuperare un minimo di intelligenza critica alle grandi potenzialità di una umanità che potrebbe darsi una esistenza migliore e degna del ruolo che, per caso o per ispirazione razionale dell’essere che non può non essere, in qualche modo ha. Che sarà della nostra casa, della Terra, se viene meno una resistenza critica locale e globale? Abbiamo, come progressisti e come comunisti questo compito, da cui non possiamo deflettere.
MARCO SFERINI
7 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria