Connect with us

Hi, what are you looking for?

Il portico delle idee

Trimurti laica, filosofica e politica tra verità, sincerità e realtà

Esattamente cosa può significare oggi essere veritieri, sinceri? Avere un rapporto tra noi è il reale diretto, senza infingimenti di sorta, senza alcuna mediazione metaforica e, quindi, ad esempio testimoniare ciò che è in quanto ci appare, oppure avere contezza di quello che ci appare e indagare senza dare per scontato niente e nessuno? Molte domande in una sola perché il tema è piuttosto complesso e, dunque, è giustificabile il ricorso ad una serie di interrogativi che possono sembrare cervelloticamente votati ad una cortocircuitazione un po’ enigmatica ed enigmistica, ma che, in realtà, non mirano ad un tale livello di presunzione.

Questo perché le domande sulla verità e la sincerità sono antiche come il mondo: soprattutto quelle che si riferiscono al vero in quanto dato di fatto. Quello che è oggettivo, constatabile sensibilmente, è indubitabilmente vero. Qui il punto tra la percezione della verità, ad esempio, nel mondo antico e il tipo di percezione che ne abbiamo oggi si manifesta in tutta la sua mutevolezza. Greci e romani potevano ritenere che il vero avesse una corresponsione con il dimostrare la veridicità dei fatti, la consonanza tra dire e fare, tra proclamare e realizzare, tra teorizzare e mettere in pratica.

Nel mondo antico il concetto di verità come sinonimo della sincerità non è misconosciuto e, anzi, ricorre molte volte nelle opere dei più importanti pensatori che hanno attraversato i secoli prima e dopo Cristo, ma più ancora si ritrovano domande, elucubrazioni e sviluppi dialogici sul tema della verità come sincerità dell’esistente, come vera e propria ontologizzazione dell’oggettività. Ciò che è ha, quindi, una sua essenza in quanto vero perché in quanto tale. Del resto, l’ipocrisia è, etimologicamente intesa, come mascheramento, dissimulazione. L’ipocrita è colui che finge, che non si mostra per quello che è. E di nuovo l’essenza torna ad essere, per l’appunto il termine di paragone con la verità in quanto prodotto della sincerità.

Venendo più vicini temporalmente a noi, nella quasi contemporaneità del pensiero filosofico (e scientifico), troviamo una confutazione di questo principio di coincidenza tra essenza della verità ed essenza dell’essere stesso non tanto nel suo carattere prettamente ontologico, quanto nella concezione passiva del fatto: la verità non è solo constatabile come “sostanza” inerte e compenetrata quasi solamente dalla qualità di una oggettività ininterpretabile. La realtà, e quindi la verità che esprime di per sé, è qualcosa di attivamente soggettivo che diviene parte del processo dialettico che Hegel descrive e su cui innesta tutta una serie di supposizioni e domande aperte e niente affatto chiuse in un autoreferenzialismo dogmatico.

Questo movimento autocosciente diviene dunque un processo in cui il confronto è necessario ma nel quale, secondo la famosa frase che un po’ tutti conoscono (si spera…), «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». A questa correlazione tra logica umana e concretezza dell’esistente si somma la convinzione che nell’interezza sta la verità, la certezza, mentre nella parzialità si ritrova il non-vero, l’incerto, il presupposto e l’ipotetico e, dunque, anche il non-reale. Tuttavia la coincidenza tra verità e interezza per Hegel non è immediata perché il divenire della realtà è, per l’appunto, qualcosa di mutevole e di incessantemente tale.

Non vi è staticità nel processo dialettico e, per questo, si passa dall’astrattezza della considerazione meramente intellettiva delle cose, delle persone, dei fatti stessi che appaiono come separati gli uni dagli altri, al momento cosiddetto “speculativo” in cui chi osserva le singolarità comprende che sono interagenti fra loro e sono comprese nell’insieme di una realtà che, proprio in questa chiave di lettura, diviene propriamente tale. L’assoluto infinito di Hegel è la verità che coincide col tutto e che, quindi, è superiore alle non-verità rappresentate da ciò che è parziale e che, di per sé, non può essere il vero per antonomasia. In sintesi, il finito si risolve nell’infinito.

Questa “infinitudine” è, del resto, superando la dialettica di her Professor, motivo di ulteriore considerazione nel rapporto tra ciò che si può e ciò che si può sapere: poiché siamo consapevoli del fatto che la verità assoluta è una mera supposizione e non la si può riscontrare ontologicamente nel qui ed ora come in un altro tempo o in un altro luogo, seppure pensati univocamente, si finisce col tornare al punto di pre-partenza rispetto alle considerazioni poco sopra citate e che riprendevano il pensiero di Hegel. Il parziale è, sostanzialmente, conoscibile perché indagabile; l’assoluto e l’infinito non avendo un termine di paragone se non nel loro esatto contrario, sono indagabili soltanto astrattamente.

La verità, quindi, è possibile solo nell’oggettivamente piccolo e afferente comunque alla sfera delle umane sensazioni? Possiamo riscontrare il vero soltanto nel visibile, nel percepibile al tatto, all’udito, all’odorato e al gusto delle nostre papille? Sembrerebbe di sì, se si riporta la discussione su un piano dell’essenza, dell’esistente da noi catalogabile attraverso, per l’appunto, tutte quelle categorie che la nostra autocoscienza ci permette di strutturare e di enunciare. La sincerità, a questo punto, ne è la discendente quanto meno logica. Dal vero non può che derivare il sincero e, mediante un linguaggio privo di artifici e di mediazioni metaforiche, si può quindi comunicare ciò che realmente è.

Kant avrebbe a questo punto probabilmente parlato di “dovere morale” verso noi stessi e verso gli altri proprio nell’essere sinceri. A questo proposito si può operare una sinestesia tra più sensazioni, che ci fanno comprendere che stiamo trattando qualcosa di reale nel mentre comunichiamo con gli altri, e metterla in relazione con i fenomeni concreti, osservabili e dimostrabili mediante la semplice constatazione oggettiva. Negare la luce del sole è il massimo dell’ipocrisia manifesta. Eppure c’è chi è riuscito, moltiplicando la negazione del reale e rendendola una consuetudine, a creare la convinzione, quindi ad artefare la realtà in tutto e per tutto trasfondendola dal suo essere tale al suo divenire altro da sé stessa.

Hanna Arendt ce lo ha indicato molto accuratamente: mentire per cambiare la realtà agli occhi di una moltitudine è possibile. I nazisti lo sapevano fare. Ma non solo loro. Indubbiamente Joseph Goebbels e i suoi pari erano maestri in un qualcosa che si fa fatica a definire “arte“. Quando si sa che si sta mentendo e lo si fa per convincere gli altri che la menzogna è invece la verità, allora l’artefatto è di per sé un costrutto che riunisce in sé un fattore ontologico privo, tuttavia, di una corresponsione con il reale. Il falso è, poiché falso, qualcosa di non vero e la verità, se disconosciuta per seguire la convinzione assimilata dalla massa, diventa irrilevante.

Ecco che la verità è capovolta e la falsità la sostituisce fisiognomicamente. Ci si può convincere di qualunque cosa se il potere della suggestione aumenta a dismisura e diviene, quindi, un instrumentum regni, un’arma della propaganda politica che modifica i rapporti tra scienza e coscienza, tra il sapere oggettivo e dimostrabile, in quanto evidenza manifesta, e la percezione soggettiva. Per l’appunto ne “La menzogna in politica” (Marietti editore, 2018), scritto negli anni Settanta del secolo scorso, l’acutezza filosofica della Arendt prende le forme anche di una critica quasi antropologica che riguarda il comportamento umano proprio entro le relazioni della gestione del bene comune: dalla comunità primordiale alla forma dello Stato.

La politica che la filosofa tedesca (naturalizzata statunitense e di origine ebraica) analizza in allora è quella di una amministrazione americana che, proprio con la propaganda a tutto spiano altera dati che riguardano ingenti perdite umane nella guerra del Vietnam, nonché spese militari veramente esorbitanti. Il punto in questione qui è la sincerità del potere che mette in discussione, se tradita dal potere stesso, le fondamenta costituzionali e democratiche di un intero Stato, di una potenza mondiale, di una comunità nazionale fatta di centinaia di milioni di cittadini.

A pensarci bene, è davvero illusorio che chi esercita il potere possa essere completamente sincero con sé stesso e abbia un sussulto di coscienza-etica del proprio agire se da questa sincerità deriva, necessariamente, una perdita delle proprie posizioni – per l’appunto – di potere e magari la rovina della coalizione che in quel momento governa. Verità e politica sono destinate quindi ad essere dicotomiche? Non in assoluto, ma in linea di principio la corruzione morale è figlia di quella più sostanzialmente materiale e l’insincerità diventa qualcosa di dogmaticamente presente nella povera arte oratoria dei parlamentari che “devono” difendere ad ogni costo, oltre ogni principio di verità e di sincerità, l’operato del loro governo.

Riprendendo il filo di questa breve trattazione del rapporto tra verità e sincerità, e di queste con il pensiero filosofico, non si può non considerare l’aspetto prettamente scientifico della questione: non fosse altro perché in noi alberga l’idea che una verità che riguarda la realtà è propriamente di chi fa ricerca, di chi elabora dati, di chi osserva con attenzione ciò che è oggettivamente constatabile mediante i sensi. Ma, riflettendo più attentamente o, se vogliamo, ponendoci quindi maggiori dubbi (proprio come fanno gli studiosi che operano nei laboratori), ci si rende conto che sovente noi “inventiamo” delle verità e che le pensiamo in quanto sono, più che altro, delle “nostre” evidenze.

Quindi può esistere una verità in assoluto e in relazione, al contempo, con delle verità relative? Se per verità assolute (ma non la Verità con la vu maiuscola, per antonomasia, che definisce tutto e tutti e consegna un senso all’esistente senza alcuna interpretazione di sorta) si intendono i princìpi generali su cui si innestano poi tante subordinate particolari, allora possiamo rispondere affermativamente: è vero, ad esempio, che la Natura ha una serie di regole, di processi meccanicistici, della “leggi” secondo cui si ripetono i comportamenti della e nella materia che ne hanno modificato l’essenza ma che non contraddicono i fondamentali della stessa.

La verità e la sincerità appartengono alla coscienza che è parte della materia organica ed autocosciente (per l’appunto!). L’esistenza appartiene a tutta la materia. Se sia vera o se sia una grande sciarada, una apparenza che poi risulterà essere un inganno, una allucinazione dai contorni completamente realistici, è questione che trascende le capacità intellettive e conoscitive nostre. I nostri limiti li conosciamo. O almeno dovremmo e, per questo, verità e sincerità restano parziali ma necessarie per non illuderci ancora prima che il nostro tempo sia finito e dall’organico ed autocosciente si passi nuovamente nello stato molto più comune dell’inanimato.

MARCO SFERINI

26 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

Written By

SOTTO LA LENTE

Facebook

TELEGRAM

NAVIGA CON

ARCHIVIO

i più recenti

Marco Sferini

Visite: 78 La destra ha un problema con la sessualità, col sesso, col genere, con l’essere delle persone. Ce lo ha, per lo meno,...

la biblioteca

Visite: 137 Non meno oggi rispetto ai tempi del regno di Lucio Domizio Enobarbo, altrimenti conosciuto con il nome di Nerone, imperatore romano che...

Analisi e tesi

Visite: 43 Ieri la consegna della laurea honoris causa. Un’occasione per riflettere sul senso del cinema nel tempo presente Una lezione magistrale fortemente politica...

Marco Sferini

Visite: 249 Festeggia con un cabaret di pasticcini, portandoli in giro per l’aula della Knesset. Itamar Ben-Gvir ha contribuito a far approvare una legge...