Tarkos, l’animale parlante è nella pastaparola

Poesia francese. Non-intenzionalità del dettato poetico e infinita dicibilità del mondo: il talento performativo di Christophe Tarkos (1963-2004) nel suo ultimo libro, ora tradotto da Tic edizioni: Anacronismo

In una storia parallela della poesia francese e della poesia italiana, l’anno 1979 avrebbe un’uguale importanza, ma un significato opposto. In Italia, la vicenda del Festival di Castel Porziano segna, nella lettura che ne diamo oggi, la fine di una stagione di sperimentazioni e, più in generale, la definitiva perdita d’aureola del poeta. In Francia, invece, nasce il Festival Polyphonix, che conoscerà più di cinquanta edizioni, grazie alla sua formula di evento itinerante e autogestito dagli artisti.

Tra i suoi fondatori c’è Jean-Jacques Lebel, grande amico delle avanguardie e agitatore culturale. Per la poesia francese, e in modo particolare per l’area «di ricerca», il festival segnerà un vero e proprio traghettamento di pratiche, autori, tradizioni più o meno minoritarie verso il nuovo secolo. Questa circostanza, tra varie altre, ha consentito in Francia la circolazione di un’idea della poesia non come genere definito esclusivamente in rapporto alla tradizione lirica, ma come indicatore di una pluralità di pratiche anche difformi rispetto a quella tradizione.

Entro questo specifico orizzonte si è formato Christophe Tarkos, poeta risolutamente del ventunesimo secolo, seppure nutrito di esperienze novecentesche (dalla poesia sonora a quella concreta) ancora vive e pimpanti a metà degli anni novanta, al momento del suo esordio. Poco più di cinque anni d’attività sono stati sufficienti a fare di lui una figura leggendaria, e uno dei poeti più influenti della sua e delle successive generazioni. A soli 41 anni, nel 2004, Tarkos muore per un tumore al cervello.

La sua opera completa è stata raccolta e commentata in due volumi usciti per P.O.L., nel 2008 (Écrits poétiques) e nel 2014 (L’Enregistré: performances / improvisations / lectures). Oltre a essere l’autore di una decina di libri, Tarkos, in compagnia di altri amici poeti (Stéphane Bérard, Nathalie Quintane, Katalin Molnàr, Charles Pennequin, Vincent Tholomé), ha prodotto artigianalmente una serie di riviste con una facilità e un’impertinenza, che ricordano l’esperienza delle fanzine punk del decennio precedente. Ciò che più lo ha caratterizzato, però, di fronte al pubblico e agli addetti ai lavori nella breve stagione della sua attività poetica, è stato il talento performativo.

L’interesse che suscita oggi il lavoro di Tarkos nasce, in realtà, dalla sua capacità di mettere in crisi tutta una serie di categorie critiche che, in Francia come in Italia, tentano di definire il campo poetico. Noi ci siamo abituati a contrapporre poesia del libro (della lettura silenziosa) e poesia della scena (dell’oralità), taglio versale e blocco prosastico, installazione «fredda» dei prelievi e improvvisazione performativa «calda». Leggendo e ascoltando Tarkos, queste dicotomie sono rese inservibili, o necessitano di un radicale ripensamento. Nel suo approccio sono riconoscibili due principi fondamentali: la non-intenzionalità del «dettato poetico» e l’infinita dicibilità del mondo.

Il terreno specifico entro cui essi entrano in gioco è quello che l’autore stesso definisce pâte-mot, la pastaparola, ossia il flusso verbale, quale si manifesta nella quotidiana presa di parola dell’enunciatore. La poesia non si situa né alle frontiere remote del dicibile, secondo la tradizione di matrice orfica e simbolista, né si contenta di sabotare la linearità del discorso e di dissolverne i significati, secondo l’eredità avanguardistica. L’animale parlante è nella pasta-parola, ossia invischiato in una gestualità sonora e verbale che precede ogni volontà-di-dire, ogni specifico lavoro espressivo, e produce comunque senso.

È su questo terreno ordinario, elementare, che si attesta l’esplorazione di Tarkos: «no, non è vero che non si dice niente, si parla senza sosta, si parla e tutto quel che si parla è quello che darà un senso a tutto quel che si parla» (da Le signe =, un libro «manifesto» del 1999).

Oggi grazie alla piccola casa editrice Tic di Roma e alle sue collane «ChapBooks» e «UltraChapBooks» sono disponibili ben due titoli di Tarkos in italiano: I soldi, uscito nel 2018, e Anacronismo, uscito quest’anno (pp. 238, euro 16,00), entrambi nella traduzione di un poeta che frequenta da decenni la poesia francese contemporanea, ossia Michele Zaffarano. Anacronismo è anche l’ultimo libro pubblicato da Tarkos in vita, uscito in Francia nel 2001. Si presenta come un inventario d’inventari, ma è il dicibile a essere inventariato, ogni occasione di dicibile, e secondo una logica non sistematica, ma «energetica», che ben conoscono i lettori del Beckett maturo (almeno a partire dai Testi per nulla): il componimento finisce per esaurimento delle combinazioni-variazioni-ripetizioni compattate in un paragrafo.

E ogni incipit mostra che la necessità di dire non conosce gerarchie: «Esther è quella con un cavolfiore sulla testa, con una piuma sulla testa, con una candela accesa appoggiata sulla testa…», «Le vespe, le formiche di velluto, i crisidi, il topolino malformato, il pesce elettrico d’acqua dolce…», «Se cerchiamo un personaggio, c’è quello che piagnucola spesso, e poi c’è quello che piange di sera…», «Forse sulle macchine ci si può spingere un po’ di più, la scavatrice, l’aspiratore, il tritacarne…».

L’enunciatore di Tarkos non ha nulla, però, alle sue spalle: né la lingua come sistema e codice definito, né il mondo come organizzazione comprovata di oggetti. Per gesti esplorativi e non pianificati, egli cerca nella parola proferita qualcosa da pensare e comprendere, ossia un modo provvisorio d’intrecciare frasi e di profilare il mondo.

La realtà cessa così di essere, nella parola poetica, ciò che ne fa l’ideologia, ossia un orizzonte pietrificato e immodificabile. «La realtà non inventa niente, sono io che invento tutto, sono io che mi devo inventare tutto, lei non sa fare niente, sono io che devo fare tutto per lei, lei è moscia, faccio tutto io, mi devo far carico io di lei, di quello che sa fare, lei non fa niente, non sa fare niente, si lascia andare…».

ANDREA INGLESE

da il manifesto.it

foto tratta da Wikimedia Commons

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