«Andiamo avanti». La reazione del governo all’ennesimo fallimento albanese viene solo sussurata in via ufficiosa. Per il resto, a parte la poca assennata intemerata del capogruppo FdI Bignami contro il manifesto, reo di aver diffuso una notizia, nel governo e nella maggioranza regna una consegna: quella del silenzio perfetto. In certi casi l’unica via d’uscita è far finta di niente sperando che la figuraccia sfugga di vista.
L’interpretazione del governo, in attesa delle motivazioni delle sentenze gemelle di Cassazione che affondano il terzo tentativo di uscire a testa non troppo bassa dal disastro del centro di Gijader, è che tra una riga e l’altra c’è spazio a sufficienza per procedere comunque. O almeno per far finta. Una delle sentenze, argomentano, riguarda solo i Paesi con i quali non vige un mutuo trattato per i rimpatri. Ma quelli con cui quel trattato vige si contano. E non si capisce bene cosa i pochissimi interessati stessero a fare in Albania.
Il secondo caso indicato dalla Cassazione, secondo il governo, coinvolge solo i cittadini stranieri che non hanno richiesto asilo. Chi lo ha richiesto e gli è stato negato potrà comunque essere deportato oltre mare. Salvo che lo richieda di nuovo, tornando così a essere richiedente e dunque soggetto alla «richiesta di chiarimento» inoltrata dalla Cassazione alla Corte penale europea di Lussemburgo. I «dubbi» sulla compatibilità dei trasferimenti con le norme Ue quasi non lasciano scampo.
Il silenzio dei governanti è rumorosissimo. Meloni è in missione nel Kazakhistan. La distanza non le impedisce di disquisire un po’ su tutto con una sola eccezione: la sberla della Cassazione, il terzo flop consecutivo. Un record. Salvini, solitamente gran divoratore di immigrati clandestini, è occupato a costruire ponti. Non gli si faccia perder tempo. Piantedosi, ministro dell’Interno, è in Spagna proprio per discutere di immigrazione. Preferirebbe glissare ma rivendica «come Italia», il «primato di aver avviato la discussione sugli hub extra regionali per il rimpatri dei migranti, che poi si svilupperà in Ue».
Il mutismo di tutti gli altri non è segno di imbarazzo. È che in caso contrario bisognerebbe ammettere la sconfitta, dichiarare la resa, rassegnarsi a quella che era sin dall’inizio la sola strada: aspettare il pronunciamento della Corte del Lussemburgo scontando l’accusa, inevitabile perché giustificata, di aver buttato soldi a valanga in un’operazione non solo sbagliata nei fondamentali ma anche tradotta in pratica con rara inettitudine. Per evitare quella figuraccia, dal novembre scorso, la premier prova ad aggirare l’ostacolo con percorsi sempre più funambolici, prima sottraendo la competenza alla Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma solo per vedere il medesimo verdetto confermato dalla Corte d’Appello, poi modificando la funzione dell’edificio fantasma eretto in Albania ora svuotato di nuovo dalla sentenza degli ermellini.
Ogni rilancio si è risolto in figuracce ancora più incresciose. Non c’è da stupirsi se ieri l’intera opposizione ha bersagliato il governo con toni a metà strada fra la denuncia e l’irrisione. Il fiore all’occhiello dell’esternalizzazione, il progetto di circondare la fortezza Europa con un anello di Paesi e pronti a sporcarsi le mani purché ben pagati, si sono sin qui risolti in una farsa imbarazzante e inutilmente costosa. La decisione di «andare avanti» comunque condanna il governo a restare sulla graticola ancora a lungo.
I «chiarimenti» chiesti dalla Cassazione non arriveranno infatti a stretto giro. Anche se fosse accolta la richiesta di procedere d’urgenza ci vorrebbero mesi. In novembre dovrebbe arrivare l’altra decisione, quella sui Paesi sicuri che dovrebbe sbloccare o affossare il piano albanese della premier. La grande maggioranza dei Paesi europei sta con lei, preme per una sentenza che permetta l’esternalizzazione dei campi, permetta all’esperimento pilota italiano di decollare. Ma la lentezza della Corte, la scelta di affidarsi alla procedura accelerata invece che d’urgenza e il rinvio da giugno a novembre autorizzano il sospetto che tra politica e amministrazione della giustizia qualche problema ci possa essere anche a Bruxelles. Come nell’America di Trump. Come nell’Italia di Giorgia Meloni.
ANDREA COLOMBO
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