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Marco Sferini

Successi governativi: la miseria nera di milioni di italiani

Nella splendida Italia dell’anno terzo dell’era meloniana, le famiglie che sono al di sotto della soglia di povertà sono aumentate fino a raggiungere la cifra di due milioni e duecentomila. Cinque milioni, invece, sono invece il totale di quei nuclei che fanno fatica a mettere insieme pranzo e cena, a comperarsi un abito, a curarsi, a pagare l’affitto, le bollette, le tasse. Quindi, a conti fatti, ci sono circa sette, otto milioni di cittadine e cittadini che non hanno accesso ai servizi essenziali per una vita mediamente normale.

Questo perché, nonostante certi servizi esistano ancora – a dispetto dell’onda di privatizzazioni che ha invaso la Penisola da molto tempo a questa parte – non si è in grado nemmeno di pagare un ticket per le prestazioni sanitarie che, tra l’altro, sono sempre più inaccessibili viste le lunghe liste di attesa.

Si muore di cancro anche perché la malasanità allunga così tanto i tempi per le visite più impellenti; questo perché mancano le strumentazioni adeguate e, soprattutto, manca un personale medico ed infermieristico, gli organici sono molto al di sotto di quella che è la domanda che viene dalla popolazione. Il diritto alla salute, come altri diritti fondamentali, non è un vero diritto se non è per tutte e tutti e se non lo è prontamente.

Il rapporto dell’ISTAT, datato 14 ottobre 2025, rende molto bene la tragicità delle condizioni in cui versano, in povertà assoluta, quasi sei milioni di persone. Questo solo come dato dovrebbe bastare a qualunque governo per dare seguito ad una politica di riforme sociali e di incentivo delle risorse atte a proteggere i più fragili e deboli.

Nemmeno a dirlo, l’incidenza maggiore di questa incedente povertà moderna la si registra al Sud dove coinvolge quasi un milione di famiglie, pari al 10,5% del totale della popolazione meridionale. Tuttavia anche nel Nord-Ovest e nel Nord-Est l’ISTAT segnala che, rispetto agli anni precedenti, le percentuali sono in crescita e quindi si va verso una lenta, progressiva, inquietante, pure ancora parziale, omogeneizzazione dei dati sull’indigenza cronica ed endemica un po’ in tutta Italia.

Nel complesso il quadro che emerge vede una sorta di strutturazione della condizione di disagio: il che non significa affatto che sia un riscontro positivo. Semmai se ne ricava una irregimentazione di un’economia sempre più di guerre e sempre meno pubblica e sociale.

Davvero spaventoso è il dato che concerne i minori in stato di urgente bisogno: più di un milione e mezzo di bambini e adolescenti che, quindi, dal 2014 in avanti – quando l’ISTAT ha iniziato queste rilevazioni – fanno registrare il dato in assoluto più alto e destinato a crescere visto che il governo Meloni non intende sopperire con sostegni concreti ai bisogni dei più drammaticamente ai margini di una società in cui la forbice tra grandi ricchezze e grandi povertà si è decisamente acuita.

C’è poi una correlazione negativamente interessante che balza agli occhi: la condizione di indigenza non è più strettamente legata alla disoccupazione, ma anche tra chi lavora sale al 9,5% (quindi in quella che si chiama “fascia produttiva“, tra i 35 e i 64 anni) e si alza al 15,6% per tutte quelle famiglie che hanno nel loro nucleo un lavoratore dipendente. Mentre la percentuale scende al 2,) per chi è quadro dirigente. Mentre le previsioni della spesa pubblica per il comparto militare salgono a dismisura, fino al 5% preteso dall’Alleanza Atlantica, calano gli incentivi alle fasce più tribolate.

Di interventi robusti nei confronti delle banche nemmeno a parlarne. Il ministro Giorgetti ha escluso, unitamente ad un Tajani entusiasta, che si possano tassare gli extraprofitti degli istituti di credito. La ratio di ciò sta esclusivamente nella tutela dei grandissimi ricchi che sono i migliori sostenitori di questo governo che non è soltanto autoritario sul piano dei diritti civili e umani, ma che è eversivo là dove si tratta di proteggere il potere di acquisto dei salari e lega l’economia del Paese all’andamento tanto delle guerre, quindi alle speculazioni finanziarie in merito e agli affari delle industrie che producono armamenti.

Il dramma della permanenza la lavoro, del blocco delle assunzioni dirette e indirette, non fa che mettere in pratica il peggio della Legge Fornero, stabilendo in sostanza che il pensionamento è una chimera da raggiungere ad un’età tanto avanzata quanto avanzate sono le pretese del mercato di avere mano d’opera e forza lavoro ipersfruttabile senza dover ottemperare a nuove contrattazioni nazionali e di massa. Per rendere ancora una volta stabile (si fa per dire…) tutto questo, prometteranno e scriveranno ovviamente nero su bianco di nuovi incentivi ma non di nuove contribuzioni.

Giorgetti rassicura su un adeguamento dell’andamento salariale rispetto all’aumento dell’inflazione e del costo del carrello della spesa. Ma intanto il taglio del cuneo fiscale sembra divenire veramente strutturale, proprio come l’intera impostazione di una nuova manovra di bilancio che legge la realtà dal punto di vista degli straricchi e di un ceto medio che viene individuato nella soglia di redditi annui dai cinquantamila euro in sù. In presenza di quella che è oggettivamente una “crescita zero“, il governo Meloni cosa fa? utilizza quella che la Banca d’Italia stessa definisce una linea prudenziale.

Ma non nei confronti dei redditi da lavoro, delle pensioni, delle minime tutele essenziali rimaste. Semmai nei confronti di un comparto di investimenti privati, compresi i profitti enormi delle banche, da cui il governo spera di trarre dei vantaggi con prestiti mirati per appoggiarsi, in caso di bisogno, ad un sostegno che sarebbe poi naturalmente scaricato, nel recupero debiti, sull’intera popolazione. La manovra pensata da Palazzo Chigi si attesterebbe a circa 16 miliardi di euro nel 2026 e sarebbe finanziata sostanzialmente in pareggio di bilancio (in disavanzo per circa un miliardo).

Ben oltre la metà delle risorse da reperire sarebbero tagli sulla spesa piuttosto che tassazioni progressive sui capitali e sugli extraprofitti. La povertà economica dell’Italia di oggi è la struttura di una povertà assoluta in cui la gente non può non cadere se non riceve il minimo indispensabile per sopravvivere e, in più, le si continuano a tagliare i servizi e le possibilità, ad esempio, di curarsi senza dover ricorrere al privato. Invece, Meloni, Giorgetti, Crosetto si impegnano nei prossimi dieci anni a finanziare l’industria delle armi con novecento miliardi di euro.

Lì sì che il Prodotto Interno Lordo farà registrare un alzamento esponenziale: si calcola dal 2 al 5% circa. Un affarone enormissimo per i mercati di droni, carri armati, bombe di ogni tipo. Se tanti soldi saranno investiti in questi comparti, come potranno questo e altri governi trovare, in un breve-medio periodo, le risorse per implementare scuola, sanità, infrastrutture, servizi locali e tutele adeguate che fronteggino i contraccolpi delle instabilità mercatiste derivanti dall’espansione del multipolarismo globale?

Pare evidentissimo che non c’è nessuna possibilità di attendersi da questo esecutivo un benché minimo ripensamento in termini di destinazione numerica delle risorse. Di una aliquota dell’1,3% su mezzo milione di ultramilionari italiani nemmeno se ne parla.

La proposta fatta dalla CGIL viene bollata come demagogica da chi non ha il problema di tirare a campare di mese in mese. L’opposizione è trattata come un fastidio da un esecutivo marcatamente vocato all’autoritarismo, la cui tenuta politica è data da un pieno sostegno all’iperliberismo che persino alcuni settori di Confindustria criticano perché a loro lasciano le “briciole” del PNRR e troppe incombenze rispetto ad un contenimento delle spese inerenti il risparmio energetico e l’innovazione verde che non intendono sostenere.

La ricchezza del Paese, secondo Confindustria, non la si produce con l’IRPEF e con le pensioni. Della redistribuzione della ricchezza, ovvio, nemmeno a parlarne. Il governo prenderà ancora una volta dai più tanti per dare ai meno numerosi, dai diritti sociali per dare ai privilegi fiscali e lo farà cercando di stabilire un equilibrio con le richieste europee e con il nuovo assetto di un’economia statunitense che guarda al suo interno proteggendosi con la politica dei dazi.

Quella che invece servirebbe è quella “frusta competitiva” (così bene definita da Emiliano Brancaccio in un articolo su “il manifesto” di qualche tempo fa)  della ripresa salariale che darebbe una spinta non da poco all’intera economia nazionale. L’espansione del potere di acquisto – lo dicono i maggiori indicatori economici di sempre – è un volano per un capitalismo nazionale che si è accasciato su un vivacchiamento fatto di interventi toppa, di rimodellamenti dei tagli fiscali, di interventi tutt’altro che strutturali.

Un movimento per la rivendicazione del diritto ad un lavoro ben pagato e che, quindi, permetta di uscire dalle secche della sopravvivenza, dovrebbe affiancarsi a quello importante per Gaza, per un umanitarismo che comprenda anche il socialismo inteso come espressione della giustizia sociale, come innovazione di un modo di intendere e fare politica con il primo presupposto della dignità di tutte e tutti, di una occupazione dignitosa e non precaria. Le liberazioni sono tante: da quella strutturale dal profitto a quelle sovrastrutturali dai poteri politici impositivi.

L’unità delle lotte è più che mai necessaria per una convergenza in una opposizione di salvezza sociale e civile che riguarda la stragrande maggioranza della popolazione. A partire da quei milioni e milioni di italiani che sono piombati, nella grande modernità dell’oggi, in una miseria nera…

MARCO SFERINI

16 ottobre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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