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Stranieri morali. Guerra e pace tra le culture

A confutazione dell’idea della “purezza” della “razza“, che riceve la sua più cialtronesca e al tempo stesso tragica concretizzazione nel manifesto fascista, in quel 1938 che è un po’ uno spartiacque tra un regime che ai primordi vagheggiava di identità nazionale e che poi si è lasciato andare al peggio del peggio nell’abbraccio mortifero e omicidiario con il nazismo, se non fosse bastato già il complicato mondo novecentesco in punta di globalizzazione, oggi viene in aiuto la complessità di un nuovo millennio in cui le criticità sono incircoscrivibili nel mero ambito nazionale.

Abbiamo imparato a leggere i confini geopolitici, fin dalle prime cartine storiche appese ai muri delle aule scolastiche, come qualcosa di definito con linee, tratteggi, colori ben marcati che distinguevano uno Stato da un altro. Ed abbiamo, forse per qualche tempo, ritenuto che quei confini fossero un qualcosa di vero, di realmente tangibile. Ma, in realtà, i confini sono sempre labili e suscettibili di così tante modificazioni da poter affermare con tutta serenità che questi stessi vivono esclusivamente nella nostra mente e sono reali soltanto perché li pensiamo e li viviamo in quanto tali.

Quando si passa una frontiera si diventa stranieri in un secondo. Quando si rientra nel proprio paese, si abbandona quella condizione e si ritorna in quella di cittadini a pieno titolo, riconoscendo il luogo in cui si vive da tutta una serie di fattori che si riferiscono tanto alla vita quotidiana e alle abitudini quanto, più propriamente, all’impianto sociale e culturale di una nazione. Oltre la linea del confine la nostre estereità è una percezione che si ha nel raffrontarsi non soltanto con una lingua diversa, ma anche con immagini, persino con suoni differenti da quelli cui siamo abituati.

Cambia lo stile dei cartelli stradali, pur nell’internazionalizzazione dei segnali per gli automobilisti, cambia la segnaletica che indica città, luoghi di interesse storico, paesaggistico; oppure servizi essenziali come le assistenze ospedaliere, gli uffici comunali, le poste, le ferrovie. Esiste quindi un confine sostanziale ed è dato non dalla linea tracciata immaginariamente sulle pianure o sui crinali di colline e montagne, ma da una più articolata separazione tra ciò che si trova in un luogo e ciò che si trova in un altro. Siamo “extra” nel momento in cui non siamo più nel luogo in cui tutto ci è perfettamente congeniale.

L’interessante ricerca socio-antropologica svolta da Milena Santerini in “Stranieri morali. Guerra e pace tra le culture” (Bollati Boringhieri, 2025) mette un accento molto particolare e, per questo, altamente interessante sul ruolo che le differenze culturali hanno in un mondo in cui, ovviamente, la condizione economico-sociale delle persone è il primo motore di un disagio diffuso che spinge, nel portare l’istinto di sopravvivenza alla sua più perversa e pervertibile contraddizione, quella della supremazia di un popolo a scapito degli altri, nella direzione della formazione di squilibri che non conoscono confini e che sono permeabilizzati da altri.

Contrariamente a quella che è la vulgata comune, l’identità nazionale non è più un recinto entro cui sentirsi al sicuro dalla paventatissima contaminazione di altre culture. Su questo presupposto, di una cultura intesa come monolite impenetrabile dalle altre sue consimili, verte l’attenta confutazione di Santerini che smitizza il tutto e inserisce l’elemento culturale nella piena, velocissima mutevolezza dei nostri tempi: più ancora rispetto al Novecento, l’ìnterattività moderna agisce nella direzione dello scambio vicendevole, dell’incontro inevitabile tra piani profondamente diversi.

Non esiste più un confine tra Est e Ovest, tra Nord e Sud, tra Occidente e Oriente: semmai esistono delle nuove vie di comunicazione tanto istantanee e massive da rendere nei fatti un uno molteplicissimo l’intera cultura globale che si differenzia da paese a paese, da continente a continente per tratti a volte più comuni, altre volte meno. Ma nessuno può affermare di essere soltanto quello che ritiene di essere: in Italia non vivono soltanto gli italiani, ma anche milioni di cosiddetti “stranieri” che vengono vissuti da ambienti di destra come un pericolo di “sostituzione etnica“, mentre nel mondo progressista, piuttosto variegato, sono accolti come una ricchezza sociale, civile, culturale.

Nessuna nazione oggi è una nazione fine a sé stessa: qualunque paese risponde ad una logica di diffusione planetaria dei corpi, delle menti, delle cose, delle merci. Queste ultime viaggiano più di chiunque altro e sono, capitalisticamente parlando, il fondamento di un’economia che si è globalizzata al punto che ogni prodotto locale arriva in qualque parte del mondo e, quindi, non esistono nemmeno più particolarità sconosciute. Dal kebab al sushi, dalle enchiladas alle empanadas, dagli spaghetti al prosciutto di Parma, dai vini ai cocktails, tutto è ormai patrimonio di tutte e tutti.

Molto più facili sono gli abbattimenti dei confini culinari piuttosto di quelli che riguardano invece una cultura che è espressione dell’identità personale di ciascuno, di riconoscimento in una tribù moderna che è pronta, tuttavia, a separarsi in altre fazioni e a lottare, seguendo le linee di condotta delle teorizzazioni del razzismo d’antan e di quello più recente in merito, nella classica, truculenta e incoerente trasmutazione dell’io in un io ancora più definibile nel microcosmo localistico portato alle estreme conseguenze in un gioco di ipertrofia campanilistica davvero esasperante.

Scrive Milena Santerini che l’autoritarismo delle menti non si trova solamente nei giochi di potere dettati dalla voglia dello stesso e della esponenziale volontà di sopravviere a discapito di altri nel nome, per l’appunto, di un diritto di natura che affonda le sue radici nelle ipotesi suprematiste. Ma si trova in ogni possibilità di esercitare questo potere: tanto nella collettività del governo autocratico di turno quanto nella trazione del banale, infantile e immaturo maschilismo che si contorce e macera nella conversione scellerata e maligna del patriarcalismo ritrovato (o mai veramente dimenticato ed archiviato, nemmeno dalle rivoluzioni illuministiche).

L’inimicizia che sovrasta, spesso e volentieri, la naturale e istintiva propensione alla considerazione dell’uguaglianza come elemento veramente comune di tutte e tutti (prescindendo però dall’animalità di cui facciamo parte e perseverando nell’antropocentrismo in un antropocene che è la vera era particolarissima di una umanità nichilsteggiante ed autodistruttiva), nasce da una moltitudine di fattori che hanno la loro origine in una complicatissima mutevolezza delle strutture economiche come delle sovrastrutture più caparbiamente culturali. L’estraneità morale che si ricava dal titolo del libro è prima di tutto la certezza di non poter condividere con altri la propria eticità.

Quindi, siccome l’etica è un insieme di valori e di norme in cui specchiamo la nostra identità (e viceversa), è a partire dalla morale che occorre prendere in considerazione il più irremovibile degli artefatti e dei costrutti xenofobi: la nazionalità intesa come impenetrabilità assoluta, repellente a tutto tondo che impedirebbe, nonostante la globalizzazione capitalistica, il meticciato, la compenetrazione delle culture, la simbiosi tra le alterità, il sincretismo culturale entro un ampio spettro di espressioni singolari e collettive. Milena Santerini specifica che il fine del libro da lei scritto non è arrivare ad una soluzione sull’essere o meno “stranieri morali“, ma se «vogliamo o meno restare una comunità morale».

Qui il discorso si complica e si semplifica al tempo stesso: la comunità in quanto tale non è esente da lacerazioni, da screzi che la separano e la fanno estranea, in parte, a sé medesima. La cultura frazionata, scissa e rifondata su altre pretese di giustezza e di purezza (come quella razziale che ne è un po’ all’origine) non è, di per sé, un dato di riferimento univoco ma sempre e soltanto molto parziale. Per cui l’universalità dei valori è tale soltanto quando intende riferirsi a quelli che sono condivisi davvero dall’intera specie umana: l’esistenza, la vita, l’uguaglianza e la parità per chiunque.

La legittimazione della violenza viene affrontata dall’antropologa coma un “bagaglio culturale“, quindi un prodotto legittimato da una certa impostazione sociale, civile e (im)morale. Per cui le guerre e le pacificazioni sono conseguenze di una riconsiderazione delle proprie culture, non più concepite come equivalenti rispetto ad altre, ma degne di un avanzamento, di una supremazia, di una legittimazione ulteriore che deriva ora da un frangente metafisico, ora da una clausola più propriamente materiale. L’una non esclude l’altra. Come si può quindi fare in modo che ci si avvicini ad un orizzonte in cui tutto questo scemi e non divenga invece la cifra esclusiva di una evoluzione involutiva dell’umanità?

Non esiste una risposta certa, proprio perché il cambiamento incessante delle condizioni relazionali tra le economie, le culture, le ragioni dei popoli sono tante e tali da impedire una previsione o anche soltanto mostrare una via di indirizzo in questo senso. L’unica raccomandazione che l’autrice tende a sottolineare è il mettersi nei panni degli altri, provando a considerare il fatto che la verticalità dei diritti finisce per negarli inevitabilmente, mentre l’orizzontalità li espande, li rende accessibili al maggior numero di persone possibili.

L’annientamento dell’altro rispetto a noi non è progresso, non è evoluzione, ma risulta essere un vero e proprio dimezzamento di quello che potremmo essere anche noi stessi. Che non siamo soltanto quello che pensiamo di essere: perché il cambiamento fa parte del nostro processo biologico come di quello relazionale sociale. Se il punto di vista cambia, sostenuto da una oggettiva ricognizione dei rapporti tra i popoli nel corso della Storia plurimillenaria della nostra specie, è possibile che, unitamente al rovesciamento degli schemi economici, si possa davvero aspirare ad uno scambio plurale senza soluzione di continuità. Come del resto avviene sotto i nostri occhi.

Ma la cecità provocata dall’estraniazione morale ci impedisce di rendercene perfettamente conto…

STRANIERI MORALI
GUERRA E PACE TRA LE CULTURE
MILENA SANTERINI
BOLLATI BORINGHIERI, 2025
€ 16,00

MARCO SFERINI

15 ottobre 2025

foto: particolare della copertina del libro


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