Silenzio, parla una famosa marca di pasta prodotta in quel di Imperia. Silenzio in classe! Silence, please! Silenziatore, colpi di pistola che non si odono: un delitto perfetto? La regola del silenzio, oppure un silenzio assordante. Quanto silenzio c’è nella vita di un essere umano? Quanto rumore c’è? E quanti suoni vi sono che consideriamo ormai, molto impropriamente, come qualcosa di fastidioso e molesto?
Tanto di tutto, perché l’esistenza è una compenetrazione di migliaia e migliaia di fattori quotidiani che si avvicendano di continuo e, dunque, l’altalenante sequela del silenzio e del non-silenzio fa parte dei cicli quasi ontologici di una vita sempre più frenetica.
Contrariamente a quanto si può pensare, nemmeno le civiltà antiche erano poi così silenziose come si può immaginare. Sia nelle polis elleniche, sia nel mondo romano, i frastuoni erano tantissimi e non c’erano barriere antirumore per i carri che stridevano lungo le vie consolari o per la voce dei venditori al mercato, comprese le aste degli schiavi fatte sulla pubblica piazza.
Forse abbiamo cumulato, nel corso della nostra esperienza di vita, una serie di pregiudizi tanto sul rumore quanto sul silenzio e, oggi, per esempio, riteniamo che il suono delle campane sia il primo, mentre la quiete di un bosco sia il secondo. In realtà nessuna delle due cose è vera fino in fondo: si tratta di percezioni.
Niente di più percettibile vi è del suono alle nostre orecchie e persino al nostro tatto. Fino da quando ci troviamo nella placenta materna, grazie alla scienza noi oggi sappiamo che “sentiamo” in tutti i sensi (proprio letteralmente!). Quindi la sonorità è parte proprio ontologica della costituzione dell’essere umano, dell’animale che è, evoluto per quanto lo si possa ritenere tale.
Nell’Universo, contrariamente a quello che ci lasciano immaginare i film di fantascienza, tutto è silenzio, per lo meno per le nostre orecchie, perché tutto ciò che potrebbe essere dai noi definito con un antico termine come ϕωνή (“phoné”), viaggia su altre frequenze e non è ascoltabile. Ma esiste un “rumore cosmico” di fondo ed il silenzio del cosmo ne è percorso fin da quella straordinaria ipotesi di evoluzione della materia che è il Big Bang.
Non c’è mai davvero solo silenzio nell’esistenza e tuttavia dovremmo provare a riscoprirlo come rifugio dell’animo umano, della nostra psiche, visto che la molestia dei rumori è divenuta una delle cause prime di uno stress che non conosce confini. Più che altro andrebbero distinti i rumori artificiali da quelli naturali.
Il mare che viene e che va, il fragore dell’acqua di una cascata che precipita al suolo, il temporale violento come quintessenza iconica del frastuono che sovrasta persino il concetto di semplice rumore, perché intimorisce, incute quella atavica paura nei confronti delle forze della Natura che ci fa comprendere quanto ne siamo dipendenti e soggiacenti e quanto invece pretendiamo di esserne protagonisti e dominatori.
Un affascinante viaggio in questo mondo è stato fatto da Remo Bassetti con un libro che si propone di mettere insieme “Storia e pratica del silenzio” (Bollati Boringhieri, 2019) raccontando storiograficamente un lunghissimo percorso fatto dal non dire e dal non fare in quanto sinonimi di una afasia indotta a volte, in altre situazioni cercata come catarsi personale e persino sociale, civile, nonché ovviamente con tutti i risvolti dell’ascetismo religioso o della propensione ad un’estraneamento dal contesto “rumoroso” di una vita fatta quasi esclusivamente di soddisfazioni materiali.
Bassetti pone un accento particolare sulla trasmissione della cultura orale prima e di quella scritta poi, ponendo ad esempio la lettura dei libri. Soltanto molto recentemente si è adottata la capacità diffusa di una lettura silenziosa dei testi: tanto privatamente quanto a scuola o nelle biblioteche.
Anticamente i libri erano quasi sempre tutti letti ad alta voce: nelle agorà come nei convivi privati, naturalmente nei luoghi di culto dove venivano declamati i testi sacri, pretesi appunto come la parola (e non il silenzio) di Dio; così nelle scuole filosofiche, con qualche eccezione per il pitagorismo. Il silenzio era affidato alle pause che creavano, a seconda dei casi quell’enfasi e quella sospirata attesa che modernamente chiameremmo “suspence“.
Oppure poteva essere scambiato per una bassa tonalità dell’espressione verbale, un modesto sussurrare, quello che biblicamente è contenuto nella locuzione che descrive il modo in cui Dio parla ad Elia, con “la voce di un silenzio sottile” (1 Re 19,12-13).
Prima viene un terremoto roboante, quindi il silenzio è annichilito. Poi una folgore e, mentre Dio si manifesta al profeta che si porta il mantello sul capo per sentirsi protetto da tanta enormità di eventi, il silenzio si ritempra e ridiventa protagonista, paradossalmente, del dialogo.
Se vogliamo provare una sorta di sinestesia cosmica, il rumore di fondo, proprio perché impercettibile all’orecchio degli unici esseri senzienti ed autocoscienti (da noi stessi conosciuti nell’Universo visibile ma impercorribile…), può avere una qualche verosimiglianza con la voce silenziosamente sottile della Bibbia. A parte queste suggestioni, le pagine scritte da Bassetti ci inducono a riflessioni profonde anche su noi medesimi e sul rapporto che abbiamo, altro esempio di silenzio, con la sordità.
Si pretende che il silenzio abbia un rapporto privilegiato con l’ascolto. Ed è certamente così: chi tace a volte acconsente, ma chi tace spesso lo fa per ascoltare cosa dicono gli altri oppure per “sentire” nella più etimologica e non esegetica declinazione del termine nella praticità tanto domestica quanto sociale: cioè afferrare ciò che arriva alle nostre orecchie, ai nostri sensi, desiderando quindi sapere, conoscere, assimilare ciò che ci è intorno. Sentire è prima di tutto percepire le sensazioni e averne contezza.
Sentire è essere consapevoli di ciò che ci sta innanzi, di ciò o di chi comunica con noi. La sordità, dunque, diventa un impedimento proprio in questa direzione: una completa percettibilità dell’esistente che, tuttavia viene supplita sviluppando meglio altri sensi. A cominciare dal tatto e dalla vista.
Ma è assolutamente scientificamente smentito che esista una correlazione tra sordità e mutismo. Semplicemente, la persona sorda, non percependo i suoni, ha una grande difficoltà – per mancata empirica esperienza – a riprodurli con la voce. Qui siamo nel silenzio forzato, non scelto, che però viene in qualche modo superato attraverso il linguaggio dei segni che non limita (come si pensava erroneamente) l’eventuale apprendimento della parola e dell’espressione orale, ma anzi – ci dicono le neuroscienze – può favorirle.
I silenzi indotti sono anche quelli che, a volte, sono circondati da un grande rombo della Storia, da dirompenze ecatombali come le guerre: qualcuno ha giustamente parlato e scritto in merito al “silenzio dei lager” nazisti. Ci si sente avvolti dal silenzio quando si è soli anche tra tanta gente che, pure, condivide la stessa sorte.
Lì, in quel tremendo contesto, si riscontra il silenzio di Dio, la sua mancanza perché ogni cosa volge al male e, quindi, è in contrasto con quella che si auspica dovrebbe essere una volontà ultraterrena di realizzazione del bene sempre e comunque.
La voglia di fuggire dall’inferno della depersonalizzazione e della privazione anche della propria vita, della propria identità, della propria cultura e personalità, lancia tra le braccia di un trascendentalismo che non tiene conto della sola volontà dis-umana, ma affida alla speranza dell’intervento divino un qualche germoglio nuovo di salvezza e di purezza di una umanità incolore, grigia e tetra, in cui il non riconoscervisi è comunque una forma di resistenza. C’è, quindi, il silenzio colpevole: quello del disconoscimento delle colpe, della non accettazione delle responsabilità.
C’è il silenzio che è reticenza di massa, che è vigliaccheria davanti a ciò che la specie umana può o non può fare. La meditazione è, da questo punto di vista, una forma cosciente di silenzio interiore che parla a sé stesso e che induce ad urlarsi addosso la verità nascosta nell’intercapedine del subconscio dove sedimentano tanto gli aneliti quanto le repressioni di sé medesimi. Bassetti continua ad enumerare i tanti silenzi e le pratiche che li riguardano: il silenzio della stampa, quello della politica, quindi le censure, le omissioni: sempre di parole si tratta.
A che punto è ora, nella nostra società, la storia e la pratica del silenzio?
Forse una disamina in questa direzione è possibile, su un piano gnoseologico, tentando di capire a che punto è la valorizzazione del non dire e del non fare come elementi strutturali di una comunità che, invece, è abituata – proprio dal sistema capitalistico – a dire su tutto e tutti, a fare qualunque cosa sia generatrice di profitto e di accumulazione di denaro, di potere. Nell’epoca dei social media, il silenzio non è più d’oro. Per significarne l’importanza, come sinonimo di sosta per la riflessione approfondita, servirebbe un metallo ancora più raro e valutatissimo.
Non siamo più capaci di stare in silenzio e in comunanza con noi stessi. Siamo stati indotti a ritenere che il protagonismo edonistico da interazione internettiana, tutto fatto di likes e di cuoricini, sia la cifra del nuovo essere civile e sociale, nonché culturale di un mondo che, invece, è individualistico alla massima potenza. Faremmo bene a riscoprire il silenzio: prima di tutto interiore e poi, se possibile, anche quello che ci sta intorno. Cercando luoghi in cui si ascoltino molto di più le voci e i silenzi della natura rispetto ad un artificialità delle sonorità che è, quella sì, davvero fastidiosa.
STORIA E PRATICA DEL SILENZIO
REMO BASSETTI
BOLLATI BORINGHIERI, 2019
€ 16,00
MARCO SFERINI
18 giugno 2025
foto: particolare della copertina del libro
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