Le ovvietà possono essere accusate di preconcettualismo ma, visto che a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre, anche nel caso della guerra tra Israele e Iran si rivelano tutte, ma proprio tutte premesse di una triste realtà della contesa mondiale e, nello specifico del “nuovo ordine mediorientale” che Donald Trump vuole stabilire di qui a breve. Ovvio era, dopo la rottura americana degli accordi sulla rinuncia dell’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran (quelli siglati sotto l’amministrazione Obama), che il regime degli ayatollah non sarebbe rimasto passivo e non avrebbe indugiato nel riprendere il progetto dell’atomica persiana.
Ovvio era altresì che l’uscita degli Stati Uniti dal patto con Teheran altro non significava se non la volontà determinata, anche se su un termine più lungo del previsto, di arrivare un giorno alla resa dei conti, al redde rationem con un paese divenuto un ingombro nello scacchiere della Mezzaluna fertile, crocevia di passaggio di una ridda di interessi che coinvolgono praticamente tutto il mondo. Ed ovvio è oggi il fatto che, nel momento in cui Trump darà l’ordine di attacco (dopo aver fatto dispiegare portaerei e bombardieri alle porte del Golfo persico, si ripeteranno scenari già tristemente visti.
La storia della devastazione del Medio Oriente da parte di potenze ultracoloniali, sconfitte dalla Storia (come nel caso del Vietnam), continuerà e aprirà una stagione di instabilità tale da permettere a tutte le fazioni possibili di cercare un protagonismo oggi tenuto a bada dalla dittatura khameinista, erede di un khomeinismo che, dopo cinquant’anni, è l’ossatura della Repubblica islamica. Tutto si tiene: l’Iran è rimasto l’unica vera potenza della regione a difendere i palestinesi. I suoi diretti affiliati tanto a Gaza quanto in Libano sono stati ampiamente depotenziati con la decapitazione dei comandi militari e politici.
Gli Houthi fanno storia a parte, anche se sono uno dei fronti su cui Israele insiste da tempo e la Siria è un caso unico di rivoluzione jihadista sostenuta dalle potenze occidentali in funzione anti-Assad: Al Jolani riceverà presto il conto degli americani che lo hanno “graziato” e hanno tolto la taglia che avevano messo sulla sua testa come membro di Al Qaeda. Dunque, Teheran è l’unico paese che può ancora dare del filo da torcere all’instaurazione di quel già citato “nuovo ordine mediorientale” in cui, nemmeno a dirlo, dovrebbe essere proprio lo Stato ebraico a ridisegnare le relazioni tra le nazioni e i rapporti commerciali.
Washington aiuta Israele a liberarsi dell’Iran e, al contempo, se i due alleati di sempre riuscissero a far cadere il regime degli ayatollah potrebbero affermare ai rispettivi popoli di aver ottenuto un doppio successo: la fine del programma nucleare di Teheran e la fine della dittatura teocratica di Alì Khamenei. Sarebbe, ovviamente, soltanto una propaganda governativa che nasconderebbe i reali scopi di ogni guerra imperialista: impossessarsi di quanto di più prezioso vi è nella vecchia Persia, controllare tutte le vie di comunicazione e favorire così una nuova geopolitica che si metta di traverso rispetto all’avanzata cinese ed asiatica.
Ad Israele sarebbe affidato il compito di guardiano della regione e agli Stati Uniti andrebbero i maggiori profitti di questo cinico e spietato affare che costerà la vita di migliaia e migliaia di persone innocenti. Non va sottovalutata però la vicinanza strategica tra Iran e Russia: un processo di avvicinamento che si è consolidato proprio nel momento in cui la guerra di Gaza è esplosa in tutto il suo tremendo furore. Questo irrobustimento delle relazioni tra Mosca e Teheran serve naturalmente a curare gli interessi delle due potenze, delle rispettive economie attaccate dalle sanzioni occidentali. E serve anche a dimostrare che non c’è una solitudine iraniana nella stretta attualità dell’oggi.
La condivisione degli interessi prettamente economici si è trasformata, col passare degli ultimi anni di guerra in Medio Oriente, in una alleanza propriamente strategico-militare. Non è un mistero che il regime di Khamenei abbia fornito alla Russia armamenti, droni e quant’altro per sostenere lo sforzo bellico di Mosca in Ucraina. E non è un mistero nemmeno che la Russia cambierebbe l’orientamento del suo asse di alleanza con l’Iran se si aprisse la strada ad un cambio di regime e la repubblica teocratica lasciasse il passo ad un altra forma di Stato, ad un governo differente.
Sempre nel campo delle ovvietà, e quindi delle quasi-certezze, sta il punto riguardante il dopo-Khamenei. Non esiste nessun piano al riguardo, almeno platealmente esposto tanto da Trump quanto da Netanyahu. Così come non esiste tutt’ora un dopoguerra per la Striscia di Gaza. Le bugie del gabinetto israeliano vengono sempre più a galla: a rivelarle sono le azioni di spionaggio e di sabotaggio, che potremmo anche definire “terroristiche” per i metodi adoperati, nei confronti degli alti comandi iraniani. Quattordici scienziati assassinati, insieme a capi di Stato maggiore, comandanti dei Pasdaran… Presi di mira nelle stanze delle loro abitazioni e freddati con operazioni davvero impressionanti.
Allora ci si domanda spontaneamente (o almeno così dovrebbe essere per chi ha un po’ di senso critico e di distacco dalle due propagande opposte): come mai il Mossad e lo Shin Bet si sono fatti sorprendere dall’azione grossolana di Hamas che, da un territorio infinitesimamente piccolo, controllato costantemente da Israele, è riuscito a penetrare le difese dello Stato ebraico e sterminare oltre mille e quattrocento civili nei kibbutz? Le tentazioni complottiste non sono il nostro forte, ma la domanda è legittima: come mai? Come è potuto accadere?
Abbiamo visto tutti come Hamas ha attaccato: sorvolando con degli improbabili aeromobili il muro di contenimento, sfondando le recinzioni… Casualmente in quei giorni il grosso delle truppe israeliane era impegnato a ridosso della Cisgiordania. Poteva il piano essere, già da allora, quello di scatenare una guerra di annientamento del popolo palestinese per prendere due piccioni con una fava? Farla finita con problema storico in casa e trascinare l’Iran nel calderone della guerra totale in Medio Oriente? Mano a mano che il quadro generale si fa sempre più fitto, si chiariscono alcuni dei dubbi. Altri permangono.
Una delle preoccupazioni maggiori per gli Stati Uniti e per i paesi arabi nemici dell’Iran (primo fra tutti il regime dell’Arabia Saudita) è data dal “corridoio internazionale di trasporto tra nord e sud” che interessa l’accordo economico-commerciale tra Teheran e Mosca: ciò minaccia tanto il mercato statunitense quanto quello europeo, perché apre nuove possibilità all’India e alla Cina di rendersi protagoniste ancora di più rispetto ad oggi di scambi, esportazioni e importazioni che sbilancerebbero il quadro globale sempre più verso oriente. La Russia rompe così l’isolamento ad ovest, posto da Bruxelles con il muro di sanzioni. Mentre l’Iran ne può fare uno dei nuovi assi portati del regime.
Da oltre vent’anni esiste un concordato sul “corridoio” tra Russia, India e Iran. Sono più di settemila chilometri di strade, corsi d’acqua e ferrovie che – sostengono gli esperti – entro la fine del presente decennio vedranno transitare circa venticinque milioni di tonnellate di merci ogni anno. La rimodulazione politica, militare ed economica del Medio Oriente, con l’attacco all’Iran, serve anche a spezzare quest’asse e a spostarlo dalle mani russe a quelle americane. Non esistono solo pozzi petroliferi e gasdotti (di cui comunque l’Iran non difetta affatto, soprattutto nelle regioni meridionali a ridosso del golfo).
Tanto l’economia russa quanto quella iraniana, comunque, restano dipendenti dalle entrate ottenute con le esportazioni di petrolio e di gas. Se è pur vero che Teheran si trova in una parziale condizione di isolamento internazionale, è altrettanto vero che, a differenza di Stati come la Corea del Nord, ha un maggior numero di relazioni con paesi che non fanno parte del solo blocco orientale. Quant’anche basterebbero già gli scambi con la Cina e con la Russia per garantire all’Iran una sopravvivenza degna di sorta. Le vessazioni poste dai governi statunitensi tanto all’uno quanto alle altre potenze, hanno di fatto sempre e soltanto rafforzato i rapporti tra queste nazioni e le hanno avvicinate progressivamente.
Sempre e soltanto il nemico comune è quello che alimenta anche un uguale e contrario comune interesse. Le relazioni bi e trilaterali si sono quindi consolidate tanto da indurre Pechino a mostrare una maggiore attenzione nei confronti dell’intero mondo islamico. Se osserviamo il tutto da un punto di vista di macro-geopolitica ed ipotizziamo quello che, in realtà, si sta piano piano crudelmente concretizzando, ossia uno “scontro di civiltà“, pare evidente che la Cina è molto più afferente e prossima la mondo musulmano rispetto a quello europeo. Tuttavia il fatto che non vi sia una vera e propria omogeneità tra i paesi islamici, fa sì che si debbano scegliere nello scenario attuale dei comprimari: l’Iran è uno di questi.
Forse il più importante. Ed è per questo, per l’appunto, che oggi è sotto attacco. L’altro attore fondamentale della regione mediorientale rimane la Turchia: un paese della NATO, un altro crocevia di antica data tra occidente ed oriente. Un punto nevralgicamente strategico per operazioni di ampio raggio tanto ad ovest quanto ad est. Israele teme la potenza neoimperiale di Ankara e guarda, al tempo stesso, con qualche compiacimento all’oggettiva competizione che esiste tra la nuova moderna Sublime Porta di Erdogan e il paese degli ayatollah. Se ne ha prova nel fatto che, al momento dell’attacco israeliano al consolato iraniano di Damasco, un vero e proprio salto di qualità negativo nei rapporti tesi da sempre tra i due Stati, la Turchia ha condannato l’azione ma non ha sostenuto la rappresaglia seguente.
Rimane, in tutto questo complesso scenario, la domanda a cui ogni risposta pare un esiziale presagio (forse persino una ovvietà!): chi potrà mettere ordine in questo caotico Medio Oriente? Gli Stati Uniti stanno per creare ulteriore caos. Israele ne è il protagonista, superando persino l’Iran di Khamenei in attacchi e attentati terroristici. La Siria è un mosaico di spinte uguali e contrarie. La Turchia resta a guardare e lavora sul suo fianco meridionale per espandersi e creare una zona cuscinetto rispetto alla plurisecolare questione curda. L’Arabia Saudita viaggia sull’onda dell’ambiguità permanente, divisa tra fedeltà all’Islam e agli USA.
L’Iraq conta meno di un due di picche e la Giordania non può certo dirsi un paese dalla grande autonomia decisionale. Gli Stati veri, su cui poter fare leva per una risoluzione anche parziale delle controversie sono solo tre: Iran, Israele e Turchia. Il primo e l’ultimo sono i discendenti di due imperi storici, mentre lo Stato ebraico ha fatto della Torah il suo fondamento istituzionale, legando la sua recentissima storia alle mitologie di migliaia di anni fa, autolegittimandosi come “popolo eletto” ancora una volta, suprematizzando ogni cosa lo riguardi e riducendo le altre culture a manifestazioni di “antisemitismo“.
Siamo alle soglie di una nuova grande guerra globale fomentata da interessi che, a loro volta, alimentano le speranze di sempre maggiore potenza per avere più potere. I nazionalismi portano solo a questo e il capitalismo lo adopera per rimescolare la carte e per superare le proprie devastanti crisi su scala mondiale. La ricostruzione del Medio Oriente non può che passare da quei tre grandi attori. Al momento sulla scena di una tragedia. Una grande, immane tragedia.
MARCO SFERINI
19 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria