L’origine della filosofia non è riscontrabile, diversamente da quello che un po’ semplicisticamente si potrebbe pensare, in un dato momento della storia umana. Comunemente si fa riferimento a Talete, ai primi presocratici, come ai pensatori classici con cui è iniziato il discernimento tra pensieri istintivi, naturalissimamente istintivi ed elucubrazioni più ragionate, confrontate tra simili e, quindi, al sorgere delle prime cosiddette “scuole di pensiero“.
Ma si tratta, per lo più, di una convenzione data dal fatto che, prima degli ionici e di Pitagora, le tracce che possiamo riscontrare di sedimentazione della cultura filosofica, del soffermarsi sulle grandi domande esistenziali di tutti i tempi, fanno per lo più riferimento ai poemi omerici ed alle opere esiodee.
Quando, dunque, l’essere umano inizia ad essere, oltre che spettatore della Natura e del mondo che lo circonda e lo include, anche un promotore di autoconsapevolezza, di autocoscienza e di comprensione dei fenomeni, incluso sé medesimo?
Se tentiamo una critica in questo senso, quindi un approccio non aprioristico ma calato nelle dinamiche dei tempi remotissimi rispetto a noi, ci imbattiamo inevitabilmente con la presenza del mito della Natura stessa e con una serie di credenze religiose che anticipano alcune delle domande che i filosofi si faranno secoli dopo quella che potremmo chiamare la “religione omerica“. Se, invece, proviamo ad accostarci a queste rappresentazioni mitiche (e mitologiche) dell’esistenza, scopriremo una attitudine crescente alla “demonizzazione” degli eventi,
Nulla a che vedere con quello che noi oggi intendiamo per “demoniaco“: per capirci, non c’è traccia della raffigurazione del male in questo frangente sotto le forme del Demonio con la di maiuscola, di Satana, di Lucifero, di colui che, pur portando la luce è l’angelo ribelle precipitato da Dio sempre più in basso proprio a causa della sua intemperanza celeste.
Nei secoli che vanno dal IX all’VIII avanti la nascita di Gesù Cristo, quello che è stato chiamato il “polidemonismo” è la forma che il mito della Natura prende e che ne fa una compresenza costante di entità traducibili in una sorta di “anime delle cose“, per l’appunto di “démoni” più socraticamente intesi, se proprio vogliamo tentare un esempio di somiglianza con un successivo sviluppo del pensiero ellenistico.
Si formano, nelle mente degli uomini e delle donne di quei secoli pre-filosofici, le idee e i presupposti di una sorta di religiosità della Natura, di sacralità intesa, per l’appunto, come di una alterità rispetto alla incomprensione umana dei fenomeni naturali stessi: non c’è soluzione alle domande di cui si circonda l’umanità di allora, nemmeno una interpretazione parziale, una sequela di illazioni che possano assurgere ad essere, verosimilmente, accomunate ad un primordio di pensiero filosofico.
Il rintracciare in ogni presenza naturale un anima del mondo e nel mondo fa dell’albero, del fiume, della fonte, del lampo, del tuono, della pioggia, del sole stesso, delle piante, dei fiori, dei mari, dei soggetti di vita: perché il mutamento è oggettivo, ed il cambiamento è movimento, dunque è partecipazione all’essenza che, pur in una unicità che viene sempre ricercata, appare ed è molteplice.
Dove esistono queste caratteristiche, a differenza della materia inanimata e inerte (pensiamo ai sassi), esiste la vita, la sensibilità e, pertanto, i pre-filosofici possono ritenere che vi sia qualcosa di più in un albero rispetto alla corteccia, ai rami e alle foglie. Che tutto, sia mosso da un anima, se vogliamo da un demone che, a differenza di quello socratico, non è qui ispirazione ed essenza (immateriale) dell’autocoscienza; tutt’al più è un soffio della forza della Natura.
Nei primordi del mito e della religione greca antica non permane tuttavia statica questa specie di animismo ante litteram. Il timore nei confronti dell’esistente, l’incomprensibile e il non senso che già in allora pervade cuori e menti degli uomini e delle donne necessita di un qualcosa di più del semplice costrutto polidemonistico: l’organizzazione sociale complica (non necessariamente in chiave negativa) i rapporti singolari e li mette davanti a nuove sfide che, tuttavia, non escludono le domande ataviche di sempre.
Chi siamo noi, da dove proveniamo, dove andiamo e che ci facciamo in questo universo in cui la nostra esistenza si svolge e in cui dall’inizio alla fine rimane avvolta dal mistero? Per dare un po’ di quiete alle ansie proiettate oltre il confine della quotidianità, i poemi omerici introducono un passaggio ulteriore, decisamente superiore alla improvvisata e posticcia concezione demoniaca della naturalità delle cose e degli eventi. Dal polidemonismo si passa al “politeismo antropomorfico“.
Ci si immagina, e si crede ovviamente, ad una presenza di tante divinità dalle fattezze umane (non è difficile il paragone con la biblica concezione dell’uomo fatto ad “immagine e somiglianza” dell’unico Dio concepibile e concepito) che ereditano da noi tutte le caratteristiche non solo fisiche ma anche caratteriali che ci contraddistinguono: gli dei hanno dei sentimenti proprio come noi mortali. Sono buoni, malvagi, calmi ed iracondi. Amano e tradiscono, provano empatia per i loro simili ma riversano tutto questo anche al di sotto delle nubi che sovrastano l’Olimpo.
Essendo la raffigurazione psicologica di una umanità spaventata dall’esistenza, gli dei ellenici devono pure possedere qualche carattere sovrumano, qualche “potere” che ne fa dei protettori rispetto alla finitudine e all’impotenza che ci contraddistingue: così c’è chi ci protegge dalle tempeste marine, chi dirige la forza del vento, chi sovrintende al sorgere e al calare del sole, chi fa rinvigorire i campi di grano, chi presiede alla lussureggiante vegetazione primaverile, chi governa il fuoco e chi sta nelle profondità della terra alle porte dell’Ade.
Il politeismo, anche se non risolve del tutto le inquietudini dell’umanità di allora, permette di affidarsi ad una schiera di divinità che divengono, inconsciamente, la proiezione delle nostre virtù così come dei nostri difetti e ci fanno sentire, dunque, meno soli, meno atipici in questo mondo e nell’impenetrabilità del mistero dell’esistenza e dell’esistente. Uno dei concetti che si viene sviluppando in questi secoli omerici ed esiodei, è quello del “timore del dio“: θρησκός (“Treskòs“) lo chiamano gli elleneici.
Si tratta di una derivazione terminologica da θρησκεία (“Treskeia”), ossia la “religione” propriamente intesa come tale ma, diversamente dalla dicotomia che prenderà poi campo con il Cristianesimo, non separata dalle ritualità civili. Tanto da quelle propriamente private quanto da quelle pubbliche. Politica e culto si compenetrano e così vita cittadina e credenza nell’ultraterrenità degli dei. Del resto, i greci non li collocano in una iperuranicità che va oltre il cielo, ma nell’altezza immaginabile di un monte.
Un monte sacro, inarrivabile ma comunque contemplabile e, per questo, molto più rassicurante della necessità dell’affidarsi ad una fede il cui Dio è raccontato dalle Scritture ma che è muto, invisibile e di cui persino il nome è impronunciabile: “Io Sono“, oppure Adonai (che somiglia (per radice) all’Aton del disco solare del faraone egiziano Akhenaton della XVIII dinastia). Lo svilupparsi del pensiero filosofico-religioso nell’antica Grecia non preclude né alla filosofia né alla religione il diritto di porsi come elementi quasi equipollenti del dibattito.
Le due discipline si confrontano in una processo dialettico da cui emergono tentativi di trasposizione della credenza comune dal politeismo al monoteismo ma, più ancora, dalla concezione della molteplicità dell’essere (parmenidianamente inteso come l’esistente, l’Essere in quanto tale, ciò che è e non può non essere) all’unicità intesa come prima espressione del tutto. Proprio nella considerazione dei tanti dei che sono stati creati, i greci iniziano a domandarsi quale sia il primo fra loro, chi abbia dato origine agli altri.
Così, la figura paterna e sovraintendente di Zeus risolve in parte queste congetture, questi lambiccamenti. Ma è soltanto un rinvio di una domanda ben più importante che riguarderà le scuole filosofiche posteriori alla cosmogonia e alla teogonia propriamente di Esiodo. Si sente, infatti, l’esigenza di cercare una unità del mondo, una ragione per cui se ne fa parte nella trasformazione incessante di ogni cosa: dagli eventi naturali alla propria indecifrabile, affascinante esistenza.
Oggi, alla luce degli studi psicoanalitici più aggiornati, possiamo più facilmente renderci conto dello straordinario tentativo di lenimento della sofferenza esistenziale da parte ellenica con la creazione di ideali di vita raffigurati nelle fattezze antropomorfe degli dei dell’Olimpo. Mentre il Dio cristiano è onnipotente, onnisciente, onnipresente e perfetto, emanazione di virtù, in quanto virtù prima e perfetta, amore senza condizioni e senza principio e fine, gli dei omerici sono speculari ad una umanità imperfetta, impotente, inconsapevole, presente in un luogo solo e non sempre a sé stessa.
I miti greci sono la personificazione delle passioni, dei desideri, di ciò che ci abita ed è invisibile al conscio giornaliero. Sono una psicanalizzazione primordiale dell’essere umano così come di tutto quello che gli viene incontro dal mondo e nel mondo. Freud, nell’analizzare i desideri incestuosi inconsci, ad esempio, propone una similitudine con Edipo ed Elettra. Ma, non di meno, una delle paure più incontrollabili e, apparentemente, irrazionali, il “panico” è chiamato proprio così dal dio Pan, figlio del dio Ermes e della ninfa Penelope.
Se qualcuno, infatti, disturbava il dio mentre era intento alle sue attività pastorali, questi si adirava al punto da urlare così tanto da spaventarlo quasi a morte. Da questa divinizzazione (e prima ancora “demonizzazione“) del tutto, si ricava un potere della simbologia, del mito per l’appunto che, quindi, coerentemente con lo scopo della religione, ha un effetto curativo delle ansie e delle paure umane.
Mentre il Cristianesimo tenta una spiegazione della volontà divina e la insedia nell’umanità mediante il rapporto diretto tra la Chiesa e l’ultraterreno, il mito e la religione ellenica non pretendono di spiegare la presenza degli dei: scoprire l’origine, in quanto essenza, del mito vorrebbe dire farne scemare il potenziale raffigurativo e, quindi, rovinare la sua intrinseca natura di simbolizzazione dei dilemmi tutti umani.
I miti greci non fanno altro se non estrinsecare le immagini della psiche, del soffio che ci abita, dell’impercettibile che, tuttavia, possiamo in qualche modo immaginare e, dunque, tratteggiare in figurazioni che somigliano tanto alle favole dei bambini ma che, in questo frangente, sono un medicamento per le asprezze esistenziali adulte. La nascita della filosofia, quindi, è rappresentazione, tramite immagini, delle paure, dei drammi, come dei tanti stupori derivanti dal confronto con l’esistente.
Non dogmi o anatemi. Ma altri uomini ed altre donne che vengono elevati al rango di dei immortali capaci di sorvegliare sulle virtù e sui vizi dell’umanità. Tanto protesi a garantire il viaggio sicuro di Odisseo verso Itaca, quanto ad ostacolarlo per gelosia, per invidia, per odio manifesto. Gli dei dell’Olimpo li possiamo trovare tutti i giorni accanto e intorno a noi. Il Dio unico delle religioni rivelate necessita invece di quella fede che, chissà perché, nell’insindacabile volontà dell’Onnipotente stesso, è richiesta per la salvezza eterna.
Questo sforzo metafisico non è richiesto nel pre, intra e post filosofico ellenico. Tanto meno nella mitologizzazione dell’esistente e nella sua rappresentazione omerico-olimpica. I greci antichi credevano in questi dei molto umani. Quelli moderni possono continuare a viverli, come tutti gli altri esseri umani non greci, come simboli delle proprie emozioni, dei propri istinti: soprattutto come figure di ciò che non sappiamo spiegare.
MARCO SFERINI
19 gennaio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria