Soggetti smarriti

«Il comunismo è vivo perché non è un ricettario di risposte precotte, ma è una domanda aperta sul mondo ed è il nostro domandarla ostinatamente». Folgorante, a dir poco....

«Il comunismo è vivo perché non è un ricettario di risposte precotte, ma è una domanda aperta sul mondo ed è il nostro domandarla ostinatamente». Folgorante, a dir poco. Ed infatti, all’epoca (era il 1992), mi prese in pieno il fulmine, mi elettrizzò tanto da portare con me, un po’ ovunque andassi, quel piccolo volumetto scritto da Nichi Vendola che per sottotitolo aveva: “Memoria e presente nel racconto di una passione comunista“.

Ricordo che lo infilai in una borsa da viaggio per una vacanza in Trentino. Poi lo adescai nuovamente e lo costrinsi a seguirmi in un’altra vacanza, questa volta sulle Alpi piemontesi.

E poi all’università, mescolato tra gli appunti e i libri, nella cartellina di plastica sagomata che racchiudeva quel nuovo mondo che si aprì con gli studi in ateneo, l’impatto con la politica sul campo, il confronto con lunghi racconti di amici, di persone viste anche solamente una volta ma di cui non ti vuoi più separare, perché il loro ricordo è fondante, costituente della personalità che magari andavi ricercando.

Ed hai trovato in qualche sguardo, in una parola, in un accenno guitto di una frase un pilastro edificante per il tuo edificio in costruzione in una mente affastellata di dubbi, di incognite: su te stesso, sugli altri e sul mondo grande che allora, probabilmente con un alto tasso di ingenuità, non ti sembrava poi così tanto terribile.

Soggetti smarriti” (Datanews, 1991) è un viaggio nella bellezza della descrizione di emozioni che sono così inebrianti perché esclusive, singolari, introspettive e dirimpettaie di noi stessi che le avvistiamo nelle pagine che scorrono piacevolmente. Le metafore spadroneggiano nella prosa vendoliana. Chi ha avuto modo di leggere i corsivi dell’allora giovane deputato pugliese di Rifondazione Comunista, sa che due erano gli articoli che si attendevano con trepidazione quasi ogni giorno: l’editoriale di Luigi Pintor su “il manifesto” e l'”Abbecedario” (poi “Il dito nell’occhio“) di Nichi Vendola su “Liberazione“.

Iniziare la giornata così, leggendo quelle righe, era come prendere un caffé d’ambrosia, inebriarsi e godere veramente per la profondità delle analisi, meravigliosamente sintetizzata nelle poche battute di un colonnino di quotidiano, e per la capacità davvero unica di rendere i più grandi temi e problemi del nostro tempo con una serie di pennellate edulcoranti a volte, mortificanti altre, ma pur sempre piacevoli per l’unità di intenti espressa dalla ricerca del bello scrivere con quella della voglia di comunicare altrettanto chiaramente.

Le storie di chi ha perso la strada della consuetudine borghese al perbenismo, così come quelle di chi ha segnato il cammino della sinistra riottosamente ribelle, rivoltante per tanti comunisti affezionati all’abitudinarietà, refrattari ad un cambiamento morale inscindibile con quello civile e sociale, e pure quelle del Vendola appassionato di politica, che non rinuncia al sogno e che vuole stare ancorato coi piedi per terra, tutte queste storia sono di chi si è smarrito per davvero, pur sapendo bene dove si trovava.

Perché lo smarrimento non è proprio solamente di chi avverte il disagio della mancanza di punti di riferimento, di un breve orizzonte dove posare lo sguardo e riuscire così a fare un altro passo… No, lo smarrimento è soprattutto mancanza di sé stessi, bisogno di sostenersi per reggere gli urti di un’esistenza che, se confrontata con le atrocità e le ingiustizie globali (tanto nel 1991 quanto oggi), pare priva del senso di una ricerca del senso stesso.

Ed ecco che la “domanda aperta sul mondo” appare, spettro manifesto che vagava per continenti interi, cattiva coscienza di molti ipocriti e menefreghisti, primo approccio per chi non sceglie il martirio e nemmeno la santificazione, ma soltanto la passione per emergere dalla mediocrità comune.

Ci prova Vendola per primo, quando, nella “spiegazione” prefazionale, consegna all’incipit l’autocritica che si fa spinta propulsiva verso un rinnovamento culturale e politico.

Per superare il giovanilismo come alibi del tempo, facendola finita con le incrostazioni del passato, non in quanto tale, ma in quanto deformazione del libertarismo comunista, della voglia di cambiare quel mondo che ha inghiottito quel poco di sincero slancio che c’era nello stalinismo e che ha represso, al pari del Saturno capitalista, chi ha tentato di proporre una visione veramente critica: un “né né” di altri tempi. E per questo bistrattato e accusato da entrambe le parti di tradimento.

Il comunismo vendoliano di allora è quello che si è riconosciuto nella grandezza del PCI pasoliniano, eretico e distratto dal monotematismo sovietista.

Un comunismo d’altri tempi solo se pensato gramscianamente, luxemburghianamente, pure leninisticamente, ma con le orbite ben fisse nella direzione opposta: verso un futuro che richiede necessariamente una “rifondazione“, un mutamento genetico che non sia palingenetico, che sostenga il potenziale critico di ognuno e ne faccia una risorsa per riscoprire tutto ciò che di altruista, protocristiano e rivoluzionario c’era nella voglia di sovvertire la società delle merci e del profitto.

E’ un primo tentativo di modernizzazione dell’anticapitalismo come esercizio quotidiano di rinnovamento prima di tutto della propria coscienza, per farsi quinta colonna tra le proprie compagne e i propri compagni, insinuare tutta una sequela di dubbi rompendo le gabbie mentali dell’ortodossia di un potere che aveva sfamato i popoli ma li aveva privati del cibo di un animo non religiosamente inteso, addestrandone la psiche e ammaestrando i miliardi di interscambi sinaptici al dogmatismo laico, allo spegnimento di ogni istintualità.

Un primitivismo interiore a fronte del modernismo mercantilista e sfruttatore del capitale. Impossibile per i comunisti italiani essere terza parte, cercare uno scampolo di neutralità nella Guerra fredda, un angolino in cui rifugiarsi per vivere il buio di una solitudine eretica. Chi lo ha fatto, come “il manifesto“, è stato cacciato dalla grande famiglia, dalla enorme casa, accusato di una terzietà sospetta dai più veementi Vyšinskij dell’epoca.

Drogati, omosessuali, puttane, preti sposati, ragazze madri, precari, disoccupati, artisti falliti, negri e africani, ebrei e palestinesi, estremisti di sinistra e lotte radicali, tutti gli smarriti che Vendola incontra li propone come passaggi obbligati per la formulazione di una novità tutta umana, per uscire dalle convulsioni metonimiche in cui ci rigiriamo vorticosamente come in un letto pieno di sudore.

Schematismi ed interpretazioni solerti del passato vanno spazzate via senza dimenticare, mantenendo viva quella memoria che è substrato culturale, terreno fertile per riprendere la ricomposizione dei cocci, per radunare le pagine strappate di una storia che non è finita.

E’ quell’insopprimibile collettivo (e singolare) che rimane tale anche se si tenta di scovarlo, raggiungerlo e piegarlo al grigiore del conformismo. Soprattutto se di sinistra.

Una mistura nauseabonda di convenzioni millenariamente accettate, raccattate nelle debolezze intrinseche e in un ancestralismo altrettanto ineludibile, insieme ad una pur percepibile pulsione verso un rinnovamento umano che passa attraverso la lotta di classe e nei rigagnoli dei tanti ribellismi lasciati a sé stessi da un movimento operaio e da una intellettualismo progressista così poco eterodosso da non accorgersi di soffocare nelle sue stesse aspirazioni.

E’ la “duplice natura” del PCI (democratica e stalinista) che nel 1991, finalmente, si può denunciare senza essere denunciati ad un collegio di garanzia interno e ci si può riprendere l’interezza dell’essenza, il florilegio compresso delle pr

Con la sua fine, muore il grande partito, “paese nel paese“, e dalle sue ceneri nasce una nuova fenice, un esperimento che, poco a poco, anno dopo anno, si fa carico di lotte che qualcuno tenta di dichiarare “estranee” al movimento dei lavoratori e che, invece, lo complementano così bene e benevolmente.

Senza rancori, femminismo, diritti civili, lotte territoriali, ambientalismo e, oggi, anche una critica antispecista che è l’insopprimibile del nuovo millennio, si tengono stretti vicendevolmente, si accompagnano al comunismo del XXI secolo, perché senza tutto ciò, non avremo più una domanda aperta sul mondo e non sapremo cosa domandare ostinatamente.

SOGGETTI SMARRITI. MEMORIA E PRESENTE NEL RACCONTO DI UNA PASSIONE COMUNISTA
NICHI VENDOLA
DATANEWS
EDIZIONE DEL 2005 SU IBS

MARCO SFERINI

1° giugno 2022

categorie
la biblioteca

altri articoli