Il filosofo politico americano Russell Muirhead, in un suo libro del 2014 (The Promise of Party, in a Polarized Age, Harvard University Press), notava alcuni aspetti che ci appaiono oggi di grande interesse alla luce di quanto poi accaduto. Muirhead scriveva alla fine del secondo mandato di Obama, ma già da anni era ben visibile l’offensiva della Nuova Destra americana: potenti think tank, reti televisive e social, movimenti come il Tea Party, il tutto alimentato da massicci finanziamenti.
Un insieme di «tattiche aggressive”», scriveva Muirhead, dai forti connotati ideologici, che «rompeva» anche con una tradizione della cultura politica americana, che non vedeva di buon occhio un esasperato «spirito di partito». Al contrario, da quel momento, la destra neoconservatrice repubblicana cominciò anche a rivendicare apertamente la propria partigianeria, alimentata da una forte dose di risentimento: il liberalismo dominante era visto come pervasivo e vorace, come una sorta, per così dire, di “filosofia pubblica” di default, a cui ribellarsi, e dunque la forte polarizzazione aveva come obiettivo “quello di fare spazio ai conservatori, che altrimenti non ne avrebbero avuto”.
Sono dinamiche di cui abbiamo visto gli esiti; ma quel che colpisce è l’analisi della reazione che ebbero allora i democratici, così come la delinea il nostro autore: un misto di attonito stupore e di sottovalutazione (ma come potranno gli americani affidarsi a un tipo come Trump, rispetto alla cultura e alla competenza di Hillary Clinton?), ma anche un deficit clamoroso di un sano e combattivo spirito di partito.
Vale la pena riportare per intero le parole di Muirhead: «Il problema con i liberali è che sono riluttanti ad ammettere di vivere una competizione partigiana – e che, per combatterla efficacemente, hanno bisogno di provare meno imbarazzo riguardo alla loro stessa partigianeria. I liberali tendono a credere che le loro convinzioni non riflettano particolari gruppi sociali o concezioni parziali del bene; piuttosto, credono di essere semplicemente ragionevoli e razionali. Di conseguenza, si aspettano che gli altri arrivino alle loro stesse opinioni semplicemente ragionando sull’evidenza offerta dall’attività priva di pregiudizi.
Potrebbero essere più efficaci se potessero vedere sé stessi come più partigiani e impegnati in una lotta partigiana. Se i liberali non giungeranno a capire questo, non c’è motivo di aspettarsi che la ragione da sola porti tutti gli altri alla fine ad essere d’accordo con loro».
Insomma, un eccesso di “ragionevolezza”, l’illusione che mostrarsi “moderati”, a fronte delle potenti armi ideologiche brandite dagli avversari, alla fine potesse “pagare”: ma non è stato così, evidentemente. E forse, tra i pochi ad averlo capito, oggi sono solo Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, e la pattuglia dei benemeriti “Democratic Socialists of America” (che, con Zohran Mamdani, hanno appena riportato un clamoroso successo alle primarie democratiche di New York). E il fragoroso silenzio dei vari Obama, Clinton, Warren, Pelosi e di tutta la vecchia nomenclatura democratica, può essere solo interpretato, a voler essere generosi, come un’ammissione di colpa o un segno di cattiva coscienza.
Quanto accaduto e accade in America ci riguarda da vicino. Intanto, la polarizzazione ideologica che divide le nostre società non sembra affatto in una fase recessiva, anzi.
E questo implica che la sinistra, se vuole giocare una partita, non può presentarsi disarmata, o tanto meno come la garante di un’equilibrata gestione di un presente che appare sempre più precario e instabile, e indifendibile. Non si può combattere un avversario armato fino ai denti, contando sulle buone maniere democratiche, sul fair play, o su una flebile armatura culturale. I colpi presi vanno pur ridati, se ci si riesce. Non è più tempo di politica “normale”. Questo implica certo un rinnovato spirito combattivo, una sana rivendicazione del proprio essere “di parte”, l’orgoglio di una ritrovata appartenenza; ma implica soprattutto una coerente riconversione programmatica delle idee che hanno sorretto la sinistra negli ultimi trent’anni.
E qui bisogna intendersi: bisogna essere radicali nelle soluzioni ai problemi del nostro tempo, ma la radicalità non è un’attitudine soggettiva, un rifugiarsi autocompiaciuti nella durezza esteriore delle parole: la radicalità è nelle cose, nasce dal passaggio d’epoca che stiamo vivendo, dalla drammatica insufficienza delle politiche del passato. E viene solo da sorridere al patetico anacronismo delle ricette proposte dai “riformisti” nostrani: non varrebbe la pena parlarne, se non fosse per il soffocante inquinamento del dibattito pubblico che viene dalla compiacente copertura di molta stampa, e dalla sconfortante povertà e ripetitività degli schemi di lettura della politica italiana.
Radicalità vuol dire anche preparare un credibile programma di governo per la sfida elettorale con la destra, nel 2027. Molti tasselli cominciano ad esserci, altri devono anche essere ricomposti, ma non è una missione impossibile. Ma bisogna accelerare i tempi e, soprattutto, non lasciare che questo programma rimanga chiuso nei cassetti. Occorre farlo diventare un’occasione di mobilitazione e di crescita collettiva.
ANTONIO FLORIDIA
Foto di Brett Sayles







