Seppellite il mio cuore a Wounded Knee

Noi europei abbiamo dato un nome a tutto ciò che sta nel nostro mondo e in quelli degli altri in cui ci siamo intromessi, conquistandoli, depredandoli e “occidentalizzandoli“. Abbiamo...

Noi europei abbiamo dato un nome a tutto ciò che sta nel nostro mondo e in quelli degli altri in cui ci siamo intromessi, conquistandoli, depredandoli e “occidentalizzandoli“. Abbiamo fondato al di là dell’Oceano Atlantico città pensate come dei cloni di quelle esistenti nel Vecchio continente ed abbiamo evangelizzato popoli che avevano delle culture millenarie, spingendoli ad abbracciare credenze e divinità che non gli erano per niente proprie, avanzando come pretesto anzitutto la conquista armata nel nome della civilizzazione e dell’arrivo del vero dio tra loro, della Verità rivelata.

Là dove siamo arrivati, indubbiamente sono penetrate nelle terre che hanno avuto la sfortuna di incontrarci anche grandi conquiste scientifiche e quello che, molto genericamente e anche con grandi fraintendimenti di sorta, viene definito il “progresso” per antonomasia. Ma il prezzo di questa conoscenza indotta, che ha fatto fare un salto temporale all’evoluzione dei popoli nativi delle Americhe è stato pagato con un sacrificio, un vero e proprio genocidio sotto ogni punto di vista, un olocausto che si preferisce accennare nella scuola dell’obbligo, perché se ne percepisce l’intima vergogna.

Un riflesso che, per fortuna, non scatta quando si studia – ammesso che vi si arrivi con i programmi ministeriali attuali e le tempistiche sempre meno indulgenti per mancanza di personale docente – il Novecento e la doppia tragedia delle guerre mondiali e, nello specifico, l’enorme martirizzazione umana di interi popoli piegati dal terrore nazifascista e costretti a milioni a morire ammazzati nel nome della superiorità e della perfezione razziale bianca e ariana. Di sterminio, in questo senso, ed operato con differenti modalità e tempistiche (quanto meno nell’arco del celeberrimo trentennio che va dal 1860 al 1890) si può parlare se ci si riferisce alla storia di quelli che noi abbiamo chiamato “gli indiani d’America“.

Allo stesso modo ci siamo arrogati il diritto di definire rom e sinti come “zingari“, disprezzandoli e mettendo l’onta della stigmatizzazione permanente sulla loro immagine di donne e uomini come esseri indegni di stare nelle nostre comunità locali e nazionali, entro i confini di una civiltà che affonderà anche le sue radici nell’ebraismo e nel cristianesimo ma che si è sempre dimostrata molto poco aderente a quei valori di uguaglianza sociale, civile e morale che ha proclamato nella notte dei tempi, dall’iracondo dio del Vecchio Testamento a quello più condiscendentemente antropomorfo del Nuovo Testamenteo.

I grandi imperi coloniali europei si muovono alla conquista del mondo, esclusa una buona parte asiatica dominata dai persiani moderni, dai Moghul indiani, dai cinesi e dai giapponesi, e schiacciano ogni tentativo di resistenza ad una modernità invasiva, apertamente imperialista che sopravanza qualunque altra tipologia di cultura che non sia quella che è benedetta dal dio dei bianchi che arrivano da così lontano che paiono dei marziani quattro-cinquecenteschi. Le loro bocche di fuoco non solo soltanto quelle che sparano cannonate sui nativi che muoiono a bizzeffe, ma sono anche le predicazioni gesuitiche, gli anatemi verso i “falsi dei“.

Dee Brown, che a differenza di quanto si è pensato per lungo tempo, discendeva sì da una famiglia della frontiera americana ma non aveva avi e progenitori nativi, negli anni Settanta scrive una testimonianza storiograficamente molto preziosa sulla “soluzione finale” del problema indiano. Questa definizione pare una eco lontana di quella ebraica messa in pratica dal Terzo Reich di Adolf Hitler e della sua cerchia di criminali di guerra e contro l’umanità. Ed effettivamente lo è, perché quello degli “indiani d’America” è un olocausto in tutto e per tutto, anche se non organizzato con la ragionieristica, meticolosa organizzazione di un Heydrich in una orribilmente cinica conferenza di Wannsee.

Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” (Oscar Mondadori, 2017) è quello che si suol dire un “pugno nello stomaco”. Non ci si deve attendere una narrazione romantica della conquista del West da parte dei coloni contro i nativi. Ci si deve aspettare, già dall’imperativo mortifero del titolo, il racconto attraverso quelle poche ma importantissime testimonianze dirette recuperate dalla voce stessa di quelli che, loro malgrado, divennero i protagonisti, spesso misconosciuti, di un criminale misfatto disumano compiuto nel nome dell’espansione civilizzatrice di un nuovo popolo che, prima del 12 ottobre 1492, non sapeva nemmeno che l’America esistesse.

I pellerossa divengono così parte di una nuova storia che è costretta a fare i conti con l’imprevisto della resistenza all’annichilimento, della caparbia difesa di uno stile di vita che è simbiotico con la natura, mentre gli europei e i nuovi coloni a stelle e strisce hanno dimenticato questo rapporto con una spiritualità che trascende la religione come costrutto del potere e che, per questo, è molto più introspettiva, abituata al chiudere gli occhi e meditare come ad aprirli per osservare attentamente, ascoltare ogni suono che proviene dalle colline, dalle praterie, dai boschi. La vita dei popoli nativi dell’America è un’esistenza in vera comunione con la Madre Terra.

Gli europei trapiantasi nel Nuovo Mondo devasteranno materialmente e moralmente un prezioso portato millenario di una cultura che aveva sviluppato, con i mezzi che aveva a disposizione, uno stile di vita rispettoso delle particolari espressioni dell’esistente e che, a suo mondo, senza una strutturazione del potere nelle forme statuali cui siamo abituati, si era data una organizzazione a metà tra l’assemblearismo e la piramidalità. Qui a contare è l’anzianità che è saggezza, oltre alla forza. L’una senza l’altra sono inutili. Alce Nero, sciamano presso la tribù degli Oglala (Lakota Sioux nell’America del Nord) ha testimoniato tutta l’incredulità e lo stupore innanzi alle nuove abitudini portate dagli europei.

«Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone a zig-zag, chiaramente come li vidi coi miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, lassù, sulla neve insanguinata, e rimase sepolta sotto la tormenta. Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto».

Il peso dell’incoscienza diviene una sorta di senso di colpa indotto dall’impotenza di non essere riusciti a fronteggiare una minaccia che, proprio perché era sconosciuta e impensabile, non era concepibile in quanto tale: esseri umani simili a loro stessi, venuti vestiti di tutto punto, armati di corazze, picche, fucili, cannoni e sbarcati dal mare da grandi navi che non si erano, nemmeno quelle, mai viste, erano stati scambiati dagli Inca e dai Maya per degli dei venuti a fraternizzare con loro. La frammentazione delle città-stato maya permise al loro impero di resistere con una dinamicità maggiore ai “conquistadores“. Ma fu solo questione di tempo.

Per i nativi americani del nord la fine della loro vita naturale avvenne con una progressione che subì una accelerazione con la necessità da parte del governo di Washington di espandere i propri territori verso ovest: oggi si direbbe “coast to coast“: le tante voci che Brown raccoglie e mette in fila, nonostante il logorio dei tempi moderni e la voluta dimenticanza delle istituzioni e del mondo di una cultura addomesticata dal potere e per il potere, contribuiscono a ritrarre un quadro sufficientemente esaustivo per non far cadere nell’oblio l’antistoria rappresentata dai nativi. O, per meglio dire, l’altra storia, per l’appunto quella che non si è voluto raccontare e che, con una certa cinica soddisfazione, è stata soppiantata dalla narrazione degli indiani come collezionisti esclusivi di scalpi.

Delle brutalità dei “visi pallidi” si fa cenno per un tentativo di lavaggio delle coscienze, come a dire che, sì, la guerra porta inevitabilmente ad essere crudeli, ma la parte giusta della Storia starebbe sul versante dell’Atlantico e, ancora di più, fin sulle originarie coste del Vecchio Mondo europeo. Cercatori d’oro, cacciatori di pellicce, missionari cristiani di svariate tipologie, soldati blu e avventurieri della peggiore specie si ritrovano nei racconti di coloro che, invece, sono stati raccontati per troppo tempo come brutali perché selvaggi. Questo è un termine che andrebbe riconsiderato con grande cura: in latino è “selvaticus” ed affascinanti vecchi dizionari riportano la definizione attribuita a coloro che, privi dell’arte dell’agricoltura, vivevano per lo più nei boschi, cacciando.

Il selvaggio è il barbaro moderno, colui che vive primitivamente, quasi fosse una colpa. I popoli del mondo non si sono tutti sviluppati in eguale mondo e negli stessi archi temporali: le ragioni sono molte. A cominciare dai territori in cui si sono trovati a vivere che, per necessità o anche per scelta, li hanno indotti a vivere secondo stili che non prevedevano un livello di curiosità tale da addivenire a scoperte sempre più avvincenti e utili per aumentare quelli che potremmo definire i “livelli produttivi“. L’incremento delle popolazioni, ad esempio nell’America centrale, ha, infatti, dato luogo a diverse tipologia di socializzazione e alla vera e propria instaurazione di caste che hanno retto imperi e città-stato.

Nelle popolazioni native dell’America del Nord questi fenomeni sono pressoché assenti. La vita è tribale non nel senso squalificante che sovente si dà al termine. La vita è comunitaria, esistono quelle che vengono poi chiamate le “nazioni” che originano dai popoli cosiddetti “precolombiani“: ed è un’esistenza davvero altra rispetto a quella che propongono gli Stati Uniti che esigono obbedienza al grande capo bianco (il presidente). Gli altri capi, quelli “indiani“, tentano di preservare i loro mondi che si restringono: le ribellioni armate divengono, alla fine, la forma di resistenza più accanita e che dà del filo da torcere ai soldati blu.

Sono entrati nella leggenda gli “Hotamétaneo’o” cheyenne, i cosiddetti “Soldati cane“, particolarmente agguerriti e ma organizzatissimi sul piano che potremmo definire – anche qui con un termine tipicamente “occidentale” – come “militare“. A Wounded Knee, attorno alla tenda del capo Grande Piede i nativi si radunano inermi, con intorno le truppe del governo di Washington che stanno per aprire il fuoco. Un giornalista presente, Thomas Tibbles, riferisce: «all’improvviso sentii uno sparo che proveniva dalle truppe. Poi tre o quattro. E subito dopo una scarica. Poi ancora una lunga scarica. Infine i cannoni Hotchkiss».

Dee Brown raccoglie altre testimonianze e, fra queste quella di una donna della tribù dei Miniconjou: «Io rimasi come paralizzata per non so quanto tempo. Poi, appena la mente mi si schiarì, vidi tutte quelle persone a terra coperte di sangue. Mio padre, mia madre, mia nonna, mio fratello maggiore e il mio fratellino erano stati tutti uccisi»Come nelle scene del celebre film “Soldato blu“, non viene risparmiato nessuno. Nemmeno i bambini. Il Settimo cavalleggeri, dopo che nessuno più a terra dà segni di vita, avanza e raduna i corpi. Una cinquantina di morti.

Ancora Thomas Tibbles: «Una donna anziana, illesa, teneva sulle ginocchia un bambino. Le diedi un bicchiere d’acqua e le dissi di darlo al bambino, ma lo bevve lei come se stesse andando a fuoco. Mentre inghiottiva in fretta vidi un fiotto di sangue che cominciò a zampillare da un buco che aveva sul collo. Allora corsi a chiamare un dottore. Lui arrivò, si fermò un istante sulla porta a guardare quella massa agonizzante di di donne e bambini. Poi con mia sorpresa vidi il dottore che impallidiva. Sapevo che durante la Guerra Civile aveva curato i feriti nelle diverse battaglie. “Questa è la prima volta che vedo donne e bambini fatti a pezzi” disse “e proprio non lo sopporto».

Non lo sopportiamo nemmeno noi, nel ricordo di una storia che non va dimenticata e che il libro di Dee Brown continua a sbatterci in faccia con la necessaria forza della crudezza dei fatti.

SEPPELLITE IL MIO CUORE A WOUNDED KNEE
DEE BROWN
OSCAR MONDADORI, 2017
€ 18,50

MARCO SFERINI

23 aprile 2025

foto: particolare della copertina del libro


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