Precisamente, in che fase siamo? Di un rigurgito imperialista? Ammesso che possa essere così, la prima constatazione in merito riguarderebbe proprio il fatto che, nell’ipotesi di un revachismo di tipo neocoloniale di Stati e potenze dall’ampio spettro di azione regionale e globale, non si è mai veramente assistito ad una fine o ad una retrocessione della voglia di dominio. Questo non vuol dire considerare la sempiternità degli imperi: la Storia segue dei flussi incostanti e non è sempre coerente con sé stessa come pretenderebbero gli umani.
Ma di certo c’è che, nell’era dell’Antropocene, in cui la dominazione della nostra specie sovrasta tutto e tutti, la spinta capitalistica e liberista ha portato agli eccessi qualsiasi propensione alla voglia, più che alla necessità, di sopraffazione, di esportazione di presunti valori che, nel migliore dei casi (si fa per dire…), si sono rivelati essere dei grandi assassini di coscienze e, dunque, di culture di intere nazioni.
Ha ragione Fausto Bertinotti quando afferma che questa è la fase delle autocrazie e, quindi, di governo autocratici che hanno così pervertito le democrazie da cui provenivano (nel caso degli Stati Uniti d’America) e le hanno tramutate in regimi formalmente ancora costituzionali ma che, a partire dalla dirigenza governativa, hanno visto venire progressivamente meno il ruolo dei parlamenti, dei congressi, delle assemblee, comunque le si voglia chiamare. Le guerre che hanno preso forma e sostanza in questi ultimi anni sono figlie di un confronto certamente multipolare.
Ma la contesa mondiale, per quanto sia afferente strutturalmente al regime delle merci, dei profitti e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura intera, non può da sola spiegare tutto: per lo meno non può essere la ragione prima di ogni effetto che vediamo oggi svilupparsi. Tutto sta dentro il contesto capitalistico, senza ombra di dubbio; ma pure le sovrastrutture statali e i poteri politici hanno un ruolo di non poco conto in questa trasformazione epocale veramente dei regimi democratici in regimi negativamente intesi in quanto tali.
Il confronto non direttamente aperto al conflitto tra Israele ed Iran è durato decine di anni e le schermaglie si erano sempre fermate al di qua di una linea rossa che non veniva valicata per non creare un subbuglio ingestibile nell’area mediorientale. Le guerra contro il terrorismo qaedista, con tutte le pretestuosità statunitensi e le pretese, quindi, di dominio nella medesima porzione di mondo per affondare le mani sporche di sangue nel petrolio come negli oleodotti e nei gasdotti dall’Afghanistan fino alle estremità africane sull’Atlantico, sono servite a gettare delle premesse.
La premesse per una destabilizzazione complessiva che avrebbe dovuto portare vantaggio ad un unipolarismo a stelle e strisce che, però, non si è concretizzato. Complice, anzi protagonista prima la Cina che è venuta poderosamente avanti e ha aperto un fronte forse non inaspettato, ma di sicuro non atteso con tutta la forza economica, sociale e militare di cui è invece portatrice. Gli imperi insegnano. O, per meglio dire, la Storia è la vera insegnante. Sono le nazioni che hanno giganteggiato nel passato ad essere state le protagoniste dei disequilibri degli ultimi cento e più anni.
Gran Bretagna, Francia,Portogallo, Spagna, Olanda, Germania, Russia, Turchia, Giappone, Cina… Per citarne alcune. Differenti i casi statunitensi, italiano e anche iraniano. Il primo perché è un impero relativamente giovane e quindi è tra le nazioni che devono ancora passare al rodaggio di sé stesse nei lunghi tempi dei cicli storici propriamente detti e intesi; il secondo perché non è mai stato veramente un “impero“, anche se il colonialismo italico ha fatto tanti danni da poter essere annoverato certamente tra i più sanguinosi del Ventesimo secolo.
Del terzo possiamo parlare differentemente proprio in questo recente frangente di guerra. Caduta la monarchia dello shahanshah Mohammad Reza Pahlavi, il regime khomeinista non pensò, pur fondando una “repubblica“, e per di più “islamica“, di mettere da parte la percezione “imperiale” della nazione persiana tornata ad essere concepita come “Iran“. Tutt’altro: sarebbe un grave inciampo storico, ma soprattutto politico, quindi fortemente calato nella stretta attualità dei fatti, pure di quelli odierni, pensare al regime degli ayatollah come ad una pura e semplice trasformazione dallo Stato laico allo Stato religioso.
Indubbiamente Khomenini ha inteso fondare, con l’opportunità della rivoluzione del 1979, un regime molto diverso da quello della dinastia Pahlavi; ma ha ripreso, nel fare ciò, tutti i tratti propriamente storici di una grandezza imperiale secolarizzata, estratta dalle angustie di un anacronismo monarchico che aveva aperto a riforme occidentali e, appunto, ad una laicità che è divenuta la nemica numero uno dei nuovi padroni dell’Iran. Alla popolazione è stata mostrata una discontinuità in tutti i settori istituzionali: dal capo dello Stato fino alle milizie e agli uffici governativi.
Poi, di pari passo, proprio nella riconciliazione tra persiani e Islam, che Khomeini ha perseguito con impegno, andando oltre la millenaria separazione vissuta con il mondo arabo, lo sciismo duodecimano è riuscito a diventare qualcosa di più di un culto di Stato: è divenuto la fisionomia complessiva di una società che, a quel punto, oltre alla repressione come cifra costante del trattamento della dissidenza e della critica (tanto sotto i Pahlavi quanto sotto gli ayatollah), ha conosciuto anche l’integralismo religioso come metro pseudo-culturale ed etico.
Autocrazie e teocrazie, quindi: dall’America di Donald Trump alla Russia di Vladimir Putin. Dal sionismo super-religioso israeliano di Itama Ben-Gvir e dal nazionalismo ultraconservatore di Benjamin Netanyahu all’Iran della Guida Spirituale, del Leader Supremo. Quando si parla del regime di Teheran come di un perno dell'”asse del male“, lo si fa, sempre e soltanto da parte occidentale, per descrivere e, quindi, sottolineare la differenza che passa tra una superiorità etica liberale e democratica (quindi di stampo laico) e un governo invece oscurantista, per l’appunto alieno da qualunque forma di rispetto delle minoranze, delle opposizioni.
Ma oggi questi schemi sono completamente saltati: nell’era delle autocrazie, anche quella parvenza di garanzia dei diritti umani, civili e sociali che era propria di un grande paese come gli Stati Uniti d’America è venuta meno o sta venendo meno. Quant’anche lo stesso Trump non può oggettivamente affermare di poter controllare l’interezza dell’apparato del governo federale che, come si sa, non coincide esclusivamente con l’esecutivo ma è data dalla convergenza di fattori, di poteri, di istituzioni molto differenti fra loro: governo, Congresso, magistratura.
La cara vecchia separazione ed equipollenza che, nonostante il carattere presidenziale della Repubblica americana, è fatta di quei pesi e contrappesi tanto citati e altrettanto disattesi. Ma comunque pur sempre esistenti. Ciò non toglie nulla, purtroppo, al carattere eversivo del trumpismo che impedisce oggi di guardare a Washington come ad una nazione certamente imperialista, ipercapitalista ma funzionante secondo le regole date dalla Costituzione. Caso analogo è Israele. La si cita spesso e volentieri come “unica democrazia del Medio Oriente“.
Lo è formalmente, de jure, perché la Knesset ne garantisce questa peculiarità. Ma l’emergenza di guerra in cui Netanyahu ha trascinato il suo paese dopo i fatti del 7 ottobre 2023 (e qualcuno dovrà un giorno spiegare come sia stato possibile per Hamas penetrare così a fondo nello Stato ebraico e perpetrare la strage di oltre mille e duecento civili, nonostante l’efficienza rinomata dei servizi segreti interni ed esterni), ha posto Israele nella condizione di tornare ad essere uno Stato guidato da una maggioranza politica ultraconservatrice e apertamente teocratica.
Qui il sionismo assume i connotati di qualcosa di più di un movimento nazionale. Diviene un nazionalismo becero, fatto di sopraffazione senza esclusione di colpi e mirante alla cancellazione della presenza del popolo palestinese dalla Palestina. La guerra di Gaza è lì a testimoniare l’atrocità della pulizia etnica e l’intento genocidiario che la Storia proverà come effetto di una chiara pianificazione governativa per l’omicidio, la reclusione, la repressione e l’esilio dei gazawi dalla Striscia e dei cisgiordani dalla West Bank.
L’imperialismo colpisce ancora e lo fa nel nome, sempre, di una grande storia: così come lo shahanshah Reza nel 1971 pregava sulla tomba di Ciro il Grande achemenide e se ne faceva praticamente erede e continuatore, così come Khomeini dichiarava a Persepoli, nel 1988, che «…dobbiamo considerare questi monumenti come un tesoro prezioso, in cui vedere la storia e l’umanità, l’Iran e gli iraniani che dobbiamo proteggere…», Netanyahu e Ben-Gvir perseguono l’obiettivo del consolidamento di un potere che nel primo caso salvi il premier israeliano dalla resa dei conti con la giustizia del suo paese, mentre nel secondo porti la destra religiosa a livelli mai visti.
Ci stanno riuscendo entrambi: non si può dire che i successi militari non siano all’ordine del giorno. Il prezzo sono decine di migliaia di morti a Gaza, la ferocia coloniale in Cisgiordania, i fronti aperti con Libano, Siria e Yemen degli Houthi e, da ultimo, la guerra contro l’Iran che ha già fatto cinquecento morti e oltre duemila feriti. Ma la vittoria totale cui aspirano queste auto-teocrazie moderne è irraggiungibile se non al prezzo di cambi di regime così drastici da rivoluzionare inevitabilmente molto di più dei singoli paesi che ne sono direttamente interessati.
Siamo, quindi, dentro una fase letteralmente dominata non dalla novità moderna della democrazia, monarchica o repubblicana che sia (meglio naturalmente la seconda!), non da poteri che rispondo alle masse e che, prima di dichiarare una guerra si confrontano con i parlamenti, con le opinioni pubbliche dei loro paesi. Ormai le guerre non vengono nemmeno più dichiarate. Un governo, costruita una bolla di menzogne che servono a supportare le false ragioni delle pulsioni imperialiste, invade uno Stato e lo fa nel nome della “propria difesa“.
Non è una novità. Certo. Anche George W. Bush aveva operato in questo senso dopo l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001. Il nemico era ovunque e non era un potere statuale. Anche se poi a farne le spese fu prima l’Afghanistan dei talebani “moderati” e poi l’Iraq di Saddam Hussein. Ciò che venne dopo è già Storia: i talebani estremisti dell’inconoscibile ed invisibile emiro Hibatullah Akhundzada da un lato, le fazioni religiose dall’altro. Il gioco era fatto: le regioni asiatiche e mediorientali erano destabilizzate al punto da poter essere sfruttate a piene mani.
E poi la tragedia della formazione del DAESH, dello Stato Islamico, coronò il capolavoro americano. Le peggiori creature dell’Occidente sfuggono alla sua mano e si fanno potere che vuole contare. Non si contano nemmeno più tutti i morti provocati da queste atrocità, da queste politiche imperialiste. Chi aveva sperato che con la fine dell’ISIS si sarebbe potuto raggiungere un nuovo equilibrio, seppure precario, nell’antica terra della Mezzaluna fertile, è rimasto ampiamente deluso. La crisi tra Israele e Iran è possibile oggi perché manca un altro nemico da affrontare.
Teheran diviene l’obiettivo perché il mosaico siriano è stato il terreno di prova della guerra attuale. Lì Israele oltrepassa la linea rossa: è a Damasco che uccide generali e comandanti dei Pasdaran nella sede consolare della Repubblica islamica. Avremmo dovuto intuire che sarebbe successo. Forse ce lo aspettavamo anche. Ma la crisi di Gaza aveva fatto pensare che il governo di Netanyahu non avrebbe aperto un altro fronte e, per di più, così gravoso… Le portaerei americane fanno rotta dal Pacifico verso il Golfo persico. La vera grande, devastante guerra deve ancora iniziare…
MARCO SFERINI
17 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria