Se Meloni vota per finta, noi votiamo per davvero

«La Repubblica nasce dal voto» dice il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 79° anniversario della nascita della stessa con il referendum del 2 giugno 1946, ed...

«La Repubblica nasce dal voto» dice il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 79° anniversario della nascita della stessa con il referendum del 2 giugno 1946, ed il voto rimane una conquista di civiltà, una acquisizione di un potere sovrano da parte di un popolo e, nello specifico, di quello italiano che in quel modo si sbarazzò di una monarchia corrotta e imputridita da un collaborazionismo col regime di Mussolini durato dal 1922 al 1943 senza altri spargimenti di sangue, senza rivolte, senza rivoluzioni.

La guerra civile, che per troppo tempo si omise di chiamare in questo modo, aveva lacerato ancora di più l’Italia dell’ultima fase di una guerra in cui l’alleanza con la Germania di Hitler si era trasformata in una prigionia, in una occupazione terroristica, orrorifica, fatta di rastrellamenti, deportazioni, eccidi ed efferati altri crimini contro la popolazione civile. Il voto in epoca fascista non era previsto: l’opinione degli italiani al fascismo non interessava e, comunque, caso mai a Mussolini e alla sua cerchia potesse anche essere vagamente interessata, sarebbe stata un’opinione viziata dalla coercizione quotidiana del regime dittatoriale.

La riconquista del voto, dunque, è in quel 2 giugno 1946 un passo davvero epocale: per la prima volta si possono esprimere tutte e tutti. Anche le donne. Il suffragio diviene universale e non riguarda più soltanto gli uomini e, tra questi, i più benestanti oltre agli aristocratici. La Repubblica diviene simbolo effettivo, manifestazione oggettiva di una uguaglianza condivisa e percepita come qualcosa che non si era mai visto: nemmeno, appunto, nel tempo del regno sabaudo costituzionale e liberale. Ma, si sa, la corruzione genera sospetto incedente, aumenta il qualunquismo e il populismo, perché la sua recidività è indice di mal costume diffuso, di antieticità, di “sistema” vero e proprio.

La democrazia, in sé e per sé non ne avrebbe alcuna colpa; ma, proprio per questo, diviene facilmente preda di una correlazione diretta con la corruzione medesima: troppa libertà – afferma qualcuno che ama la forza del potere e i poteri forti al tempo stesso… – è causa di comportamenti irrefrenabili che spostano l’interesse dal pubblico al privato. Pazienza se a causare tutto questo è proprio l’intromissione del privato nelle istituzioni e se si finisce per non vedere più la dipendenza delle sovrastrutture istituzionali dalla struttura economica innervata dal capitale. Le destre sono sempre pronte ad approfittare dei pertugi lasciati aperti dalle possibilità democratiche.

Il nazismo arrivò al potere passando attraverso più e più tornate elettorali, ingrandendo sempre più la originaria pattuglia di deputati dell’NSDAP. Il fascismo fece il colpo di Stato benedetto dalla monarchia: la marcia su Roma. La prima cosa che questi regimi totalitari (anzitutto quello mussoliniano) fecero fu rendere il voto sempre meno essenziale, considerando la partecipazione popolare alla vita pubblica come mero sostegno di massa e di piazza nei confronti dei nuovi regimi e attivando il meccanismo dell’acclamazione, dell’adorazione addirittura del leader, esautorando del tutto il Parlamento da un lato, il Reichstag dall’altro.

Chi oggi ritiene che pericoli di questa natura siano del tutto anacronistici è in errore: la Storia non si ripresenterà mai in quelle forme, tempi e modi, ma l’autoritarismo non conosce una sola stagione, è una proprietà reagente di una serie di convergenze e di fattori che, partendo dal coagulo di interessi economici e politici messi insieme, arriva a determinarsi come soluzione di una stabilità in tempi soprattutto di grave crisi sociale. Così è stato nel Novecento, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale, così può tornare ad essere in tempi come quelli attuali in cui alle stagioni pandemiche si sono susseguite le guerre regionali per ridare una fisionomia alla competizione mondiale.

Il multipolarismo ha dato adito ad una spietata forma di concorrenzialità iperliberista tra i continenti, tra le nazioni già emergenti e quelle in attuale emersione. L’Italia, in questa contesa, entro i confini e i paradigmi politico-economico-finanziari dell’Unione Europea, ha conosciuto una altalenante fase di rimodulazione della propria fisionomia istituzionale attraverso i tentativi di rimaneggiamento della Costituzione per sovvertirne apertamente il carattere universalistico in materia, anzitutto, di diritti sociali. Non di meno, comunque, alcuni governi (come il Conte I e l’attuale esecutivo meloniano) hanno portato l’attacco anche ai diritti umani e civili. Non si è trattato, e non si tratta, soltanto di conseguenze di distorsioni date dalle leggi elettorali.

Le alleanze di governo che ne sono venute fuori, come nel caso del Conte I, hanno saldato interessi di compromesso che si sono rivelate temerarie compromissioni per chi era meno a destra di altri (il Movimento 5 Stelle rispetto alla Lega salviniana), mentre hanno consentito alle forze più reazionarie di mettere in moto la saldatura tra liberismo e ruolo dello Stato al suo completo servizio: aumentando così le tutele dei privilegi padronali e restringendo le garanzie del mondo del lavoro tanto stabile quanto precario. Centrosinistra e centrodestra hanno fatto a gara, negli anni passati, nella destrutturazione delle reti di protezione che permettevano alle lavoratrici e ai lavoratori di essere, mediante il sindacato, la parte sociale.

Non che il sindacato stesso non abbia avuto delle responsabilità in questo lungo processo di contenimento dei diritti del mondo del lavoro: una certa timidezza nel contrastare le controriforme di governi cosiddetti “amici” (perché formati da partiti di centrosinistra) è ormai storicamente verificabile. E le contrattazioni hanno, quindi, seguito l’onda lunga di una ristrutturazione capitalistica della società che ha avuto come paradigma solo ed esclusivamente i dividendi delle grandi aziende e, in generale, il mercato e i suoi spietati interessi. Tuttavia, il sindacato stesso (o per meglio dire alcuni sindacati come CGIL e UIL) ha saputo riconoscere in questi ultimi anni la svolta pericolosa determinata dalle politiche privatizzatrici, dalla flessibilità, dalla precarietà.

Non c’è dubbio alcuno sul fatto che, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni e della sua maggioranza neoautoritaria, abbia accelerato una induzione alla critica nei confronti del patto tra industriali e governo nell’ottenere sempre maggiori prebende e profitti a tutto scapito del mondo del lavoro e del disagio sociale già ampiamente diffuso. Non si può, del resto, negare che la CGIL abbia, forse un po’ temerariamente, impostato una inversione di rotta molto netta facendo leva, per il recupero dei diritti sociali, sullo strumento più ardito tra tutti: il referendum. Chiamare tutto il popolo italiano a decidere su temi così rilevanti, come quelli dei cinque quesiti dell’8 e 9 giugno, è un rischio boomerang, ma è anche una grandissima opportunità di rivalsa.

Di rivalsa anche del sindacato che vede minacciata, come molte altre istanze sociali, culturali e politiche, la sua autonomia e la sua rappresentanza dei diritti di decine di milioni di italiani; ma soprattutto di rivalsa del lavoro nei confronti di un capitale che ha investito praticamente tutto sulla tenuta di questo governo autoritario, che formalmente accetta le istituzioni repubblicane ma che, nel suo profondo intimo, per provenienza storica, politica e pseudo-culturale, le sente molto lontane (per non dire di peggio…). I neofascisti al governo del Paese si sperticano le mani applaudendo la Costituzione; la incensano in televisione, quasi fossero stati i loro progenitori repubblichini a scriverla…

Nei fatti, ogni giorno lavorano per restringere le tutele sociali, per compartimentare i bisogni, per privilegiare la ricchezza e colpevolizzare la povertà. I referendum proposti dalla CGIL, compreso quello sulla cittadinanza, sono una enorme occasione di cambiamento sociale e, se il quorum sarà raggiunto e vinceranno i SÌ, vorrà significare che la maggioranza del popolo italiano dissente da questo governo, dalle sue politiche belliche, dalla spesa militare invece che per i più necessari bisogni sanitari, scolastici, infrastrutturali, ambientali, eccetera, eccetera. E vorrà dire che Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, Antonio Tajani e Matteo Salvini non sono riusciti a convincere sul fatto di ritenere il voto referendario inferiore per potenzialità a quello politico.

Ogni voto è importante: ogni elezione, ogni decisione presa nelle urne, lo si voglia o meno, condiziona la vita pubblica del Paese e ha risvolti su tutto ciò che ci circonda. L’astensione è una opzione? Indubbiamente, ed è diritto di ogni cittadino esercitarla. Ma la posta in gioco è davvero alta: i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, di decine di milioni di persone, sono in ballo e per questo il governo si sta spendendo per cercare di evitare che l’informazione si capillare, perché la diserzione dalle urne sia massiccia. Loro sanno cosa vuol dire reintrodurre tutta una serie di garanzie che limiterebbero di molto lo strapotere imprenditoriale di oggi. Loro sanno che sarebbe bocciata la loro politica economica, profondamente antisociale.

Loro sanno che si aprirebbero delle crepe nella maggioranza di destra se i referendum passassero con una buona percentuale di votanti e con una forte affermazione del SÌ. Loro lo sanno e noi dobbiamo convincere ancora chi è indeciso a farsi avanti, ad aver non fede ma fiducia nel proprio voto che è un diritto che, in questo caso, ci fa recuperare i nostri diritti. Giorgia Meloni svicola, prova a far stare insieme partecipazione e astensionismo: andrà al seggio ma rifiuterà le schede. Quindi farà finta di essere andata a votare e non sarà conteggiata nel quorum, perché chi non ritira le schede non entra a far parte del numero dei votanti. Certo, è un suo diritto. Ma essendo a capo del governo che dovrebbe invitare tutte e tutti a partecipare ai processi democratici, avrebbe dovuto dare l’esempio.

Invece il silenzio più totale sulle materie referendarie: nessuna parola sul lavoro precario, nessuna sugli infortuni e sull’articolo 18 che sarebbe reintrodotto. Figuriamoci sulla cittadinanza… Fumo negli occhi per le destre. Naturale che lei e i suoi corifei siano contrarissimi a tutti e cinque i quesiti. Questa prova di astensionismo è opportunismo politico. Naturale anche questo. Se è vero che la maggioranza degli italiani è contro l’invio delle armi nelle guerre, contro le guerre stesse e per una politica economica non bellica ma più sociale, i referendum dovrebbero vincere la sfida del quorum e affermarsi con i SÌ senza alcun timore. Purtroppo i meccanicismi funzionano molto poco in questi frangenti.

Tuttavia, bisogna stabilire un nesso tra le richieste dei promotori, per una maggiore giustizia nel mondo del lavoro e più diritti civili e umani, e l’interezza delle problematiche economiche dell’Italia che rischia uno scivolone niente meno che verso una vera e propria deriva autoritaria: meno diritti hanno lavoratrici e lavoratori, più la povertà cresce e si diffonde, maggiore è la possibilità di una torsione antidemocratica e una prevalenza dell’azione del governo su quella invece centrale del Parlamento. Con i referendum difendiamo non solo la partecipazione e ci riprendiamo i nostri diritti, ma sosteniamo anche un’azione politica contro chiunque pensi di proporre oggi o riproporre domani nuovi tagli alle garanzie sciali.

Loro si astengono, noi votiamo e facciamo in modo, tutte e tutti insieme, di essere decine, decine e decine di milioni. Davvero il futuro dei nostri figli e nipoti è, come non mai, nelle urne dell’8 e del 9 giugno prossimi.

MARCO SFERINI

3 giugno 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli